L’Unione Europea intensifica la sua produzione normativa, in attuazione dell’art. 82, paragrafo 2, del Trattato sul suo funzionamento, in base al quale il Parlamento europeo e il Consiglio possono stabilire norme minime per facilitare il riconoscimento reciproco delle sentenze e delle decisioni giudiziarie nell'ambito della cooperazione nelle materie penali aventi dimensione transnazionale.
Di recente, infatti, è stata pubblicata sulla GUCE del 6 novembre 2013 la terza direttiva per il rafforzamento dei diritti procedurali di indagati o imputati nei procedimenti penali, contenente le misure C e D della cosiddetta “tabella di marcia”, indicata nella risoluzione del 30 novembre 2009 del Consiglio dell’Unione Europea, con la quale si richiedeva l’adozione di misure relative ai più importanti diritti fondamentali di natura processuale.
Si tratta della direttiva n. 2013/48/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 22 ottobre 2013 “relativa al diritto di avvalersi di un difensore nel procedimento penale e nel procedimento di esecuzione del mandato di arresto europeo, nonché al diritto di informare un terzo al momento della privazione della libertà personale e al diritto delle persone private della libertà personale di comunicare con i terzi e con le autorità consolari”.
Tale ultima direttiva fa seguito alla precedente n. 2010/64/UE sulla traduzione ed interpretazione nei procedimenti penali, nonché a quella ulteriore n. 2012/13/UE relativa al diritto all’informazione nel procedimento penale.
Naturalmente, il livello delle garanzie riconosciute dalle richiamate direttive deve essere in linea con l'acquis derivante dalle pronunce della Corte Europea dei diritti dell’uomo, nell’interpretazione dell’art. 6, paragrafo 3, della Convenzione, il cui significato è corrispondente a quello all’art. 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, da applicarsi da parte delle istituzioni dell’Unione e degli Stati membri, in attuazione del diritto dell’Unione, tra l’altro nel campo della cooperazione giudiziaria in materia penale.
Pertanto, le tre direttive emanate nella materia in esame promuovono l’applicazione della Carta dei diritti fondamentali, di valore giuridico pari a quello dei trattati, a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, con particolare riferimento non soltanto al richiamato art. 48, ma anche agli artt. 6, diritto ad un processo equo, e 47, diritto ad un ricorso effettivo e ad un giudice imparziale, nel rispetto, in ogni caso delle previsioni dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come interpretato dalla giurisprudenza della relativa Corte. Conseguentemente, gli Stati membri devono assicurare che la disciplina contenuta nelle direttive, quando corrispondono ai diritti garantiti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, siano applicate in modo coerente con tali disposizioni, alla luce dell’interpretazione fornitane dalla Corte di Strasburgo.
Al fine di valutare l’importanza del contenuto della direttiva in commento occorre richiamare sinteticamente i principi stabiliti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, in tema di diritto di difesa nel processo penale.
E’ principio ricevuto quello secondo cui l’art. 6 della Convenzione trova applicazione nella fase che precede il procedimento penale (sentenza 27 novembre 2008, Salduz v. Turkey) e che un indagato deve avere la possibilità di ottenere l’assistenza di un difensore nelle fasi iniziali degli interrogatori di polizia (sentenza 27 novembre 2008, Salduz v. Turkey), nonché dal momento in cui viene privato della libertà personale, a prescindere da qualunque forma di interrogatorio (sentenza Dayanan v. Turkey). Tali garanzie devono applicarsi anche ai testimoni, qualora si trovino ad essere indagati per un reato (sentenza del 14 ottobre 2010, Brusco v. France).
Conseguentemente, deve ritenersi violato l’art. 6 della Convenzione in caso di utilizzazione delle dichiarazioni rese dall’indagato in assenza del suo difensore al fine di pronunciare una sentenza di condanna, anche in presenza di altri mezzi di prova. Pertanto, la mancanza di assistenza legale di un indagato durante l’interrogatorio costituisce una violazione del diritto di difesa (sentenza dell’11 dicembre 2008, Panovits v. Cyprus).
Inoltre, deve essere garantito il massimo della riservatezza ai colloqui tra il difensore e l’assistito, quale fattore essenziale per un’effettiva rappresentanza degli interessi dell’accusato (sentenza del 13 marzo 2007, Castravet v. Moldavia; sentenza del 27 marzo 2007, Istratii v. Moldavia).
In ogni caso, come ricordato anche dal ventiseiesimo considerando della direttiva in esame, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha costantemente dichiarato che qualunque conseguenza negativa della violazione del diritto di difesa deve essere corretta, mettendo la persona nelle condizioni in cui si sarebbe trovata se la violazione non si fosse prodotta. Con l’effetto di determinare la rinnovazione del processo o l’adozione di misure equivalenti, qualora venga pronunciata una sentenza di condanna in violazione del diritto di difesa.
