Il diritto finanziario, se ci è consentito l’esordio lieve, per un tema - invece - grave e serio, non è né complicato né crudele, è solo che, come Jessica Rabbit, talvolta i legislatori “lo disegnano così”.
La sentenza 11 febbraio 2015 n. 10 della Corte Costituzionale, in effetti, irrompe nella materia formulando delle affermazioni, in motivazione, che, se non adeguatamente isolate, comprese e contestualizzate, rischiano di creare effetti preoccupanti sull’ordinamento giuridico.
La sentenza concerne la c.d. Robin Tax, la addizionale sui c.d. extraprofitti dei produttori petroliferi (e non solo): una imposta ad hoc sui redditi delle compagnie petrolifere (e non solo, anche altre energie meno “politicamente scorrette”).
La premessa di fondo del ragionamento verte su una questione molto importante, che viene affrontata e risolta, a nostro modestissimo avviso, in modo ampiamente condivisibile.
Il problema concreto è: in generale, e, a maggior ragione, in tempi di crisi, si può stabilire un livello di tassazione che dipenda non solo dall’entità quantitativa della ricchezza, ma anche dalla sua qualità?
Si tratta di un tema tutt’altro che nuovo, e anzi classico, della fiscalità: la discriminazione qualitativa della ricchezza. In effetti, a parità di valore, ci sono ricchezze molto diverse, e molto diverse anche dal punto di vista della misurazione della capacità contributiva. Lasciando da parte altre possibili giustificazioni (ad esempio, i costi sociali indotti dalla produzione delle diverse fonti, come in materia ambientale e simili) due ricchezze di 100 possono anche “valere” diversamente, a seconda di quanto ne sia stato “faticoso” o “certo” il prodursi e il riprodursi. È la antica distinzione tra i redditi “fondati” (su capitale) e quelli non “fondati” (sul lavoro).
Così come non sarebbe equo sottoporre alla stessa tassazione 300 mila euro di liquidazione di un pensionato e 300 mila euro di ingaggio di un calciatore (laddove la differenza è nel tempo in cui la ricchezza si è prodotta), così può essere legittimo, in base al principio di capacità contributiva e solidarietà, sottoporre a una maggiore tassazione certi redditi perché meno “faticati”, pur a parità di importo, di altri.
Per questa parte, la sentenza è certamente sommamente apprezzabile, visto che riporta al centro del dibattito sulla fiscalità un argomento caduto in disuso. Argomento sicuramente delicato, ma importante, specie in un periodo in cui le ristrettezze economiche chiamano a un rigoroso vaglio della attuazione dei doveri di solidarietà.
La sentenza, poi, ritiene che la Robin Tax, fosse contraria ai principi fondamentali di razionalità e capacità contributiva. I motivi di questa decisione non interessano in questa sede, si può solo dire che, tra l’altro, la sentenza rileva che, crollato il prezzo del petrolio, era crollato anche il fondamento del surplus di tassazione (guadagni dipendenti dall’andamento anomalo e del tutto sganciato dalla attività del produttore dei prezzi).
La cosa che interessa qui è che la Corte afferma a chiare lettere che l’imposta era (diventata) contraria alla Costituzione.
Giunti a questo punto, ci si sarebbe potuti aspettare che l’ordito motivazionale andasse diritto alla conclusione: poichéora l’imposta non ha più giustificazione, da ora (cioè da quando la realtà economica la ha resa assurda) essa è incostituzionale.
E invece no.
La Corte, per giungere alla conclusione, che tutto sommato poteva parere condivisibile nella sostanza, di limitare al futuro gli effetti della decisione, sceglie una strada molto più impervia.
E pericolosa.
Essa si domanda se sia nei poteri della Corte limitare l’efficacia temporale dei suoi dicta.
Questione di gran peso concettuale, innanzitutto, ma, come si è detto, forse non necessaria.
E risponde positivamente, assumendo che si potrebbero limitare gli effetti quando la applicazione a tutti i rapporti pendenti possa considerarsi a sua volta contraria a principi fondamentali.
