Il tema non è nuovo, avendo impegnato dottrina e giurisprudenza sin da epoca risalente, con un dibattito che si rinfocolava nel tempo, in coincidenza soprattutto con le modifiche normative.
Tutto ruota intorno alla definizione del mendacio. Come noto, dal 1942 ad oggi si sono alternate tre differenti versioni della fattispecie di false comunicazioni sociali, a ciascuna delle quali si è accompagnata una autonoma descrizione dell’oggetto del reato. Si è passati dalla originaria versione dell’art. 2621 c.c., incentrata sulla locuzione “fatti non rispondenti al vero”, a quella del 2002, descritta nei termini di “fatti materiali non rispondenti al vero ancorché oggetto di valutazione”, a quella infine di “fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero”, scaturita dall’ultima modifica del 2015 e attualmente vigente.
L’inclusione delle valutazioni nell’area del penalmente rilevante è dunque frutto di un lavoro esegetico, tortuoso e per nulla scontato.
Ne è a fondamento una riflessione che investe il contenuto del bilancio, sulla cui corretta rappresentazione le false comunicazioni vanno ad incidere: “Oggetto di falsa esposizione o di nascondimento devono essere. Il termine sottintende un’esigenza di specificità e concretezza che consenta una verifica di conformità al vero. Non sono fatti gli apprezzamenti puramente qualitativi, a meno che nel contesto del discorso siano traducibili in dati oggettivi, come tali verificabili. Non possono invece contrapporsi ai fatti le valutazioni di bilancio, espressive di componenti patrimoniali di cui non è dato negare la consistenza economica (spesso anche fisica): la relatività dei valori stimati crea semmai problemi sotto l’ulteriore profilo della rispondenza al vero … Il problema cruciale delle valutazioni di bilancio è dunque di commensurabilità ad un parametro di verità. Una negativa aprioristica è insostenibile in quanto vanificherebbe il richiamo espresso della norma penale ai 'bilanci', nei quali predomina la componente valutativa”.
Queste parole, scritte da uno dei padri del diritto penale dell’economia, Cesare Pedrazzi, quando era ancora in vigore la versione originaria delle false comunicazioni sociali, segnano i confini di un dibattito rinnovatosi nel tempo: non ha senso, secondo questa linea di pensiero, escludere le valutazioni dal focus della disciplina penalistica, perché le valutazioni sono il cuore del bilancio ed una rappresentazione che astragga da esse finirebbe inevitabilmente per essere amputata di un tassello fondamentale.
Vi sono problemi di definizione dei confini della fattispecie che si intrecciano con questioni legate alla prova, quando dalla teoria si passa alla pratica dei Tribunali. Il filo rosso lungo cui si snoda il pensiero di Pedrazzi tende a valorizzare i criteri normativi su cui si fondano le valutazioni nel bilancio: esse non sono affidate a giudizi estemporanei dell’interprete ma riposano su regole fissate dalla legge (dal codice civile, anzitutto, ma al giorno d’oggi anche da fonti sovranazionali e da regolamenti attuativi). Un “valore legale”, dunque, che non deve avere la pretesa di rivelare verità oggettive ed inconfutabili, ma che deve tuttavia rispecchiare i criteri stabiliti dal legislatore per la formazione del bilancio.
Dopo la riforma del 2002 l’inciso “ancorché oggetto di valutazioni”, che accompagnava la perifrasi “fatti materiali non rispondenti al vero”, era stato oggetto di interpretazioni non uniformi. Le questioni erano spesso incentrate sulla semantica della congiunzione “ancorché” ed orientate a comprendere se la stessa avesse valore concessivo - e dunque rafforzativo della ipotesi di inclusione delle valutazioni nel novero dei fatti penalmente rilevanti - o confutativo di tale inclusione.
L’orientamento che si è affermato, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, è stato alla fine inteso a ricomprendere le valutazioni tra i fatti intorno a cui ruota il mendacio penalmente rilevante.
Gli argomenti di tipo letterale che nel 2002 erano stati utilizzati, a seconda delle prospettive, per accreditare od escludere la rilevanza penale delle valutazioni, come in un gioco degli specchi sono stati ripresi nel 2015 per ridefinire l’ambito applicativo della fattispecie. Ecco affermare, quindi, che l’avere espunto l’inciso “ancorché oggetto di valutazioni” - una volta consolidata l’interpretazione che trovava in questa formula la conferma della rilevanza penale delle valutazioni - affidando l’oggetto del mendacio ai soli “fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero”, significhi a contrario non attribuire più alcun peso specifico alle valutazioni estimative.
Il primo arresto giurisprudenziale, pressoché concomitante alla entrata in vigore della normativa vigente, è in qualche modo figlio di questo approccio interpretativo (Cass., sez. V, 16.6.2015, Crespi, Rv. 264868).
Questa prima sentenza, valorizzando una interpretazione di tipo rigidamente logico formale, ha ritenuto che l’avere amputato dalla definizione della fattispecie il riferimento “ancorché oggetto di valutazioni” abbia avuto come conseguenza un effetto parzialmente abrogativo; infatti “la nuova formulazione degli artt. 2621 e 2622 cod. civ., introdotta dalla L. 27 maggio 2015, n. 69, ha determinato - eliminando l'inciso "ancorché oggetto di valutazioni", ed inserendo il riferimento, quale oggetto anche della condotta omissiva, ai "fatti materiali non rispondenti al vero" - una successione di leggi con effetto abrogativo, peraltro limitato alle condotte di errata valutazione di una realtà effettivamente sussistente”.
