Nato a Torino nel 1968 e prematuramente scomparso nel 2012, Corrado Sobrero è apprezzato autore, fra l’altro, di una trilogia ambientata in America Latina, iniziata con Nevica sull’isola di Baro (Edizioni Manni, Lecce, 2006), proseguita con Il mercante di vaniglia (0111 Edizioni, Varese, 2009) e conclusasi con Il canto della Balena (Tea, Milano, 2014), purtroppo uscito postumo. Infatti il libro si apre con la citazione di parole incisive di Himelda, la protagonista assoluta del romanzo: Si è fortunati, se si muore avendo lasciato un segno.
Il romanzo è cronologicamente collocato nel 1892 e ambientato a Porsuerte, sulla costa del Pacifico in Colombia: un villaggio di pescatori e coltivatori di terra, la cui vita è resa difficile, a volte tragica, dall’oppressione e dalle angherie dei potenti ancor prima che dalla durezza del lavoro: “tutti avevano paura dei militari, nella famiglia di León” (p. 51), “Non era giusto, però, che a farne le spese fossero sempre i braccianti, i lavoratori, i più deboli” (p. 59).
Il canto della Balena è, al contempo, un libro pieno di magia: “rapisce” fin dalle prime pagine e sa continuamente sorprendere con sviluppi inattesi, veri e propri “colpi di scena” che solo la fantasia e la creatività allestiscono. Ha l’andamento per alcuni versi della saga – e in ciò richiama anche il clima letterario sudamericano coerentemente all’ambientazione della vicenda – e per altri della fiaba.
Simboli potenti, metafore suggestive quanto intelligenti e sogni profetici di un Futuro scritto con la maiuscola si intridono nella narrazione della storia. Un Futuro denso di speranze e di promesse, che ha in sé anche tratti di “equità”, ma che è contemporaneamente Fato e Destino: “Annunciato dai tuoni della notte e dai bagliori rossi dei suoi passi, elegante nell’abito nero della notte, discreto ed educato, quasi in punta di piedi, il Futuro arrivò inaspettato e improvviso, silenzioso e con classe. E fu forse per questo che nessuno, da principio, lo riconobbe. ‘Ci sa fare, il Futuro’, aveva poi esclamato León, quando il Futuro si era ormai insediato” (p. 7). D’altronde il Futuro è costante attore dell’intera trilogia.
Questa multiplanarità rende semanticamente denso il romanzo e gli assegna una intensa carica evocativa, che il lettore può “riempire”, individualizzare ed arricchire sulla base del proprio pensare e sentire e della propria esperienza. Uno degli indubbi pregi del libro, infatti, è proprio lo straordinario spazio concesso al lettore: potremmo dire che è un libro “a interattività inscritta e prevista” e che più che affermare suggerisce. Sicuramente Il canto della Balena è un testo multiprospettico, in cui lo sviluppo della storia continuamente si arricchisce e si intreccia con l’analisi delle molte e diverse pieghe dell’animo umano. La levità del racconto si coniuga alla pensosità poliedrica della riflessione che attiva nel lettore: riflessione che non è mai freddamente intellettuale o neutra e che parte sempre da emozioni, da accadimenti e personaggi che sanno parlare anzitutto al cuore.
La Balena è un’isola rocciosa improvvisamente emersa nell’oceano con tutti i tratti del “prodigio” (pp. 18-25), ma è anche metafora e “luogo mentale” in cui incontrare il proprio sé. Questa scheggia granitica nel mare è causa e motore perché ciascuno scopra e almeno momentaneamente viva la propria parte più intima e distintiva, tanto nella storia che dalla parte del lettore. Il libro è quel che si definisce “un’opera aperta”, in cui ciascuno può identificarsi come gli è più congeniale: non ha un “messaggio univoco”, ma di messaggi è ricco, in modo che ognuno possa cogliere ed elaborare “i suoi”.
Al centro del racconto è una famiglia di pescatori e contadini, in cui ognuno ha i propri compiti e la propria funzione. Ne fanno parte la giovane Himelda – che spicca e si staglia rispetto a tutti – la madre Anita, il padre León, i sei fratelli, la vecchia zia Melosa ricca di sapienza magica e di racconti: “Una volta, centinaia di anni fa, si radunavano le streghe […]. Le streghe sull’isola del Coco parlavano al mare e ai pesci e lo facevano di notte’’ (p. 141).
