Magistratura democratica
giustizia internazionale

L’Assemblea degli Stati Parte
allo Statuto di Roma

di Cuno Tarfusser
Giudice e Vicepresidente della Corte Penale Internazionale
Al centro dei lavori i rapporti tra CPI e Stati africani; nuove norme procedurali "ad hoc" disinnescano la crisi innescata dal caso Kenyatta
L’Assemblea degli Stati Parte<br>allo Statuto di Roma

Giovedì 28 novembre si è conclusa all’Aja, dopo una settimana di lavori, l’Assemblea degli Stati Parte (“ASP”) allo Statuto di Roma (“SR”) istitutivo della Corte Penale Internazionale (“CPI”). Oltre a rappresentanze dei 122 Stati che sin ad oggi hanno ratificato lo SR, all’assemblea hanno partecipato, in veste di osservatori, anche rappresentanze di Paesi che ancora non hanno ratificato lo Statuto (Stati Uniti, Russia, Cina, per citare solo i maggiori) e di Organizzazioni Non Governative (ONG), sintomo questo dell’inalterato interesse per la CPI e la sua attività, ma soprattutto sintomo del fatto che, pur tra contrasti, difficoltà e contraddizioni, la comunità internazionale avverte ancora la necessità che “i delitti più gravi che riguardano l'insieme della comunità internazionale non possono rimanere impuniti”.

Tra le tante tematiche discusse in sede assembleare, due sono state quelle che hanno soprattutto catalizzato l’attenzione e l’interesse: il bilancio 2014 e la modifica di alcune norme processuali in un’ottica di maggiore efficienza dei procedimenti.

Dopo che il bilancio 2013 a causa della crisi economica è stato un bilancio a crescita zero rispetto a quello dell’anno precedente, per il bilancio 2014 la Corte ha chiesto un aumento di quasi il 12%, aumento che avrebbe dovuto andare a beneficio sopratutto della Procura (OTP) e del Registry. La richiesta di aumento è stata giustificata dall’OTP con la necessità di una riorganizzazione dell’ufficio e di un sostanzioso rinforzamento, sia del settore investigativo, sia di quello giuridico, cui sarebbe dovuto conseguire un aumento (assolutamente necessario!) della qualità del suo lavoro. La quota di aumento per il Registry è conseguenziale in quanto destinata a rafforzare i servizi direttamente collegati all’OTP specie in termini di tutela delle vittime e dei testimoni e di rinforzamento degli uffici di support in loco.

La proposta di bilancio 2014 che la Corte aveva sottoposto e discusso sin dal settembre scorso con il CBF è stata da questi ridotta a complessivi 121.656.000,00 € e in questo ammontare è proposto per l’approvazione all’ASP.

Nonostante il taglio di circa 5 milioni di Euro apportato dal CBF, diversi Stati con in prima linea ovviamente i maggiori contribuenti hanno animato la discussione in sede assembleare e sollevato obiezioni sul bilancio. Alla fine hanno prevalso gli Stati propensi a dare alla Corte, ma soprattutto all’OTP, che ora è davvero chiamato a fornire risultati migliori, un’apertura di credito.

Per quanto mi riguarda, è da quando sono arrivato alla Corte che guardo con scetticismo alla politica di bilancio della Corte. Da quando ne sono anche Vicepresidente e quindi sono coinvolto più direttamente nella gestione complessiva della Corte, questo mio scetticismo non è affatto scemato, anzi. Questa corsa a chiedere sempre più risorse personali, materiali e finanziarie senza mai fare una seria e approfondita analisi dell’esistente, non l’ho mai condivisa. Non l’ho condivisa quando ancora ero in Italia dove ho potuto constatare che, per quanto poche erano le risorse e quindi qualche ragione di lamento vi era davvero, esistono amplissimi margini di ottimizzazione, figuriamoci se la posso condividere ora che vivo e lavoro in un ambiente che, seppur molto più complesso di un organismo giudiziario italiano assimilabile, gode di ampie risorse: 120 Milioni di Euro e circa 900 addetti a vario livello a fronte di attività investigativa in otto paesi da cui sono scaturiti, ad oggi, 22 casi che si trovano in diverse fasi processuali con 35 tra indagati e imputati.

