Fino alla sentenza 1361/2014 della Cassazione, la giurisprudenza offriva l’opportunità di effettuare “il delitto perfetto” a livello civilistico (s’intende) e di non pagare nulla nel rispetto dell’ordinamento.
Bastava uccidere immediatamente e scegliere una persona che non avesse una occupazione, nè prossimi congiunti: non si rischiava assolutamente niente.
Da circa un secolo la giurisprudenza dominante (dalla Cassazione alla Corte Costituzionale) sosteneva infatti che chi muore immediatamente per responsabilità altrui non subirebbe alcun danno civilistico perché - questo il paradosso del diritto alla vita - quando è arrivata la morte il soggetto più non esisteva per maturare il diritto al risarcimento e trasmetterlo iure hereditatis.
In sostanza, l’ordinamento non avrebbe potuto risarcire il danno alla vita perché per il diritto non c’era nulla da risarcire e, non essendoci nessuno su cui potesse agire una riparazione civilistica, il risarcimento avrebbe avuto una funzione esclusivamente punitiva.
Contro questa concezione – a dir poco inquietante - poteva bastare lo stesso senso comune ed il sentimento di giustizia che rifiutano di ammettere che chi ha perso la vita non abbia subito nessuna perdita.
Oggi contro questa concezione si è espressa finalmente la Corte di Cassazione (sentenza n.1361/2014) con dovizia di argomenti logici e giuridici.
In allegato, una ricca ricostruzione della quale si riporta il sommario:
Premessa
Cronometristi della morte
L’irrilevanza del tempo e la lucida agonia
La mancanza di tutela del bene vita. Orientamento pre-Costituzione
Risarcire la vita: un ossimoro?
Il danno terminale: più vivi più sei risarcito!
La riduzione in coma: nessun risarcimento.
La stima del risarcimento.
Il superamento dell’orientamento tradizionale. La sentenza n. 1361/2014