Due ricerche, pubblicate di recente (Navigare a vista. Il racconto delle operazioni di ricerca e soccorso nel Mar Mediterraneo centrale, a cura di Osservatorio di Pavia, Associazione Carta di Roma, Cospe, con la collaborazione di Valeria Brigida; e Blaming the rescuers, a cura di Charles Heller and Lorenzo Pezzani, della Forensic Oceanographic, Goldsmiths, University of London)[1], affrontano la questione SAR da due prospettive differenti ma evidenziando conclusioni simili, ovvero la criminalizzazione del soccorso in mare e la conseguente legittimazione di politiche di chiusura delle frontiere.
Un argomento che, negli ultimi anni, ha registrato un aumento di attenzione a tutti i livelli di dibattito, politico, mediatico e pubblico. Le operazioni SAR di migranti nel Mediterraneo hanno dunque ampia visibilità: è il naufragio di Lampedusa il 3 ottobre 2013 a costituire il principale spartiacque tra una fase in cui le operazioni SAR sono presenti marginalmente nei media, e una fase successiva in cui esse assumono, sebbene con tagli e modi diversi, centralità narrativa. La conta incessante degli arrivi, la cronaca dei naufragi e dei salvataggi, le dinamiche stesse del soccorso in mare divengono una presenza costante nell’informazione quotidiana e, di riflesso, al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica.
A differenza di altri aspetti del fenomeno migratorio − la gestione dell’accoglienza, l’asilo politico − associati alla paura, all’intolleranza e allo scontro politico, quella delle operazioni in mare è una dimensione che (inizialmente) procede controcorrente. È una narrazione che incornicia i volti e le storie delle persone che arrivano sulle coste italiane nel quadro della solidarietà e dell’accoglienza. Il racconto del soccorso in mare ha la potenza espressiva per umanizzare il fenomeno delle migrazioni. Anche le fonti di conflitto sul tema delle migrazioni, legate alla sfera del dibattito politico nazionale ed europeo, rimangono sullo sfondo del soccorso. I resoconti degli accordi con la Turchia prima, con la Libia dopo, i reportage sulla gestione italiana del soccorso in mare, i nomi stessi delle missioni impegnate nel Mediterraneo sono sì presenti, ma non cruciali alla narrazione; al centro della comunicazione vi sono le azioni e i protagonisti del soccorso.
Le due ricerche affrontano la questione degli attacchi alle Ong coinvolte nella ricerca e nel soccorso in mare.
Entrambe le ricerche si muovono in una prospettiva empirica: Navigare a vista si concentra sul cambiamento del frame narrativo e, conseguentemente, del clima di opinione intorno ai protagonisti delle operazioni SAR. Blaming the rescuers restituisce elementi di oggettività rispetto al ruolo delle Ong nelle operazioni SAR. Poi, all’improvviso questa cornice cambia.
Nel febbraio 2017, Frontex pubblica il Risk Analysis Report per il 2017. Il rapporto sottolinea che fino alla metà del 2016 le operazioni di soccorso erano prevalentemente svolte da Marina italiana, Eunavfor Med e Frontex, attivate in seguito a richieste di aiuto ricevute via telefoni satellitari dal centro nazionale di coordinamento della Guardia costiera a Roma, con le Ong coinvolte in meno del 5% dei soccorsi. Da giugno 2016, invece, il trend si inverte: cala il numero di telefonate satellitari a Roma e le operazioni SAR delle Ong incrementano fino al 40% dei soccorsi. Nel rapporto si suggerisce − seppure implicitamente − che le richieste di aiuto si siano dirottate direttamente verso le Ong, bypassando le istituzioni. Si sottolinea inoltre che le operazioni SAR delle Ong si sono occasionalmente spinte dentro il limite delle 12 miglia dalla costa libica. Infine − continua il rapporto di Frontex − le operazioni SAR agiscono, seppur involontariamente, da “pull factor” e indirettamente aiutano i criminali a raggiungere i loro obiettivi al minimo costo.
Il primo − e più significativo − risultato delle ricerche è la ricostruzione del cambiamento del clima e la delle azioni di ricerca e soccorso realmente svolte dalle Ong. Tra i principali dati empirici che emergono dallo studio Blaming the rescuers, due sono particolarmente rilevanti: il primo in cui si evidenza l’impegno maggiore delle Ong nelle operazioni di ricerca e soccorso nel corso del 2016 rispetto a quello di altri attori come EunaforMed e Frontex. In particolare, da ottobre, in concomitanza con la finalizzazione degli accordi con la Guardia costiera libica, l’impegno delle operazioni militari di Frontex e Operazione Sophia diminuisce in modo significativo a favore della Guardia costiera italiana e delle Ong. Il secondo dato, altrettanto rilevante, è che il calo del numero di chiamate di soccorso (invocato come prova di una presunta collusione tra scafisti e Ong) precede l’incremento dei soccorsi stessi ad opera delle Ong. La presenza, pertanto, di tale correlazione viene smentita dai dati contenuti nella ricerca. Infine, ed è il dato più significativo rispetto al senso stesso delle operazioni di ricerca e soccorso, esiste una correlazione – negativa – tra il numero di vittime di migranti in mare e il numero dei soccorsi. Detto altrimenti, diminuiscono le vittime quando aumentano i soccorsi.