Certo, la complessità, non solo giudiziaria, ma anche logistica, linguistica e culturale, delle situazioni e dei casi trattati dalla CPI è difficile da far comprendere a chi le cose le vede solo dall’esterno, ma nessuna complessità giustifica, a mio parere, la continua richiesta di ulteriori risorse, pubbliche oltretutto.

L’altro grande tema che ha animato l’ASP è stato quello delle modifiche alle norme processuali ed in particolare alle Rules of Procedure and Evidence (RPE) normative.

Tre erano le tematiche e relative norme, sul tappeto: (i) la possibilità di tenere udienze preliminari e dibattimentali in situ, ovvero nel paese in cui i fatti oggetto del procedimento si sono svolti; (ii) la possibilità di acquisire agli atti del processo con valore di prova i verbali di testimoni divenuti irriperibili, e (iii) la possibilità, in un sistema che prevede l’obbligo della presenza dell’imputato durante tutto il dibattimento, per la Camera dibattimentale di tenere udienza dibattimentale anche in assenza dell’imputato.

Mentre le prime due ipotesi sono state approfonditamente discusse in tutte le sedi e con il coinvolgimento di tutti gli attori – Giudici, Procura, Avvocati, Registry e Stati – nel corso dell’anno, giungendo quindi all’ASP sotto forma di proposte su cui era stato raggiunto un accordo e l’approvazione da parte dell’ASP ne ha rappresentato solo l’atto formale di approvazione, il punto (iii) è stato anticipato da un’accesissima polemica, molto politica, tra African Union (AU), da una parte, la Corte, supportata da numerosi Stati, dall’altra.

La problematica di fondo, già ben illustrata dal collega Francesco Florit su queste pagine, è, in estrema sintesi, la seguente:

Nel 2011 la Camera preliminare II della Corte, di cui ero componente, ha confermato le imputazioni di crimini contro l’umanità commessi in occasione delle violenze postelettorali del dicembre 2007 a carico, tra gli altri, di Uhuru Kenyatta e di William Samoei Ruto, all’epoca dei fatti rispettivamente Ministro delle Finanze e leader dell’opposizione in Kenia, per i quali ordinava quindi il giudizio.

All’inizio del 2013 si sono svolte in Kenya le elezioni presidenziali ed entrambi gli imputati, riunitisi in ticket elettorale, sono stati eletti, Kenyatta Presidente e Ruto Vicepresidente del Kenia. In vista dei due processi a loro carico i due imputati hanno messo in moto ogni possibile azione per difendersi dal processo anzichè difendersi nel processo (nihil sub sole novi, almeno alle nostre latitudini…). A dare manforte ai due è intervenuta con grande veemenza e decisione l’African Union variamente accusando la Corte di essere neocolonialista, neoimperialista, razzista, a caccia degli africani, selettiva, strumento in mano ai paesi ricchi e comunque affermando che un Capo di Stato non può essere giudicato dalla Corte Penale Internazionale.

Il Parlamento keniota ha anche votato una risoluzione per uscire dallo Statuto di Roma e l’AU ha appoggiato questa iniziativa chiamando anche gli altri stati africani ad analoga iniziativa. Oltre a questo, il Kenia ha richiesto ufficialmente al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di bloccare i due processi attivando il meccanismo, mai attivato prima, previsto dall’art. 16 RS.

Fortissima era quindi la pressione, sia sulla Corte, ma sopratutto sull’ASP in quanto in quella sede gli Stati africani avrebbero certamente risollevato con veemenza e con tutto il peso del loro gruppo regionale la questione. E in effetti un’intera sessione di lavoro dell’assemblea, oltre a numerosissimi side-events, avevano come tema il rapporto tra ICC e gli Stati africani in ogni sua sfaccettatura, giudiziaria, politica, diplomatica, visto dalle vittime, visto dagli accusati.

