Il titolo di uno dei capolavori della letteratura inglese dell’inizio del Novecento è la migliore intestazione per un articolo che vuole portare il lettore italiano a conoscenza delle sorti giudiziarie di Hissene Habré, l’uomo che, secondo l’accusa, ha governato con il terrore il Paese dell’Africa Centro-Settentrionale nell’intera decade degli anni Ottanta del secolo passato.
Il senso di disagio, di disgusto ed infine di angoscia che assale il lettore del romanzo di Joseph Conrad e delle vicende dell’avventuriero Kurtz che nel romanzo sono narrate, è lo stesso che prova chi affronti le 42 pagine della relazione della Commissione di riconciliazione e Giustizia, stabilita poco dopo la caduta del regime di Habrè (1990) per l’accertamento e la memorializzazione delle malefatte del dittatore.
Il documento conclusivo dei lavori della Commissione (che può essere letto qui http://www.usip.org/sites/default/files/file/resources/collections/commissions/Chad-Report.pdf) ha costituito la base ed il paradigma di ogni successivo sviluppo che ha portato alla creazione di una corte ad hoc.
Nella relazione sono riportate e documentate, nella forma succinta propria di un testo che sintetizza dieci anni di storia ciadiana in poche decine di pagine, le tecniche adottate dal dittatore africano una volta pervenuto alla Presidenza della Repubblica, per consolidare il potere proprio e della propria famiglia, e per allontanare il rischio che si creasse una opposizione al regime che aveva instaurato.
Si è trattato, come è facile immaginare, di tecniche illecite che includevano l’uso sistematico della tortura su larga scala, nonché la sparizione degli oppositori politici. A tal fine era stata costituita una forza di polizia specializzata, la famigerata DDS -Direction de la documentation et de la sécurité- i cui archivi, scoperti e resi pubblici solo a distanza di un decennio, costituiscono una formidabile documentazione utilizzabile nel processo.
Inoltre, esecuzioni esemplari nei villaggi ‘ribelli’ e la pulizia etnica contro le tribù Sara, Zaghawa e Hadjerai sono state prassi ricorrenti negli anni del potere di Habré, ogni qualvolta venisse percepito (o semplicemente ipotizzato) il rischio di opposizione al regime.
La Commissione è giunta a conclusioni drastiche: si afferma che nei confronti dell’intera popolazione del Paese centroafricano è stato commesso un genocidio. Ciò perché ad esclusione di un ristretto numero di famiglie di etnia Gorane (quella del Presidente) ogni tribù, gruppo etnico e strato sociale è stato colpito in profondità dalla macchina del terrore che –come accertato dalla Commissione- riceveva ordini direttamente da Habré.
La Commissione dichiara di aver identificato quasi 4.000 vittime civili del regime.
La stessa Commissione tuttavia precisa che si tratta di un dato parziale poiché “il lavoro della Commissione ha potuto coprire non più del 10% di quanto accaduto”; “in conseguenza di ciò, il numero delle persone morte in prigione o ammazzate dal regine di Habré è stimato a più di 40.000 a livello nazionale”. Le vittime sono civili; al bodycount vanno pertanto aggiunti i morti in azione, nel corso della resistenza armata al regime di Habré.
In ogni caso, si tratta di stime assai approssimative, da trattare con estrema cautela, non utilizzabili in sede processuale.
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Come mai il processo inizia solo ora e perché in Senegal?
La seconda domanda ha una risposta semplice: alla caduta del regime (1 Dicembre 1990) Hissene Habré si è rifugiato dapprima in Camerun e quindi nel Paese della costa Ovest dell’Africa, che gli assicurava maggiore protezione.
Quanto alla prima parte della domanda (perché ci sono voluti tanti anni?), occorre innanzi tutto ricordare che i fatti sono accaduti oltre un decennio prima che la idea stessa di una giurisdizione internazionale ‘globale’ si materializzasse. Inoltre, la situazione dei diritti umani all’interno di un Paese era ancora vista, all’epoca, come una questione interna.
Infine, le ‘crisi africane’ erano intese, a livello diplomatico, come un riflesso della Guerra Fredda che si andava esaurendo in quegli anni mentre l’opinione pubblica internazionale le giudicava come remote tragedie, frutto della arretratezza culturale e della barbarie dei Paesi nei quali si verificavano.
Ulteriori fattori hanno poi reso difficoltoso il percorso verso la costituzione di un tribunale ad hoc.
Vediamoli brevemente in ordine cronologico.
