Magistratura democratica
giustizia internazionale

La Corte penale internazionale
e la ‘questione africana’

di Francesco Florit
Giudice del Tribunale di Udine
Il caso Kenyatta e il mutato atteggiamento dell'Africa nei confronti della CPI/ICC
La Corte penale internazionale<br>e la ‘questione africana’

Con una decisione pronunciata alla fine della settimana appena passata (31 Ottobre 2013) la Trial Chamber V(b) della Corte Penale Internazionale (ICC) ha disposto il differimento del processo contro l’attuale Presidente del Kenya, Uhuru Kenyatta, inizialmente fissato per il 13 di Novembre 2013 al 5 Febbraio 2014.

La decisione, pur di natura squisitamente processuale, ha diverse implicazioni.

Essa è stata preceduta dalla richiesta di Mr.Kenyatta, accusato davanti alla Corte per Crimini Contro l’Umanità in relazione alle violenze ad ai crimini che hanno fatto seguito alle elezioni tenutesi nel Paese africano nel 2007. Le vittime dei disordini erano state più di 1.300 mentre gli internally/internationally displaced people (IDPs) avevano superato il mezzo milione. La distruzione di proprietà ed il saccheggio si era esteso a tutto il Paese.

L’ufficio del Prosecutor, diretto da Fatou Bensouda, del Gambia, non si era opposto alla richiesta di differimento, ammettendo che alcuni aspetti fattuali sottolineati dalla difesa meritavano ulteriore investigazione e convenendo che la concessione del rinvio avrebbe consentito la presentazione della prova testimoniale in una sequenza (più) logica e coerente.

Sottolineando l’interesse all’affermazione della giustizia e la necessità di un equo e sollecito avanzamento del processo, principalmente nell’interesse dei testimoni e delle vittime, la Corte, ha espresso nel provvedimento di differimento, il proprio disappunto per le ripetute richieste di differimento, provenienti sia da una o da entrambe le parti, invitandole ad accelerare la preparazione del caso, al fine di evitare ulteriori differimenti.

Occorre aggiungere che pochi giorni prima (18 Ottobre 2013) la medesima sezione della Corte aveva emesso una decisione con cui autorizzava l’imputato a non essere presente a talune udienze ritenute non essenziali. Come noto, salvo autorizzazione (excuse) della stessa Corte, davanti all’ICC non è ammesso il processo contumaciale (in absentia).

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Le due decisioni (che autorizzano l’assenza e che differiscono il processo del primo Capo di Stato in carica ad essere portato davanti alla giustizia internazionale) se non evitano, quanto meno differiscono il braccio di ferro tra la ICC e la Unione Africana che può avere conseguenze assai pregiudizievoli per la Corte.

Infatti, nella Sessione Straordinaria del proprio organo più rappresentativo (l’Assemblea dei capi di Stato e di Governo) tenutasi ad Addis Abeba il 12 Ottobre 2013, l’Unione Africana ha dibattuto de “Il rapporto dell’Africa con la Corte Penale Internazionale”.

Negli ultimi anni, l’atteggiamento nei confronti della Corte in Africa è radicalmente mutato. Dall’iniziale entusiasmo per una istituzione che pareva poter costituire un baluardo contro le dittature che avevano afflitto il Continente per decenni nell’epoca post-coloniale e contro i conflitti che avevano seguito la conclusione di molte dittature (dalla Sierra Leone alla Somalia, dal Congo alla Liberia) si è oramai passati ad un atteggiamento di aperta ostilità e di sfida.

Partendo dalla constatazione che tutti i 26 individui fino ad ora investigati o rinviati a giudizio davanti alla Corte sono africani, settori dell’opinione pubblica africana ed numerosi leaders africani sono giunti alla conclusione che la Corte non sempre fornisca garanzie sufficienti di indipendenza e che rischi di essere uno strumento nelle mani delle diplomazie occidentali.

Campagne di stampa, movimenti politici e organizzazioni non governative hanno svolto un ruolo fondamentale in questo processo di riposizionamento dell’opinione pubblica (e delle rispettive leadership) in Africa.

Qualche esempio può aiutare a comprendere la misura del mutamento.

