Premessa
La proposta di legge Zan, attualmente in esame, è volta a contrastare la violenza e la discriminazione per motivi legati al sesso, al genere, all’orientamento sessuale ed all’identità di genere attraverso una doppia azione. In primo luogo si prevede un intervento di carattere repressivo, mediante l’integrazione degli articoli 604 bis e 604 ter finalizzata a reprimere o aggravare la pena in caso di condotte delittuose motivate dall’odio; al momento la norma riguarda i crimini d’odio fondati sulla razza, l’origine etnica, la nazionalità e la religione: la proposta di legge Zan prevede l’estensione della tutela anche al sesso, al genere, all’orientamento sessuale e all’identità di genere. La proposta di riforma è quindi quella di integrare una norma che c’è già, estendendola ad altri fattori di rischio.
La proposta legislativa prevede, poi, un intervento dal contenuto preventivo che introduce una serie di misure di tipo propositivo, finalizzate all’assistenza delle vittime ed alla promozione dell’uguaglianza.
Scopo di questo breve contributo è quello di proporre alcune riflessioni sulle molteplici questioni giuridiche che la proposta di riforma involve; alcune di esse hanno carattere tipicamente costituzionalistico ed altre incidono, invece, maggiormente sul piano penale.
Con il presente commento si tenterà, inoltre, di sviluppare e tratteggiare alcuni profili volti ad illustrare l’opportunità che il Parlamento approvi una normativa penale per il contrasto a intollerabili fenomeni di discriminazione omo-lesbo-bi-trans-fobica e misogina.
La compatibilità della repressione dei discorsi d’odio con il principio di libertà di manifestazione del pensiero
Il primo nodo problematico posto da parte della dottrina è quello relativo alla legittimità della compressione della libertà di manifestazione del pensiero che la proposta di legge contiene e, quindi, della compatibilità della riforma con i principi di cui agli artt. 21 Cost. e 10 CEDU.
Al riguardo va preliminarmente rilevato che qualora i dubbi di costituzionalità avessero qualche tipo di fondamento, essi non potrebbero che riguardare anche le identiche disposizioni già in vigore, che reprimono i discorsi d’odio fondati sulla razza, sull’origine etnica, sulla nazionalità e sulla religione.
Al contrario, la giurisprudenza di legittimità ha, invece, già avuto modo di dichiarare in più occasioni la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale di tali disposizioni: in particolare, è stato affermato che il diritto di manifestare il proprio pensiero incontra alcuni limiti nel caso in cui esso si ponga in contrasto con il principio di pari dignità di tutti i cittadini di cui all’art. 3 Cost. (v. Cass., Sez. III, n. 37581/2008 nonché Cass., Sez. V, n. 31655/2001).
Anche la Corte costituzionale ha costantemente affermato, in sede di interpretazione della L. n. 645/1952, c.d. Legge Scelba, con specifico riferimento al reato di apologia di fascismo, che la libertà di manifestazione del pensiero non può spingersi sino a superare i confini tracciati dall’esercizio di altri diritti costituzionali fondamentali.
La libertà di espressione non è, cioè, incondizionata ed assoluta: il suo esercizio deve essere bilanciato con altri diritti e altre libertà di pari rango quali il diritto alla dignità umana, all’identità personale (e, segnatamente, all’identità sessuale), all’uguaglianza ed alla libertà personale (in particolare nelle sue declinazioni di libertà morale e sessuale).
In ogni caso la rilevanza penale dei c.d. hate speech è stata limitata, in sede applicativa della legge Mancino-Reale, alle condotte che costituiscono incitazioni all’odio; è sempre stata esclusa, invece, la sanzionabilità di generiche espressioni di antipatia, insofferenza o rifiuto riconducibili a ragioni fondate sulla razza, sull’origine etnica, sulla nazionalità o sulla religione che, quantunque in contrasto con i di valori di tolleranza, non sono sufficientemente gravi da far presumere successive condotte discriminatorie o violente.