Anno 2000 (ci sono voluti dieci anni, il genocidio ruandese e la costituzione dell’ICTR nel 1994, per prendere coscienza che un ex Presidente potesse essere tratto a giudizio per i suoi misfatti): su denuncia di un gruppo di vittime ciadiane, un magistrato senegalese (Demba Kandji) ha richiesto il rinvio a giudizio di Habré per “complicità in tortura, atti barbarici e crimini contro l’umanità”. Il conseguente processo ebbe tuttavia vita breve: i difensori dell’ex Presidente fecero ricorrono alla Corte d’Appello di Dakar che annullò l’ordine di rinvio a giudizio affermando che nessuna corte Senegalese potesse giudicare le accuse perché i fatti non erano stati commessi in Senegal.
La decisione, pur formalmente ineccepibile perché fondata sul canone tradizionale della carenza di giurisdizione in relazione al locus commissi delicti ha tuttavia attratto molte critiche per l’ingerenza del Consiglio Superiore della Magistratura Senegalese: mentre il caso era ancora ‘sub judice’ l’organo di autogoverno della magistratura del Paese francofono intervenne disponendo la rimozione di Demba Kandji dall’investigazione ed al tempo stesso promovendo il giudice della Corte d’Appello al quale il caso era assegnato. Inevitabilmente, queste circostanze furono oggetto di critica e ragione di preoccupazione in un rapporto dello Special Rapporteur on the independence of Judges delle Nazioni Unite.
A ciò si deve aggiungere che il presidente del CSM che ha adottato i criticati provvedimenti era il neo eletto Presidente della Repubblica Abdoulaye Wade, rieletto successivamente fino al 2012. Ciò contribuisce a spiegare le resistenze che può avere incontrato per oltre un decennio da parte dell’establishment senegalese l’idea di processare Habré a Dakar.
Anno 2001: Un’indagine viene aperta a Bruxelles su denuncia di vittime del regime Habrè residenti in Belgio. Sono gli anni (1993-2003) in cui il Belgio afferma la propria “giurisdizione universale” in materia di crimini di guerra e contro l’umanità, indipendentemente dal luogo di commissione del delitto e dalla nazionalità delle vittime o dell’accusato.
Il Presidente Wade si dichiara favorevole all’estradizione in Belgio, se un Paese è in grado di organizzare un ‘fair trial’ e, su richiesta delle Nazioni Unite, accetta di trattenere Habré in Senegal fino ad una eventuale richiesta di estradizione.
Richiesta che arriva tuttavia solo nel Settembre del 2005, al termine della indagine belga.
Habré viene arrestato ma rilasciato nel giro di appena 10 giorni, a seguito della decisione della Corte d’Appello di Dakar che, su richiesta del Procuratore Capo, ribadisce la carenza di giurisdizione.
Seguono anni di intensa azione diplomatica da parte del Belgio (che si rivolge alla Corte Internazionale di Giustizia), della Unione Africana (che chiede al Senegal di processare Habré “per conto dell’Africa”) e delle Nazioni Unite (che insistono affinché il Senegal processi Habré o ne consenta l’estrazione, al fine di far cessare lo stallo).
Tutti gli sforzi si infrangono contro le resistenze del Presidente Abdoulaye Wade, che con promesse e ritirate, iniziative legislative apparentemente favorevoli seguite da richieste di sovvenzioni ai donors internazionali quale condizione per procedere, differisce ogni positivo sviluppo fino alla fine della sua presidenza, conclusasi nel 2012.
Nell’Aprile 2012 il nuovo Presidente del Senegal (Macky Sall) viene eletto. Già in Giugno, dopo aver ricevuto l’ordine della Corte Internazionale di Giustizia, di giudicare Habrè o di estradarlo in Belgio, il Senegal e l’Unione Africana siglano un accordo che crea le Camere Straordinarie Africane (Chambres Africaines Extraordinaires, C.A.E.) nel sistema giudiziale Senegalese. Contestualmente viene adottato lo statuto della nuova corte ibrida, che viene inaugurata ufficialmente nel Febbraio del 2013.
I due anni che seguono (Febbraio 2013 – Febbraio 2015) vedono l’ufficio della Procura presso le Camere Straordinarie, impegnato in una serie di rogatorie in Ciad, per l’assunzione di migliaia di testimoni, crime scene inspections, scavo di siti ed esumazioni di resti delle vittime del regime.
Infine, nel Febbraio 2015, viene depositata la richiesta di rinvio a giudizio davanti al tribunale ad hoc, nel frattempo costituito da giudici senegalesi ed un giudice del Burkina-Faso, nominato presidente del collegio giudicante dalla Presidente della Commissione dell’Unione Africa.
Il processo, formalmente aperto il 20 Luglio 2015, è stato immediatamente rinviato a questa settimana, dopo le verifiche preliminari sulla costituzione del collegio giudicante, delle parti e delle difese.
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Dopo l’apertura formale avvenuta a fine Luglio, il processo entra ora nel vivo.