Le riviste mensili New African e Jeune Afrique, tra i principali media africani, negli anni più recenti hanno ripetutamente pubblicato articoli e numeri dedicati alla questione. In particolare, la rivista di lingua inglese ha adottato una linea di critica assai intransigente nei confronti della ICC, giungendo a contestare apertamente la legittimità della Corte in Africa.

Organizzazioni non governative (December 12th Movement, International Association Against Torture) provenienti da Paesi che hanno sperimentato il colonialismo o che sono abitati dai discendenti degli schiavi deportati dall’Africa hanno presentato nel Giugno del 2012 una petizione alla Cortedenunciando i crimini internazionali connessi all’intervento militare Nato in Libia, all’intervento francese in Costa d’Avorio nel 2011, al rovesciamento del Presidente Aristide di Haiti nel 2004 ed addirittura “all’oppressione secolare degli Africani-Americani negli Stati Uniti d’America”.

Il nuovo atteggiamento ha poi trovato riscontro nel comportamento di diversi Paesi (Kenya, Etiopia, Uganda, Nigeria ed Egitto) che, accogliendo l’invito dell’Unione Africana di non cooperare con l’ufficio dell’International Prosecutor in relazione al caso del Presidente Omar al-Bashir del Sudan, hanno offerto ospitalità al Presidente Bashir nonostante l’indictment pendente contro di lui ed il mandato di cattura internazionale. La sfavore nei conforti della Corte Internazionale si è manifestato nuovamente alla fine di Settembre, quando il Governo della Costa d’Avorio ha comunicato alla Corte la propria decisione di non trasferire a l’Aja la precedente first lady Simone Gbabo, per unirsi al marito, attualmente a processo davanti alla ICC per crimini contro l’umanità in relazione alle elezioni presidenziali del 2010. La consorte dell’ex Presidente verrà giudicata in patria.

Ma tutto questo probabilmente non sarebbe stato sufficiente a giustificare un summit della Assemblea della Unione Africana sulla questione, se non fosse stato per il caso Kenyatta.

Il neo Presidente, eletto in Marzo, nonostante la conferma dell’indictment a suo carico da parte della Corte e la data del processo inizialmente fissata a Novembre, è il primo Capo di Stato ad essere processato quando ancora in carica.

La necessità di assicurare la stabilità nel Paese africano nell’epoca in cui l’integralismo islamico avanza nell’Africa Orientale (il recente assalto al centro commerciale Westgate di Nairobi, il 21-24 Settembre, che ha provocato 72 morti, ne è la più recente testimonianza) costituisce l’argomento tecnico utilizzato per chiedere la sospensione del processo nei confronti del Presidente Kenyatta.

Pertanto, a seguito dell’iniziativa della Repubblica del Kenya, l’Assemblea dell’Unione Africana, al termine del suo summit, ha adottato una risoluzione che, pur ribadendo la necessità di collaborare con l’ICC, sottolinea "la necessità che la ricerca della giustizia sia perseguita in forme che non impediscano o mettano in pericolo gli sforzi diretti a promuovere una pace duratura”. Nel testo si ribadisce “la preoccupazione della Unione Africana per la politicizzazione e cattivo uso degli indictmentes a carico di leaders africani da parte della ICC così come l’inusuale indictment e procedimento a carico del Presidente in carica del Kenya”. Si ribadisce poi che il Kenya è in prima linea nella lotta al terrorismo internazionale e che la assenza del suo Presidente e Vice Presidente (pure imputato all’Aja) per i processi avanti all’ICC costituirebbe un grave ostacolo all’esercizio delle funzioni presidenziali e quindi una minaccia alla stabilità del Paese.

Partendo da tali premesse, la Assemblea ha adottato una risoluzione in cui si prevedono le seguenti misure:

1) si dispone l’improcedibilità davanti a Corti Internazionali ‘di qualsiasi Capo di Stato o di Governo dell’Unione Africana durante il mandato’;
2) si chiede la sospensione del processo a carico del Presidente Uhuru Kenyatta e del suo Vice;
3) si costituisce un Gruppo di Contatto di 5 membri della UA con il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per discutere ‘di tutte le preoccupazioni della UA nella sua relazione con la ICC;
4) si dispone che gli Stati membri informino preliminarmente e chiedano il consiglio dell’UA per futuri casi di ‘case referral’;
5) si invita il Kenya a formulare istanza di sospensione dal proprio procedimento nei termini previsti dall’art.16 dello Statuto di Roma, istanza che sarebbe sostenuta da tutti gli stati membri;
6) infine, si preannuncia che il Presidente del Kenya ed il suo Vice non appariranno dinanzi all’ICC fintanto che ‘le preoccupazioni sollevate dall’UA … non troveranno adeguata risposta da parte del Consiglio di Sicurezza e dall’ICC.