Il criterio interpretativo sopra richiamato è stato adottato anche dalla Corte EDU, che ha sempre negato che l’adozione di leggi che puniscano chi renda dichiarazioni di incitamento all’odio nei confronti di persone LGBT possa costituire un’illegittima limitazione dell’esercizio della libertà di espressione (Vejdeland ed altri c. Svezia del 9 febbraio 2012). Al contrario, nella recentissima pronuncia Lilliendahl c. Islanda del 12 maggio 2020 la Corte ha stabilito che una legislazione penale di contrasto ai discorsi d’odio contribuisce alla corretta realizzazione della libertà di manifestazione del pensiero in una società democratica e plurale e in accordo con principi di inclusione ed uguaglianza sanciti dalla Convenzione. Con le sentenze Identoba ed altri c. Georgia del 12 maggio 2015, M.C. e A.C. c. Romania del 12 aprile 2016 e Beizaras e Levickas c. Lituania del 14 gennaio 2020 la Corte ha, infatti, condannato gli Stati coinvolti non aver predisposto idonee misure di repressione dei fenomeni omotransfobici, arrivando a sollecitare esplicitamente l’adozione di strumenti di adeguata reazione sanzionatoria, da parte dei rispettivi ordinamenti, di queste discriminazioni, in quanto rientranti tra gli obblighi positivi imposti agli Stati dal diritto al rispetto per la vita privata e dal divieto di discriminazione.
Genere e identità di genere
La nozione di “identità di genere”, che il testo unificato della proposta di legge, depositato il 30 giugno scorso, equipara alle altre condizioni personali delle vittime di fenomeni discriminatori, ha diviso il mondo femminista: si è fatta progressivamente strada l’idea che questa nozione possa annullare il dato biologico tale da portare ad una asserita cancellazione ed un appiattimento della differenza fra i sessi, finendo in qualche modo per pregiudicare alcuni diritti civili e sociali faticosamente conquistati dalle donne in decenni di battaglie.
L’identità di genere si riferisce alla percezione che ciascuna persona ha di sé come uomo o donna, che può o meno avere corrispondenza con il sesso attribuito alla nascita e il genere indica qualunque manifestazione esteriore di una persona che sia conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse all’essere uomo o donna.
Le critiche che muovono dalle considerazioni sopra sinteticamente riportate sono difficilmente comprensibili dal punto di vista giuridico perché questa espressione non appare per la prima volta nel nostro ordinamento con la proposta di legge Zan ma essa è contenuta in numerosi atti normativi e pronunce giurisprudenziali del sistema giuridico italiano.
L’espressione ha per la prima volta fatto ingresso in un testo normativo con la Direttiva 2011/95 UE, sull’attribuzione della qualifica di rifugiato, recepita nel d.lgs. n. 18/2014, che fa espressamente riferimento al concetto di identità di genere, nella trattazione degli aspetti che possono costituire motivi di persecuzione ed è contenuta anche nella Direttiva 2012/29 UE, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, nonché nella Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (c.d. Convenzione di Istanbul).
La giurisprudenza della Corte Costituzionale non si è limitata all’utilizzo dell’espressione ma ha riconosciuto con la sentenza n. 221/2015 il diritto all’identità di genere quale «elemento costitutivo del diritto all’identità personale, rientrante a pieno titolo nell’ambito dei diritti fondamentali della persona». Tale principio è stato poi ribadito nella sentenza n. 180/2017 che conferma che «l'aspirazione del singolo alla corrispondenza del sesso attribuitogli nei registri anagrafici, al momento della nascita, con quello soggettivamente percepito e vissuto costituisca senz'altro espressione del diritto al riconoscimento dell'identità di genere».
Dal punto di vista del diritto non si tratta, quindi, certo di una nozione nuova: il riconoscimento giuridico di questa categoria semantica è già ampiamente avvenuto. E di ciò riteniamo che non si possa che prendere atto.