In attuazione di tali principi, la direttiva prevede, innanzitutto:
- il diritto per gli indagati e per gli imputati di essere assistiti da un difensore nel procedimento penale;
- ovvero prima dell’inizio di interrogatori di polizia;
- in caso di privazione della libertà personale;
- nella fase di raccolta delle prove, senza pregiudizio per la relativa acquisizione, secondo modalità e tempi tali da permettere l’esercizio effettivo del diritto di difesa.
Inoltre, la direttiva specifica il contenuto del diritto di avvalersi di un difensore, riaffermando per l’indagato o l’imputato la garanzia di poter incontrare e comunicare in modo riservato con il proprio legale, il quale deve essere presente all’interrogatorio e agli atti investigativi o di raccolta delle prove, ad eccezione delle ipotesi di pregiudizio nell’effettuazione di queste ultime attività. A ciò aggiungasi il diritto di comunicare al momento dell’arresto con una persona prescelta dallo stesso indagato, nonché, in tali casi, il diritto di comunicare con autorità consolari o diplomatiche.
Di particolare rilievo, i diritti di assistenza nel procedimento di esecuzione del mandato di arresto europeo, posto che la nomina del difensore deve intervenire al momento dell’arresto eseguito in conformità al mandato nello Stato membro in cui l’interessato si trova. In concreto, viene affermato il diritto di conferire con il difensore nel corso degli interrogatori e il diritto del difensore di essere presente in udienza, nonché la verifica da parte di quest'ultimo delle condizioni di detenzione.
I casi di rinuncia ai diritti disciplinati dalla direttiva sono tassativamente indicati, fatte salve, in ogni caso, le previsioni del diritto nazionale che impongono la presenza o l’assistenza obbligatoria di un difensore.
Specifiche disposizioni sono previste, altresì, per il patrocinio a spese dello Stato e per i mezzi di ricorso, ispirati, in ogni caso, al principio di effettività, nelle ipotesi in cui il dirittoall’accesso ad un difensore venga violato.
Un capitolo a parte merita la disciplina in materia di deroghe, ispirata al principio enunciato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo cui il diritto all’assistenza di un difensore, nei termini indicati, può prevedere delle eccezioni circoscritte e limitate nel tempo, in caso di necessità e nel rispetto delle garanzie processuali, senza privare l’interessato del diritto ad un processo equo (sentenza 27 novembre 2008, Salduz v. Turkey). La deroga, nella previsione della direttiva in commento, è assistita da una riserva di giurisdizione, nonché deve essere, comunque, giustificata da ragioni imperiose relative alla necessità impellente di evitare conseguenze negative gravi per la vita o l’integrità fisica di una persona, oltre ad esser ispirata ad un rigido criterio di proporzionalità, tendente a privilegiare l’esercizio del diritto. Tuttavia, nessuna deroga può fondarsi in modo esclusivo sul tipo o sulla gravità del reato contestato.
Occorre, tuttavia, segnalare un’incongruenza rispetto alla tutela dei diritti in esame prevista all’art. 13, paragrafo 3, della direttiva, in tema di inutilizzabilità delle prove raccolte in violazione dei diritti di difesa disciplinati dalla stessa direttiva, giacché viene prevista una specifica eccezione e, quindi, viene riconosciuta l’utilizzabilità delle stesse, nelle ipotesi in cui non venga arrecato pregiudizio ai diritti della difesa. Spetterà evidentemente ai legislatori dei singoli Stati membri evitare che l’applicazione di questa norma possa portare ad un arretramento rispetto ai principi affermati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, attribuendo fondamentale importanza alla clausola di non regressione prevista dalla stessa direttiva all’art. 14 .
Non si può fare a meno di segnalare come nel nostro ordinamento la materia in esame, in sede di trasposizione della direttiva, dovrà fare i conti con il tema dell’abuso del processo, di recente oggetto di attenzione da parte della nostra Corte di Cassazione, in conseguenza della sentenza n. 155/2011 delle Sezioni Unite, evidentemente “antiformalista”, secondo la quale, in una fattispecie di plurime sostituzioni del difensore, con richiesta di termini a difesa da parte del difensore subentrato, non può dar luogo a nullità alcuna il diniego di termini a difesa o la concessione di termini a difesa ridotti rispetto a quelli previsti dell’art. 108, comma 1, c.p.p., quando nessuna lesione o menomazione ne derivi, in assoluto, all’esercizio effettivo del diritto alla difesa tecnica.
Il tema dell’abuso del processo è concreto, serio e da affrontare alla radice, come sottolinea Piermaria Corso in un recente scritto (Quale difesa dall’abuso nella difesa?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, 1, 104), ma la soluzione va cercata nelle fonti normative, senza stravolgere l’esigenza di tutela dei diritti che il sistema multilivello a cui apparteniamo oramai ci impone.