Himelda è anzitutto emblema di chi si riconosce e porta avanti “un cómpito” e vuole farsi protagonista e attore della propria vita ed è simbolo della forza delle idee e della determinazione: “Era solo grazie alle idee e alle convinzioni di quella ragazzina se tutta la famiglia poteva ancora vivere” (p. 198).
Himelda esprime e realizza la fiducia positiva dell’autore nella figura della donna anche in tempi e luoghi in cui questa è tipicamente emarginata: “non è giusto che sempre i maschi debbano fare le cose più belle e debbano essere i primi” (p. 49). E già ne Il pulcino bolscevico (La Carmelina Edizioni, Ferrara, 2012) Corrado Sobrero aveva dispiegato la sua osservazione attenta dei bambini, del loro “mondo” e della loro evoluzione. La convinzione che sia proprio la “parte bambina” di ciascuno di noi a salvarci dalla dimensione di “maschere” permea tutta la sua opera, così come l’orrore per tutto ciò che di male viene fatto ai bambini.
Himelda è anche testimonianza del valore assegnato al potere creativo del linguaggio: “Himelda […] dava un nome a tutto” (p. 31) “era lei la specialista dei nomi” (p. 37), “A Himelda piacevano tutte, le storie, ma più di tutte le piacevano quelle che le raccontava León, perché raccontandole suo padre creava nuovi mondi, mondi senza peso e senza fatica, e chi ascoltava poteva volare” (p. 34).
Anita, dal passato e dal presente tragico, è sicuramente il personaggio che più attinge alla pietas dell’autore ed è proprio ad Anita che il Futuro si presenta anticipatamente attraverso continui sogni profetici: “Li aveva sognati la notte prima, cinque uomini, un carro, un cavallo” (p. 144).
León riassume in sé sia la figura di chi si spacca la schiena a lavorare indefessamente, sia la paternità: “Orgoglio e un po’ di vergogna. Questo provava León guardando la figlia. Orgoglio, ma un po’ di vergogna per non aver saputo dare di più, a lei e a tutti i suoi fratelli, per non essere stato all’altezza, per non aver dato loro un posto migliore in cui vivere. Orgoglio, soprattutto”(p. 198).
La famiglia, e in particolare Anita, sono rappresentazione e metafora degli stessi concetti di “popolo” e “persone” da sempre esposti alle violenze e alla crudeltà dei potenti: “Una villana che non si piega al potere. Una piccola e insulsa donna che non accetta l’autorità, che non si inchina ma rimane in piedi sulla soglia e nega l’ingresso a due rappresentanti dello Stato. La stessa donna il cui marito parlava di diritti, qualche tempo prima, per nulla intimorito da quella divisa che invece doveva incutere rispetto. Fu in quel momento che il capitano Yago Torres Vicente si convinse di avere di fronte un piccolo germe di sovversione, una stolta erbaccia da estirpare” (p. 190).
Ma il libro è anche un’intera galleria di innumerevoli personaggi, disegnati a tratti caratterizzanti proprio come nelle fiabe e spesso all’autore basta un aggettivo, un verbo, un nome per evocare “il tratto” che è più peculiare di ciascuno: “Un uomo, un cappello dalle larghe falde. Un uomo gentile, pensò Himelda” (p. 105), Pepillo detto Manopesante “non parlava mai, pur non essendo muto” (p. 112) anche se a sorpresa può trasformarsi in Pepe il Gorgogliante (p. 116), “Esteban Ojo era un vecchio giramondo di quasi duecento anni” (p. 117), “Ramira Delgado […] spiccava per la bellezza incolpevole” (p. 138), e così via. In questo senso il libro richiama la ricchezza delle tipologie umane tipica della letteratura latino-americana a cui il romanzo si ispira e che lo permea. Anche i nomi e i soprannomi non di rado sono condensazioni identitarie del carattere e del personaggio: Celimanna, Tadeo Amaca, Tomás Faccia d’acciuga, Zacarías lo Stanco,l’oste Orlando Rubio, ecc.