L’idea di “identità di genere”, che valorizza la fluidità delle appartenenze, e l’idea di “genere”, che attribuisce importanza allo spazio di autodeterminazione individuale in una prospettiva di rifiuto degli stereotipi, coesistono e non si pongono in alcun modo in contrasto con quella di “sesso” (che è ora contenuta nel testo unificato), che mette invece in primo piano la dimensione biologica. Il riconoscimento giuridico di ulteriori aspetti della personalità e dell’identità personale (nella sua portata sessuale) non implica certo la cancellazione di quelle sfere che sono già protette dal diritto.
Riteniamo, quindi, che la resistenza di quelle associazioni femministe contrarie alla legge per il timore di un arretramento dal punto di vista dell’equità e dell’uguaglianza sostanziale sia priva di fondamento giuridico.
L’introduzione, nella proposta di legge Zan, di queste nozioni all’interno di una norma penale di protezione riguarda le modalità con cui gli autori delle condotte definiscono le vittime d’odio e non invece come le stesse si qualificano: l’idea è, cioè, quella di rendere il ventaglio di tutele il più ampio possibile.
I c.d. "discorsi d’odio" possono ricollegarsi a matrici che esulano e non si esauriscono nelle caratteristiche anatomiche e biologiche: qualora la legge non prevedesse l’estensione della norma anche al genere ed all’identità di genere, resterebbe, a nostro avviso, un vuoto normativo nell’ordinamento che priverebbe di copertura, dal punto di vista della repressione penale, alcuni fenomeni d’odio.
L’importanza di una tutela penalistica
La necessità di introdurre nel nostro ordinamento giuridico una normativa penale specialistica, a tutela delle vittime di qualsiasi forma di violenza dettata dall’orientamento sessuale, dall’identità di genere e dal genere, deriva in primo luogo da un esame del dato di realtà. Nel nostro paese, nonostante i dati ricavati dall’analisi delle querele siano certamente inferiori rispetto alla situazione di concreta discriminazione che viene vissuta quotidianamente, gli episodi di aggressione sono all’ordine del giorno. Purtroppo però, poiché non è prevista una segnalazione automatica, è la vittima del reato che deve farsi carico di indicare, eventualmente, il movente posto alla base del reato, cosa che determina una sottovalutazione del fenomeno.
A ciò si aggiunga che l’Italia è l’unico tra i paesi fondatori dell’Unione Europea a non avere adottato una normativa per contrastare l'odio omo-lesbo-bi-transfobico, nonostante la Direttiva 2012/29/UE - recepita dall’Italia con decreto legislativo 15 dicembre 2015 n. 212 – preveda l’obbligo per gli stati di proteggere le persone che subiscono violenza in quanto appartenenti a un genere, oppure a causa della propria identità di genere, oppure a causa di motivi o finalità di odio o discriminazione fondati sul genere, identità o espressione di genere.
In questo contesto, riteniamo che lo strumento penale sia fondamentale per contrastare questo tipo di fenomeni.
Naturalmente, siamo consapevoli del fatto che la sanzione non è mai, da sola, la soluzione migliore possibile. Essa deve infatti essere accompagnata ad altri strumenti, che la proposta di legge Zan - come anticipato - prevede, quali l’istituzione di centri anti violenza ad hoc e l’istituzione della giornata nazionale contro l'omotransfobia.
Nondimeno, è necessario che certi comportamenti siano qualificati come reati perché essi vengano percepiti come lesivi: in questo modo la norma giuridica, attraverso la sua portata simbolica, agisce sulla coscienza collettiva, così che un comportamento diventa non solo illegale, ma anche socialmente condannato. La cifra di questa proposta di legge è esattamente questa: affermare che anche nel caso dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere ci si trova in presenza di discriminazioni, che sono tanto gravi come quelle che si fondano sulla razza o sulla religione. Le vittime di questo tipo di reati hanno diritto ad una tutela equivalente a quelle degli altri delitti indicati nell’art. 604 bis c.p. perché la condanna di questi fenomeni non può che essere uguale.