E’ facile intuire che la risoluzione adottata ad Addis Abeba dall’Unione Africana costituisce una sfida che può rivelarsi terminale per la Corte Penale Internazionale. Infatti, essa impone agli Stati Membri prescrizioni che sono incompatibili con le obbligazioni degli Stati nei confronti della ICC (come al punto 4 e 6) e giunge addirittura a dichiarare unilateralmente l’improcedibilità dei Capi di Stato dell’Unione Africana (punto 1).

Viene inoltre preannunciata la richiesta di sospensione dei processi nei confronti del Presidente e Vice Presidente del Kenya, secondo il meccanismo previsto dall’art.16 dello Statuto di Roma che prevede che “nessuna indagine e nessuna azione penale possono essere iniziate o proseguite in virtù del presente Statuto per il periodo di 12 mesi successivo alla data nella quale il Consiglio di Sicurezza, con risoluzione adottata ai sensi del capitolo 7 della Carta delle Nazioni Unite, ne abbia fatto richiesta alla Corte; tale richiesta può essere rinnovata dal Consiglio…”. Poiché il capitolo 7 della Carta fa riferimento alle azioni adottabili dal Consiglio di Sicurezza in caso di minacce o violazioni della pace (o atti di aggressione), risulta chiaro che la minaccia terroristica di matrice islamica presente in Kenya ed i relativi rischi per la stabilità e la pace nel Paeseviene addotta per giustificare la richiesta di sospensione del processo nei conforti dei due rappresentanti delle massime istituzioni keniane.

Ad esclusione di quest’ultimo aspetto, la risoluzione si basa su argomentazioni che poco hanno di giuridico (le dichiarazioni dei leaders africani sull’argomento non sono più sofisticate delle accuse mosse dalla stampa sopra menzionata, che evoca toni retorici piuttosto che fatti concreti). Ci si riferisce, piuttosto ai ‘valori tradizionali delle società africane’ nell’ambito delle quali la giustizia non sarebbe disgiunta dalla pace (in antitesi quasi alla posizione dei promotori della ICC, secondo cui la giustizia precede la pace, essendone la condizione: ‘no peace without justice”) e la riconciliazione tra vittime e responsabili avrebbe una funzione equivalente alla ricerca ed alla punizione dei colpevoli dei crimini nel mondo occidentale.

È evidente che la Corte non è un interlocutore politico e che pertanto non può rispondere a tale genere di argomenti, pena la perdita della propria immagine e della credibilità.

Sarebbe piuttosto necessaria una presa di posizione da parte del Consiglio di Sicurezza, in difesa dell’indipendenza ed a protezione della Corte.

La circostanza che dei quindici Paesi che attualmente compongono il Consiglio di Sicurezza solamente sei abbiano firmato e ratificato lo Statuto di Roma, costitutivo della Corte, può dare una indicazione sulla probabilità che ciò avvenga.

Da giuristi, non ci si può che dispiacere, ed anzi indignare, per attacchi alla indipendenza ed onestà intellettuale dei colleghi internazionali, tra i quali l’italiano Cuno Tarfusser.

Se si considera che provengono dall’Africa cinque giudici della Corte, il Procuratore, numerosissimi professionisti legali a tutti i livelli; se si considera che quattro degli otto casi attualmente pendenti sono stati riferiti da Stati africani (Uganda, Repubblica democratica del Congo, Repubblica Centroafricana, Mali) e che solo in due casi (Costa d’Avorio e Kenia) l’investigazione è stata promossa autonomamente dal Prosecutor, si comprende quanto pretestuose siano le accuse di mancanza di indipendenza e di ‘double standard’.

Lungi dal discutere del merito dei singoli casi, le accuse di razzismo, neocolonialismo giuridico, neoimperialismo e ‘selective justice’ appaiono come mere scuse per contestare il ruolo della Corte e la sua giurisdizione.

 

 

05/11/2013
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