Così come i personaggi, anche i luoghi sono tratteggiati con poche pennellate essenziali, sempre linguisticamente ben gestite, e si fanno eco di stati interiori: “Un nome per ogni podere, confini abbastanza precisi, un terreno, una storia” (p. 14), “Roccia, terra, carne, silenzio: questo trovò Pepillo, e ne fu contento” (p. 132), la Locanda degli Indifferenti (p. 114), l’Osteria del Gallo Mattiniero (p. 115).
La scrittura è scorrevole e piana, scandita da periodi brevi, non di rado nominali: “Una piccola barca a vela, due remi. E una lanterna sul fondo, unica stella di quella notte di tenebra” (p. 8). E anche là dove il periodo si distende lo stile resta quanto mai lineare: “Fu allora che il silenzio si ruppe, interrotto da decine di discorsi contemporanei e spezzati, domande di fratello in fratello, risposte, sogni a occhi aperti e pancia piena, incroci di monologhi e sprazzi di dialoghi” (p. 196).
Selezioni lessicali accurate e figure retoriche (metafore, similitudini, sinestesie ecc.), assonanze e consonanze, riprese e accostamenti linguistici inediti creano l’effetto poesia: “Nell’aria salmastra e umida si mischiavano gli odori di vento e di sabbia” (p. 7), “Il rumore del buio è un rumore silenzioso e denso” (p. 18), “pelle indurita dal sale e dal sole” (p. 18). Tutto ciò e l’iterazione di parole chiave – tra cui Futuro e segnale ma anche fame – realizzano quello che da più parti è stato definito lo stile ipnotico di Sobrero.
Perfino l’ordine delle parole e la punteggiatura sono gestiti abilmente. Efficace e densa di positivi effetti la capacità di riprodurre tratti del parlato nelle parti dialogiche e anche nella rappresentazione del pensiero intrapsichico dei personaggi: “Non ne abbiamo forse abbastanza, qui, di terra?” (p. 74), “Lui l’aveva vista, la ferrovia” (p. 84). C’è addirittura un’attenzione esplicita a ritmi, pause e silenzi: “Le pause aiutano a pensare, a digerire quanto appena ascoltato. Esaltano il racconto, pensava Himelda. Un buon racconto ha dentro molte sapienti pause” (p. 97).
In sintesi, lo stile di Corrado Sobrero rende sì piana e scorrevole la lettura, ma è tutt’altro che semplice: è sapiente.
Come la letteratura sudamericana a cui si ispira, il romanzo è anche canto ed epos, del potere salvifico dell’intelletto e della conoscenza, del talento e dell’intraprendenza, di cui Himelda è esempio e continua e variegata prova: “Aveva qualcosa in mente, un progetto, un’idea” (p. 73), “quei corpi involucri di idee necessarie per guardare al futuro con una nuova speranza” (p. 89), “‘L’ignoranza è complice dei padroni’, disse” (p. 108). Qualità tanto più indispensabili di fronte alla sopraffazione del potere: la Balena in fondo è e resta un oggetto di per sé inerte ma capace di attivare l’eterno dinamismo fra l’umanità e la creatività di popoli e persone tesi alla sopravvivenza e al “riscatto”, da una parte, e la forza bruta e violenta del potere, dall’altra.
Tra poesia, fantasia e stile il romanzo dispiega quello che è stato efficacemente definito “realismo magico”, in cui atmosfere e viaggio nell’interiorità dell’io si coniugano con la lezione e l’esperienza della Storia.
Infatti La Balena è luogo e occasione dove realizzare parti che ci sono essenziali ma che spesso vengono compresse: per i personaggi della storia è il concreto spazio segreto e a sé – un “luogo altro” – in cui riposare, cantare, riflettere, pregare, tacere, osservar le stelle. Ma l’isola prodigiosa è anche “potere economico” e “posizione strategica” di immediato interesse per i militari.
La Balena, in sintesi, rappresenta le vocazioni di ciascuno, ma anche la violenza e la crudeltà del potere di cui la Storia è piena: “quell’isola, col suo carico di vita e di terra, quell’isola carica di sogni e speranze, di desideri e aspettative, quell’isola ora carica solo di militari, uomini non più uomini, solo divise e pretesti per odiare” (p. 219).
Il canto della Balena è un romanzo agile e adatto alle vacanze, ma è anche libro colto, scritto da chi contemporaneamente conosce a fondo il funzionamento del linguaggio ed ha alle spalle innumerevoli letture di ogni tipo.