Questo non vuole affatto dire rendere le vittime deboli perché le si riconosce come tali. Anzi, il non farlo negherebbe il loro status e le priverebbe di un importante strumento giuridico. Strumento che ha un fondamento nell’articolo 3, comma secondo, della Costituzione: è infatti compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli sociali che, limitando la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana; fra gli strumenti che possono essere utilizzati vi è certamente il diritto penale.
In questo contesto, la decisione di intervenire direttamente sul testo dell’art. 604 bis c.p. è, da un punto di vista giuridico, la più corretta.
Sicuramente non può essere sufficiente, per reprimere questi fenomeni, l’aggravante di cui all’art. 61 n. 1 c.p., che fa riferimento ai motivi futili o abietti. La predetta circostanza permette infatti al Giudice di reprimere con un trattamento sanzionatorio più severo alcuni comportamenti, ma non lo obbliga a tenerne conto. La novella legislativa imporrebbe invece di prendere in considerazione, nella dosimetria della pena, i motivi legati all’orientamento sessuale e all’identità di genere. È un modo che il legislatore ha per ricordarci che i motivi legati all’orientamento sessuale e all’identità di genere, al pari di quelli legati alla razza, all’etnia, alla nazione o alla religione, non possono mai essere indifferenti, ma devono essere valutati ai fini della dosimetria della pena.
Parimenti, l’introduzione di una specifica aggravante non sarebbe sufficiente, e ciò per una ragione tecnica e una sistematica. Da un lato infatti l’aggravante in parola, se comune, comporterebbe un aumento massimo di un terzo della pena e potrebbe essere bilanciata, e ritenuta dunque soccombente, con le attenuanti, anche con quelle generiche. Dall’altro lato, ed è questo quello più importante, non si comprende perché - una volta che il nostro sistema prevede una fattispecie penale specifica per le condotte discriminatorie - quelle oggi al vaglio del Parlamento non debbano essere introdotte in quella sede.
In sostanza, se mentre il primo problema potrebbe essere superato con l’introduzione di un’aggravante ad effetto speciale, il secondo problema non ha soluzione. Perché delle due l’una: o si pensa che la discriminazione per orientamento sessuale ed identità di genere sia diversa dalle altre forme di discriminazione, o, se si crede che non si possa fare una gerarchia tra le stesse e che vadano invece punite tutte in egual misura, non vi è motivo per non inserirla nella disposizione codicistica di cui all’art. 604 bis c.p.
Considerazioni conclusive
Secondo un aneddoto molto diffuso, non si sa se reale o meno, Albert Einstein al suo arrivo negli Stati Uniti nel 1933, dovendo compilare il modulo per lo sbarco a Ellis Island, alla voce “razza” avrebbe scritto “umana”. Non voleva certamente negare le discriminazioni atroci che si stavano consumando in Europa, ma voleva porre le differenze in un orizzonte più ampio, in cui la dignità umana era riconosciuta a chiunque. Parimenti, lo scopo di questa proposta di legge non è negare le differenze, punire chi legittimamente pensa che la famiglia tradizionale sia la migliore possibile, o usare la repressione penale per risolvere i problemi. Scopo di questa legge è quello di riconoscere che le discriminazioni sono tutte odiose in pari misura, che le incitazioni all’odio (e non le mere opinioni) sono presenti nella nostra società e che devono essere condannate e perseguite. Scopo di questa proposta è affermare, in modo chiaro ed inequivocabile, che chi subisce discriminazione per il suo orientamento sessuale o per la sua identità di genere deve essere protetto, perché la sua dignità è pari a quella di tutti gli altri.
Giulia Marzia Locati, giudice penale del Tribunale di Torino
Francesca Romana Guarnieri, avvocata in Torino