Da più di quattro anni ormai la tragedia di Giulio Regeni, rapito torturato ed assassinato a Il Cairo, dove stava svolgendo una ricerca sui sindacati autonomi degli ambulanti su incarico dell’Università di Cambridge, non trova un finale. Da più di quattro anni i suoi genitori, Paola Deffendi e Claudio Regeni, senza cedere alla fatica ed allo sconforto, insistono con coraggio e determinazione nel chiedere quello che a loro è dovuto: verità, e possibilmente, giustizia. Uscito nel quarto anniversario della morte del loro figliolo, il libro “Giulio fa cose” è sì il reportage angosciante di una battaglia contro il muro opposto dalle autorità egiziane alla giusta pretesa di individuare gli assassini di Giulio; è anche la cronaca dell’atteggiamento ondivago, anzi ambiguo dello Stato italiano che sembra avere sacrificato ogni serio intento di affiancare questa famiglia nella ricerca di una risposta ai loro interrogativi alla “ragion di Stato” (che poi null’altro è che la sudditanza alle leggi di mercato e dello scambio economico); ma a ben vedere, è soprattutto la rivendicazione orgogliosa di un padre e di una madre di avere dato al loro amato figlio gli strumenti, e la curiosità, per sentirsi cittadino di questa modernità senza confini, che va a cercare la conoscenza lontano dal proprio ambiente di origine.
Non sta certo in questa ansia di conoscenza, da cui fin da piccolo Giulio era stato spinto a guardare lontano da casa, la causa, nemmeno remota, della sua fine: anzi, il loro Giulio era come tanti giovani che oggi scelgono di mettere in gioco le loro vite senza il comodo paracadute della sicurezza familiare per farsi, come scrivono loro, “costruttori di pace”. I signori Regeni hanno potuto verificare in questi anni, grazie ai tanti incontri con un largo pubblico che ogni volta esprime solidarietà, empatia, sostegno, che ormai Giulio è diventato un simbolo per tanti: perché in tanti hanno capito che quello che è successo a Giulio sarebbe potuto succedere “a qualsiasi persona che si mette a voler sinceramente e con impegno approfondire i temi delle politiche sociali, sviluppo economico e diritti umani, in paesi dove la tutela dei diritti è carente e necessiterebbe di sostegno da parte delle organizzazioni e delle politiche europee e mondiali” (pag. 75).
Queste frasi suonano oggi così lucidamente premonitrici, mentre si protrae in Egitto la prigionia senza prove di un altro ricercatore, Patrick Zaky, la cui detenzione nelle carceri egiziane prosegue di quindici giorni in quindici giorni senza alcuna formalizzazione di accuse precise nei suoi confronti. Uno sfregio ulteriore da parte di un regime autoritario che si fa beffe di ogni rispetto dei diritti umani non solo dei suoi cittadini ma anche di quelli di coloro che lo visitano per ragioni di studio. L’evidenza è tragica, e riguarda l’assenza di una comunità internazionale che possa far sentire la sua voce di fronte alle violazioni più plateali del rispetto della vita umana e della garanzia della libertà del singolo. Riguarda, anche in questo caso, l’assenza della politica, incapace di compiere delle scelte che non siano quelle più meschinamente dettate dalla convenienza spicciola e dall’immediato profitto di agenti economici impersonali e a cui, come tali, non si può nemmeno addebitare l’assenza di ogni senso etico.
Eppure del delitto di Giulio se ancora non si conoscono gli autori materiali, si sono accertati alcuni elementi a corredo, molto significativi: uno fra tutti, il feroce tentativo di depistaggio posto in essere dalla polizia egiziana, costato la vita a cinque innocenti indicati nell’immediatezza come i suoi assassini, inscenato come soluzione del mistero di quella fine, con tanto di ritrovamento dei documenti di Giulio. Una orrenda montatura, svelata grazie anche alla paziente opera dei magistrati italiani che hanno proseguito le indagini pur in assenza di ogni collaborazione da parte della procura egiziana, nonostante le dichiarazioni ufficiali di massima disponibilità. Una paziente opera che ha portato nel 2018 all’iscrizione nel registro degli indagati di cinque tra poliziotti e membri della National Security che avrebbero avuto un ruolo tanto nel sequestro quanto nel depistaggio messo in atto dopo il ritrovamento del cadavere di Giulio: atto che però non ha ottenuto alcun riscontro da parte della autorità giudiziarie egiziane, che non sembrano più occuparsi del processo.
Si aspettano entro il 30 aprile 2020 gli esiti del lavoro della Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Giulio istituita presso la Camera dei deputati, che dovranno fornire alcune risposte alle giuste richieste che l’opinione pubblica rivolge allo Stato italiano.
La tenace battaglia dei genitori di Giulio, affiancati dall’avvocata Alessandra Ballerini, che negli anni non hanno mai smesso di sollecitare, interpellare, lottare contro il silenzio da cui forse ci si aspettava che questa vicenda sarebbe stata coperta prima o poi, non sembra destinata a finire presto. Ma ormai entrambi sono ben consapevoli di non agire solo per sottrarsi ad un destino personale crudele ed insensato, ma in nome di una collettività più vasta che si identifica in un senso di umanità e di ribellione all’assolutismo di un potere dittatoriale che pretende l’impunità per i suoi crimini, anche i più assurdi ed ingiustificabili.
Giulio continua a fare cose, perché aggrega attorno a sé una comunità proiettata verso il futuro, che non verrà fermata dalla violenza e dalla brutalità dittatoriale e che anzi continuerà ad agire e ad operare per la costruzione di un mondo che riconosce valore alla persona umana, tanto più in quanto impegnata nella ricerca e nella diffusione del sapere. E tanto più in questa epoca di contagio pandemico, in cui al senso di responsabilità di ognuno è affidato anche il bene della salute, e della vita, degli altri, dovrebbe risultare ben chiaro a tutti che il destino dell’ “altro da noi” comunque ci riguarda, segna le nostre vite e contribuisce a costruire il futuro del mondo in cui siamo destinati a vivere noi e i nostri figli. E questo Paola e Claudio ce l’hanno ben presente: sottraendosi alla gabbia del ruolo di vittime, dopo avere conosciuto sul volto del loro ragazzo torturato ed ucciso “tutto il male del mondo”, continuano a battersi non solo per Giulio, ma per l’affermazione di un’esigenza universale di verità e giustizia. E per questo tutti dobbiamo loro una profonda gratitudine.