La lettura della motivazione rende la misura del tipo di ragionamento sviluppato dalla Corte: basandosi principalmente sulla verifica del rapporto strutturale tra le fattispecie, i giudici sono giunti alla conclusione che vi fosse un elemento di forte discontinuità tra la versione della disposizione incriminatrice antecedente alla riforma e quella ad essa successiva, sì da generare quell’effetto parzialmente abrogativo che ha portato ad un annullamento senza rinvio “perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato”. Non valgono, ad avviso di questa sentenza, argomenti di tipo sistematico, che risultano peraltro contraddetti anche dall’esame dei lavori parlamentari, fuor di ogni dubbio orientati ad escludere dalla gamma delle false comunicazioni sociali i profili connessi alle valutazioni estimative.
Una seconda recentissima sentenza, emessa in seno alla medesima sezione della Corte di cassazione, è ispirata ad un principio opposto, volto a salvaguardare anche nel quadro normativo vigente la rilevanza penale delle valutazioni estimative (Cass., sez. V, 12.11.2015, Giovagnoli).
Gli argomenti su cui regge la motivazione sembrano ispirati alla più antica e autorevole dottrina. Il bilancio è per sua natura un documento con finalità informative, i cui profili valutativi sono imprescindibili per una corretta rappresentazione della realtà economica e finanziaria della società: “E’ risaputo che il bilancio - principale strumento di informazione - si compone, per la stragrande maggioranza, di enunciati estimativi o valutativi, frutto di operazione concettuale consistente nell’assegnazione a determinate componenti (positive o negative) di un valore, espresso in grandezza numerica. Si tratta, per vero, di attività prettamente speculativa e valutativa, al pari di ogni altra che esprime giudizi di valore. Non può allora dubitarsi che nella nozione di rappresentazione dei fatti materiali e rilevanti (da intendere nelle accezioni anzidette) non possano non ricomprendersi anche - e soprattutto - tali valutazioni. Se “fatto” lato sensu è il dato informativo e se “materiali e rilevanti” sono soltanto i dati oggetto di informazioni essenziali e significative, capaci di influenzare le opzioni degli utilizzatori, anche le valutazioni, ove non rispondenti al vero, sono in grado di condizionarne, negativamente, le scelte strategiche ed operative. Sicché, sarebbe manifestamente illogico escluderle dal novero concettuale delle rappresentazioni, potenzialmente “false” di fatti essenziali e rilevanti, in funzione di compiuta - e corretta - informazione”.
Il percorso argomentativo seguito dalla Corte muove peraltro dalla natura delle “valutazioni estimative”, che costituiscono un tipico giudizio “tecnico”, parametrato ad indici normativi e regolamentari. Risuona nel ragionamento della Corte l’eco della dottrina più autorevole, per la quale non è in gioco nel reato di false comunicazioni sociali l’affermazione del principio di un “vero oggettivo”, quanto la indicazione di valori - suscettibili di un margine di oscillazione - che tuttavia rispondono a criteri di classificazione e quantificazione imposti anzitutto dalla legge.
Ecco, laddove il criterio legale sia violato o, addirittura, sia fatto uso di un criterio diverso da quello dichiarato nel bilancio, scatta la rilevanza penale del mendacio. Ovviamente, non è sufficiente un falso tout court ma, come specificato nel passaggio della motivazione sopra riportato, è necessario ricondurre il tutto ad una falsità rilevante, che sia in grado di esprimere un effetto decettivo significativo verso i destinatari cui la informazione è destinata.
Interessante, in questa sentenza, anche il modello cui si orienta l’interpretazione sulla “intenzione del legislatore”, da intendersi - dichiaratamente - in termini rigorosamente oggettivi, “come volontà consacrata nel dettato normativo”, e non sulla base delle posizioni enunciate in sede di lavori parlamentari.
Le due sentenze, al dunque, esprimono un approccio interpretativo profondamente diverso. Quando si parla di criteri di interpretazione della legge non ha senso dire che un criterio è giusto e l’altro è sbagliato. La lettura di un qualsiasi manuale serio che affronti il tema delle fonti del diritto rende la misura di quanto complessa sia questa materia e, correlativamente, quanto arduo sia il compito che attende l’interprete.
Se possibile, poi, negli ultimi anni questa complessità è andata aumentando, perché il sistema delle fonti si è allargato, il meccanismo di successione delle leggi nel tempo ha assunto maggiore intensità ed il coordinamento delle norme risulta tutt’altro che lineare.
L’approccio interpretativo segnato dalla sentenza Giovagnoli appare preferibile: quando la norma penale richiama disposizioni extrapenali non si può procedere ad una interpretazione ragionevole senza fare i conti con la disposizione richiamata. Altrimenti, come è avvenuto con la sentenza Crespi, si giunge ad una interpretazione che - arroccandosi su un percorso soltanto logico / formale - svuota di contenuto il precetto e dunque sterilizza il comando riducendolo al simulacro di una lex imperfecta.
Vi è da augurarsi, per il futuro, che una linea interpretativa di questo tipo possa trovare il posto che merita nella giurisprudenza della Corte di cassazione, non solo nel diritto penale dell’economia ma in tutti quei settori - e non sono pochi - in cui il presidio penale è collegato a segmenti esterni dell’ordinamento. Anche per evitare, o almeno ridurre al minimo, quei contrasti giurisprudenziali che si risolvono - se visti con gli occhi di chi le sentenze le subisce - in decisioni discriminatorie, dove per gli stessi fatti qualcuno viene assolto e qualcun altro condannato.