Ricostruire la diffusione di questa narrativa “tossica”, come viene definita nella ricerca Blaming the rescuers è stato tra gli obiettivi del report Navigare a vista. Dalle dichiarazioni riportate da vari soggetti e rilanciate dai media sui legami (presunti) tra Ong e trafficanti, alle accuse alle Ong di fare business con i “migranti sui barconi”, in quanto sfruttabili come manodopera a basso costo. Dagli accordi di controllo delle frontiere con la Guardia costiera libica, alle indagini delle procure di Catania e Trapani; dalla costituzione di una commissione di inchiesta del Senato della Repubblica, alle audizioni di Ong e di rappresentanti di organizzazioni militari; tutti questi eventi vengono coperti e ampiamente rilanciati dai media. Al punto da diventare argomento di discussione pubblica.
In questa sovrabbondanza comunicativa, un elemento emerge su tutti: il sospetto. Il sospetto calato sull’azione degli operatori – soprattutto quelli delle Ong – avvolge tutta la sfera del soccorso in mare. L’unica dimensione delle migrazioni, fino a pochi mesi prima estranea alla negatività e alle criticità, diventa in breve tempo foriera di sentimenti di sfiducia e di intolleranza nei confronti di salvati e salvatori, di migranti e operatori umanitari del soccorso.
Un’indagine demoscopica condotta da Demos&Pi (nella fase successiva alla grande esposizione mediatica delle operazioni SAR) sulla fiducia degli italiani nei confronti delle associazioni di volontariato suggerisce un cambiamento della percezione proprio rispetto alle Ong. Il politologo Ilvo Diamanti, autore del sondaggio, afferma che le Ong «ottengono un grado di fiducia (42%) molto inferiore rispetto alle “Associazioni di volontariato”, tout-court (63%). Quasi a sottolineare come, per la maggioranza degli italiani, le Ong non siano “associazioni di volontari”. Ma, appunto, qualcosa di diverso. E oscuro».
Una percezione di opacità che si alimenta nella sovra-esposizione mediatica, nella confusione fra soggetti, ruoli e responsabilità, nella concitazione del dibattito politico. Il racconto dei protagonisti del soccorso, dei testimoni diretti, e quello offerto dai media divergono, lasciando nello spettatore un senso di incertezza che produce diffidenza.
Anche la politica diventa protagonista delle questioni legate alla ricerca e al soccorso in mare, alimentando essa stessa polemiche e accuse. Le interviste raccolte nel report Navigare a vista raccontano di un altro modo di essere e di agire: Guardia costiera e Ong, sebbene con ruoli e competenze diverse, parlano di rapporti di collaborazione e di coordinamento, di azioni congiunte, condotte con l’obiettivo comune di salvare vite. Eppure questi elementi si perdono nel flusso mediatico.
In particolare è bene ricordare che nessuna Ong si muove nel mar Mediterraneo senza un’autorizzazione della Guardia costiera che coordina le attività e assegna appunto le dislocazioni a ciascun attore presente nel mar Mediterraneo.
Le teorie sulla comunicazione suggeriscono che contrastare un’immagine negativa impressa dalla cornice è vano se non si riesce nell’intento di modificare la cornice stessa che impone il significato. In altre parole, senza spostare l’attenzione su altri temi e creare una nuova cornice più congrua e rispettosa della realtà, la replica alle singole accuse (di collusione con gli “scafisti” o di ricerca del business) perde efficacia. Il frame sfavorevole del sospetto calato sull’operato delle Ong non appare scardinato da una strategia di autodifesa e le contro-narrazioni non sono facili da costruire e da diffondere.
Per avere nuovi temi, occorrono nuovi modi di agire. L’evoluzione dell’attività di contrasto ai trafficanti di esseri umani dell’Agenzia europea Frontex e di Eunavfor Med potrebbe determinare forse un cambiamento nelle forme del migrare; tuttavia, il blocco delle partenze dalla Libia richiesto dall’Europa porrà inevitabilmente in agenda l’urgenza di vigilare sul rispetto dei diritti umani nei centri di permanenza per migranti. Il ruolo della politica nazionale ed europea sarà quanto mai cruciale: chi promuove una delegittimazione dei soggetti SAR, promuove le politiche dei respingimenti. Crede che le politiche di accoglienza in Italia subiscano non solo una battuta di arresto ma che possano anche intraprendere un percorso opposto, la militarizzazione del mar Mediterraneo e la chiusura delle frontiere.
Da questa narrazione discendono effetti “tossici”. Come anticipato dal rapporto Blaming the rescuers, l’accusa e la delegittimazione delle Ong si inserisce in un filone di “criminalizzazione dei diritti di solidarietà”, soprattutto di quelli che hanno come protagonisti e destinatari migranti e profughi. Andare contro-corrente è l’unico modo per “costruire ponti” e ri-orientare le politiche europee in tema di accoglienza.
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[1] Le ricerche sono consultabili su blamingtherescuers.org e cospe.org