Se, fino a qui, a parte la scelta argomentativa forse, modestamente, più tortuosa del necessario, allo studioso dei diritti fondamentali non venivano suscitate particolari perplessità, ecco che la sentenza inanella affermazioni che meritano riflessione.
La prima, sul piano squisitamente tecnico, è che la sentenza, reiteratamente e testualmente, afferma che sarebbe consentita una tassazione diversa a seconda dei soggetti. Si tratta di una affermazione che corrisponde a un uso non pienamente sorvegliato del linguaggio tecnico della materia del diritto finanziario.
L’affermazione della sentenza, in senso proprio e e letterale, è certamente errata.
Ciò che si tassa è la ricchezza, non il soggetto che la possiede. Non si tassano i ricchi o i poveri, gli imprenditori o gli operai, i petrolieri o i finanzieri, gli operai o i cassintegrati, i caucasici o gli arabi, le donne o gli uomini, i buoni o i cattivi, gli onesti o i delinquenti.
Si tassa e si deve tassare in modo adeguato a garantire il pieno adempimento del loro dovere di solidarietà, la loro ricchezza.
A seconda dei casi, la tassazione giusta è quella proporzionale (tutti contribuiscono con una quota uguale), progressiva (chi ha di più contribuisce con una quota maggiore), o al limite discriminata qualitativamente, tassando di più la ricchezza più “facile” (la ricchezza meno faticata sconta aliquote maggiori a parita di importo).
Ma il presupposto (è la conquista della Rivoluzione Francese, e il presupposto della relativa pace sociale e progresso successivi, non una cosa da poco) non è la “categoria”, “gruppo” o“classe” personale del contribuente, ma il tipo e l’entità della ricchezza (da accertarsi certo rigorosamente).
Tale precisazione potrebbe apparire il frutto di una pignoleria accademica, ma sono molteplici gli indicatori, più che nella sentenza, nella realtà socioeconomica del paese e dell’Europa, che fanno ritenere che tale richiamo, alla solidarietà e alla oggettività, alla pacatezza e all’equilibrio, quanto mai opportuno.
La seconda affermazione della sentenza, potenzialmente dirompente, è che il rispetto del pareggio di bilancio costituirebbe un valore costituzionale, di quelli che possono essere ponderati nel giudizio di costituzionalità. Il pareggio di bilancio giustificherebbe tributi altrimenti incostituzionali, perché ingiusti, sproporzionati, diseguali, quantomeno temporaneamente.
Un tributo ingiusto potrebbe essere dichiarato incostituzionale solo per il futuro per ragioni di bilancio.
Se questa parte della affermazione dovesse essere presa alla lettera e dovesse essere ritenuta il vero fondamento della decisioneci sarebbe, francamente, di che allarmarsi.
Si è già rilevato sopra che il fondamento sostanziale della decisione poteva essere - e forse era - altro (l’imposta non era nata incostituzionale, ma la era diventata), ma la motivazione impone di formulare comunque delle serie e importanti considerazioni critiche.
Se intesa alla lettera e ritenuta il vero fondamento della decisione, quella argomentazione equivarrebbe a riconoscere che la Corte avrebbe affermato non che le esigenze di bilancio richiedono sacrifici, non che la crisi economica giustifica maggiori sacrifici (affermazioni dolorose ma sacrosante e ineccepibili), ma che la crisi economica giustifica, almeno per un po’ di tempo, qualsiasi sacrificio, anche quello diseguale, sproporzionato, ingiusto.
Presa alla lettera, questa parte della motivazione significherebbe, ancora, che non posso lamentarmi delle ingiustizie, se c’è la necessità di “riempire la cassa” per tener dietro ai vincoli europei.
Si tratta di una affermazione molto delicata.
Essa equivale a dire che, insomma, il bisogno giustifica non il sacrificio, ma l’ingiustizia.