Definito enfaticamente ‘l’evento dell’anno nel campo del diritto penale internazionale’ (The New York Times, 27 Luglio), il processo rischia tuttavia di divenire una passerella per l’imputato ed un fiasco per la giustizia.
Ciò non tanto per l’oggettiva difficoltà di portare a compimento un procedimento relativo a fatti ormai remoti e con un numero elevatissimo di testimoni (oltre un migliaio) che vengono da ogni regione del Ciad. Quanto per l’atteggiamento dell’imputato.
Infatti, fin dall’ingresso in aula, il primo giorno d’udienza, Hissene Habré ha dato un saggio di cosa possa divenire un processo quando l’imputato ed i suoi difensori non riconoscano l’autorità della Corte e vogliano strumentalizzare e spettacolarizzare la propria detenzione.
Dopo aver rinominato il collegio giudicante “comité administratif extraordinaire”, Habré ha accusato i giudici di essere dei ‘semplici funzionari incaricati di eseguire una missione politica’.
E quale sarebbe questa missione politica?
Non c’è una sola risposta al quesito, dato che, come il romanzo di Joseph Conrad che dà il titolo a questo articolo, il processo si presta a più interpretazioni.
Cuore di tenebra può essere letto come una critica al colonialismo (un precursore romanzesco del saggio di Lenin “Imperialismo fase suprema del capitalismo” del 1916). Ovvero come metafora del delirio di onnipotenza dell’Occidente, che nella sua brama di conquista esprime una illimitata volontà di dominio sulla realtà anche a rischio dell’autodistruzione (ciò spiega il titolo del romanzo nonché le celebri ultime parole di Kurtz sul letto di morte: “The horror! The horror!”).
Quanto alla missione politica attuata attraverso il processo di Dakar, a dar credito alle urla di Hissene Habré all’apertura del processo (“Abbasso l’imperialismo! Abbasso i traditori! Allahu Akbar!”) ed alle accuse mosse ai giudici, egli sarebbe semplicemente il capo espiatorio di tutti i misfatti compiuti nel continente africano fino alla decade passata. Egli in sostanza pagherebbe per tutti, pur essendo stato sostenuto, nel corso degli otto anni passati da Presidente del Ciad, sia dalla Francia che dagli Stati Uniti d’America, che vedevano in lui un baluardo contro l’espansionismo della Libia di Gheddafi verso il Centro-Africa.
In questo senso, la condotta processuale di Hissene Habré ricalca quella di altri ex Presidenti o politici tratti alla sbarra di corti internazionali. Limitandosi all’ICTY, si possono ricordare i casi di Slobodan Milošević, che ha preteso di portare il processo su un livello politico anziché giudiziario, ovvero quello di Vojislav Šešelj, che durante l’intero processo ha sistematicamente insultato la corte e l’ufficio del Procuratore internazionale (leggi qui)
Ma come detto, vi è anche un altro piano interpretativo: Hissene Habré sarebbe vittima di un ‘esperimento giudiziale’.
Il processo contro l’ex dittatore ciadiano sarebbe il primo tentativo di sottrarre l’Africa alla giurisdizione della Corte Penale Internazionale.
È nota infatti (il tema è stato affrontato anche su queste pagine
http://www.questionegiustizia.it/articolo/la-corte-penale-internazionale-e-la-questione-africana-_05-11-2013.php) la crescente diffidenza dei Paesi africani nei confronti della giurisdizione penale internazionale, accusata di indagare e processare solamente ‘casi africani’.
Il processo Habré aprirebbe la strada alla giurisdizione domestica africana, più volte evocata dall’Unione Africana che ha lanciato in progetto per questo. Il processo di regionalizzazione della giustizia penale internazionale necessiterebbe di test-cases con i quali dimostrare la maturità del Continente e dei suoi giuristi, oramai in grado di amministrare efficacemente la giustizia di livello sovranazionale.
Se così fosse, l’eventuale fallimento del processo per l’incapacità dei giudici di ‘contenere’ l’imputato e di amministrare giustizia in un caso sotto i riflettori dei media internazionali (con esclusione dell’Italia…) potrebbe rivelarsi un boomerang.
Sull’ipotesi di una giustizia penale continentale africana, si possono ricordare le parole dell’attuale Presidente della Corte d’Appello di Dakar (Demba Kandji, già menzionato in questo articolo come il Procuratore che nel 2000 fu ‘allontanato’ dal caso), che in un recente convegno in Senegal ha ammesso che “se il Continente vuole avere un ruolo nella giustizia internazionale occore che riconosca la carenza di formazione dei giudici, degli avvocati … e che tenti di porvi rimedio preparandoli”.
In conclusione, nel processo in corso si intrecciano in sede giudiziaria, il passato ed il futuro del continente africano.