Il maggiore ostacolo alla soluzione del problema era dato dall’articolo 63, I comma RS che rende la presenza dell’imputato al dibattimento obbligatoria. La norma non lascia adito a molte possibilità interpretative ed anche i lavori preparatori sono inequivoci nel pretendere la presenza fisica dell’imputato durante tutto il dibattimento.

Comprensibile però anche che la presenza fisica quasi continua per un arco temporale dei dibattimenti che si prevede non si esauriscano prima dei due – tre anni, renda quantomeno impossibile ai due eletti di svolgere il loro ruolo istituzionale.

Quid iuris, quindi?

Da un lato c’era da disinnescare un ordigno (la disdetta dello Statuto da parte di un numero consistente di paesi africani) che, se esploso, avrebbe minato nelle sue fondamenta la credibilità, non solo della Corte, ma di tutta la comunità internazionale, dall’altro c’era da mantenere uno dei principi base su cui fonda la Corte, ben radicato nello Statuto, e cioè l’irrilevanza della qualifica dell’imputato senza il quale la Corte non può assolvere il proprio mandato di giudicare i responsabili dei crimini internazionali che tendenzialmente sono ai vertici degli Stati.

In questo cammino lungo uno strettissimo crinale l’ASP ha trovato il consenso su tre norme nuove che sono immediatamente entrate in vigore. Fermo restando l’articolo 63 (I) RS, emendabile solo a seguito di ratifica da parte di tutti gli attuali 122, e quindi sostanzialmente inemendabile, l’assemblea legislativa ha introdotto tra le RPE le nuove regole 134 bis, ter e quarter che stabiliscono in estrema sintesi che:

1. L’accusato a piede libero può richiedere alla Camera dibattimentale di essere presente per parti del dibattimento via video;
2. L’accusato a piede libero può richiedere alla Camera dibattimentale in casi e circostanze eccezionali di essere assente e di essere rappresentato durante parti del dibattimento dal proprio difensore;
3. Un accusato che deve onorare obblighi pubblici nazionali ai massimi livelli può richiedere per iscritto alla Camera di poter essere assente dal dibattimento ed essere rappresentato dal difensore.

Non vi è dubbio che con l’approvazione di queste norme l’ASP si sia chinata alle pressioni degli stati africani. In particolare il terzo punto può tranquillamente essere chiamato “norma Kenyatta”. Detto questo, noi italiani dovremmo essere gli ultimi a indignarci per questo.

Per quanto mi riguarda, sono convinto che non ci sarebbe stato nessun bisogno di giungere fino a questo punto e che sin dall’affacciarsi del problema la Camera dibattimentale investita del caso e che sin da settembre ha iniziato il dibattimento a carico del Vicepresidente William Samoei Ruto avrebbe potuto disinnescare l’ordigno attraverso un’interpretazione, coraggiosa sì, ma non azzardata, dell’art. 63(I) RS. Bastava, a mio avviso, riconoscere che la presenza dell’imputato al dibattimento è un diritto e che questo diritto è disponibile per passare poi all’interpretazione della parola “presence” laddove la presenza può essere fisica, ma può anche essere presenza attraverso una terza persona, appositamente nominate, qualè il difensore di fiducia, conclusione cui è ora giunta anche l’ASP.

Decidendo in questo modo sin dalle prime battute del primo dei due processi kenioti, si sarebbero bagnate le polveri e si sarebbero evitati questi mesi di altissima tensione che hanno preceduto l’ASP, così come queste norme contorte e ad personam. Ma parlare a giuristi di provenienza da paesi del common law di trial in absentia è come parlare al diavolo dell’acqua santa. Ma anche questo perenne dualismo tra common law e civil law, tra diritto penale e diritto internazionale, tra diplomatici e giuristi, tra culture di ogni dove, è parte del fascino di questa mia esperienza alla Corte Penale Internazionale.

 

 

10/12/2013
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