Che, per usare una metafora forzata ma chiara, se il primario si accorge che in sala operatoria si stanno impiantando valvole cardiache difettose, si cominciano a impiantare quelle funzionanti solo ai pazienti futuri. E che ciò sarebbe giustificato dal fatto che le valvole cardiache servono a operare i pazienti che ne hanno bisogno.
È vero che c’è bisogno di operare i malati di cuore, ma impiantando valvole sane: quel bisogno non giustifica l’errore né impedisce che si rimedi.
È vero che ci sono ristrettezze di bilancio, ma vanno coperte da chi ha il dovere di farlo.
Si può benissimo tenere in equilibrio il bilancio facen2do le cose giuste.
Si deve farlo.
Altrimenti, è come dire che il creditore che ha escusso il debitore sbagliato ha comunque ragione perché… il credito esisteva.
Nessuno discute né la crisi, né la doverosità di un contributo maggiorato di chi ha di più, ma va solo ribadito che appare illogico, su questa premessa, giustificare il contributo di chi, nello stesso contesto della sentenza, si nega avesse di più e dovesse pagare.
Ciò non pare giustificato neppure in termini transitori.
Sempre per ricorrere a una metafora lieve, argomentare in questi termini equivale ad affermare che non è maleducazione pestare i piedi al viaggiatore vicino a te nella metro, ma solo pestarglieli per tanto tempo.
Ma quanto a lungo? Quante volte?
Nella metafora, fino a che non interviene il controllore.
Nella sentenza, fino a che non interviene la Corte Costituzionale.
Si è già rilevato che probabilmente non era quello il reale fondamento della decisione (che, più semplicemente era che la Robin Tax era solo diventata ingiusta quando erano venuti meno gli extraprofitti).
Ma la scelta argomentativa della sentenza crea un pericolo da sottolineare con forza.
Affermare, invece che“”ingiustizia nel passato non c’è stata”, la completamente diversa cosa:“l’ingiustizia c’è già stata ma può essere tollerata perché l’Europa ci chiede di tenere in ordine i conti” apre una porta pericolosa
Una porta nella quale, è meglio sottolinearlo in quello che si spera sia solo un eccesso di prudenza, potrebbe passare qualsiasi cosa, ai danni di chiunque.
I principi fondamentali vanno ribaditi e tutelati.
Altrimenti, oggi era in gioco l’addizionale sugli extraprofitti petroliferi (ma non solo, anche quelli della green economy…), domani potrebbero essere le pensioni e dopodomani i livelli minimi di assistenza: aver espressamente affermato che i principi fondamentali sono derogabili crea il rischio che non si sappia più mettere a freno alla deroga e all’arbitrio.
E che, invece che avere come stella polare, condivisa e indiscussa, la tutela nei principi fondamentali, ci si debba tutelare con la forza della ideologia prevalente nel momento, o con la difesa corporativa.
Il pericolo è grande.
E a sintetizzarlo vien bene la nota poesia di Martin Niemöller, che recita: “Prima vennero per i comunisti | e io non alzai la voce | perché non ero un comunista. | Poi vennero per i socialdemocratici | e io non alzai la voce | perché non ero un socialdemocratico. | Poi vennero per i sindacalisti | e io non alzai la voce | perché non ero un sindacalista. | Poi vennero per gli ebrei | e io non alzai la voce | perché non ero un ebreo. | Poi vennero per me | e allora non era rimasto nessuno | ad alzare la voce per me.”
I petrolieri (o i produttori di energia pulita) di oggi potrebbero essere, se cambia il vento e la crisi morde,i pensionati domani e i malati bisognosi di assistenza dopodomani (come già oggi sono i migranti e tutti gli ultimi cui si lascia in mano il cerino).
Il diritto finanziario è certamente… finanziario ma è pur sempre, e prima di tutto, un “diritto”. E dobbiamo tutti sorvegliare perché non perda tale caratteristica
Abbandonare la bussola dei principi significa abbandonare la nave del diritto e consegnarsi ai flutti di un mare di arbitrio e incertezza rispetto al quale non ci sarebbe alcuna difesa.
Un gravissimo errore, viste le previsioni del tempo.