Ariaferma, film diretto da Leonardo di Costanzo e interpretato da Toni Servillo, Silvio Orlando e Salvatore Striano (attore ex-detenuto, Bruto nel film “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani, film capolavoro sul tema) è ambientato in un carcere in via di dismissione.
I detenuti attendono, assieme ad un piccolo gruppo di agenti, di essere trasferiti.
Paure, speranze e illusioni si intrecciano tra i pochi reclusi e i ridotti poliziotti che li sorvegliano.
Per un disguido burocratico l’attesa si allunga e si forma un’inedita comunione, tanto fragile quanto inaspettata. Ognuno all’inizio è costretto a giocare il suo ruolo, quello che una legge beffarda gli assegna, finché un evento ancora più straordinario (che non riveleremo) scatena un flusso di vita, una vita meno confinata e meno tragica.
In una rotonda centrale di un vecchio carcere, un “panottico” in sedicesimo, tra il rumore delle chiavi e le urla ossessive (come solo in carcere si sentono), si crea una situazione nuova che stravolge gli equilibri consolidati tra ladri e guardie, tra “camosci” e “girachiavi” (come il gergo di un tempo identificava le due categorie).
Di Costanzo descrive con assoluto rigore una verità: il carcere è metafora della vita. Ognuno ha una maschera che la società gli assegna ma poi succede sempre qualcosa che rompe gli schemi e la vita vera irrompe. Per i detenuti nessuna indulgenza, non è questo il punto: ognuno porta con sé il peso delle sue responsabilità (rinfacciate al ‘reo’ da un superbo Servillo in un serrato dialogo con Orlando) ma ciascuno in quanto uomo, con la sua nuda vita - anche quella, triste, di chi deve solo sorvegliare e custodire altre vite - è di fronte all’altro e alla sua intrinseca umanità. Il carcere, che è soprattutto omologazione, distrugge le individualità ma talvolta esse emergono con indomabile forza.
Nel filmare sapientemente l’ordinaria vita del carcere c’è tutto quello che vi è: la noia infinita, l’ozio forzoso di una condizione che dovrebbe rieducare ma invece sopprime umanità, i ritmi estenuanti, l’orribile architettura, il sapore del cibo precotto e l’odore nauseante delle celle (par di sentirli uscire dallo schermo). Il regista non giudica, non tenta di convincere, mostra solo ciò che non vogliamo sapere e alla fine l’uomo con la sua coscienza morale ha il sopravvento sulla disumanità di un carcere straniante.
Lo scontro è solo psicologico: è un thriller delle emozioni che trascina lo spettatore fino in fondo quando la catarsi del cibo sembra mettere fine al conflitto ma, come sempre succede quando si tratta di carcere, è solo un attimo, nulla cambierà per sempre.
Perché vederlo?
Intanto il carcere è, per la prima volta al cinema, raccontato non come ciascuno di noi se lo immagina, ma per come è veramente. Smonta molti luoghi comuni, con occhio disincantato, per nulla indulgente. Ma il carcere che vi è descritto non corrisponde affatto al racconto sociale che di esso comunemente si fa: la galera che si vede esaurisce in sé solo la funzione retributiva, meramente afflittiva, cioè l’antitesi del modello costituzionale che vuole la pena da un lato non disumana e dall’altro indirizzata al reinserimento. Fosse solo per questo il film andrebbe mostrato nelle scuole.
Poi, fa capire che in galera c’è prima di tutto una mentalità da combattere (la scena dello stigma carcerario nei confronti di chi “è peggio di te” perché ha commesso dei reati inaccettabili anche per il peggior delinquente, è di particolare intensità) ma anche tanta solidarietà (il giovane aiuta il vecchio compagno in difficoltà perché si riappropria di quel valore, il rispetto verso gli anziani, che proprio con il reato commesso “fuori” aveva perduto).
Il film insegna molto a chi di carcere non sa nulla: ci voleva Ariaferma per apprendere ad esempio che i detenuti italiani non mangiano tutti insieme alla mensa, nonostante una norma di legge lo preveda espressamente.
Ci voleva Ariaferma per sapere che in istituto molto si regge sulle nude spalle di pochi agenti, reclusi anch’essi, lasciati soli a governare le vite altrui, costretti a prendere decisioni straordinarie nell’indifferenza di una burocrazia tal volta distratta, più spesso inerte.
Ma il film è la metafora anche di cosa è stato il carcere durante la pandemia: inattività protratta, sospensione dei contatti con la famiglia, attese snervanti, paura del trasferimento, angoscia di ammalarsi.
Ariaferma infine ci insegna che non esistono destini separati, esiste un destino comune che riguarda tutti i cittadini, quelli che stanno ‘dentro’ e quelli che stanno ‘fuori’, ed è fondamentale che chiunque se ne faccia carico.
Il ritmo incalzante, la musica avvincente e la straordinaria bravura di attori del calibro di Toni Servillo e Silvio Orlando, fanno di Ariaferma un grande film.