Mi sono sempre chiesto perché l’articolo con cui si ricordano la vita e le opere di personaggi noti al pubblico, per commemorarne la morte, debba chiamarsi “coccodrillo”.
Alcuni sostengono che l’espressione derivi da “versare lacrime di coccodrillo”, perché l’articolo non appare la manifestazione di un sincero cordoglio, essendo stato freddamente preparato con grande anticipo, in attesa della possibile fine di colui al quale è dedicato, evento che gli organi di informazione non possono permettersi di “bucare”, facendosi cogliere impreparati dalla Morte, che non regola i suoi tempi sugli orari dei notiziari o sulle uscite dei quotidiani.
Nel “coccodrillo”, tuttavia, a volte si legge un’ipocrisia più sottile: la glorificazione postuma di chi, in vita, non ha ricevuto gli onori ed i giudizi lusinghieri, che gli vengono riservati da morto.
Cosa c’entra tutto questo con la morte del romanziere, saggista, giornalista e fotografo napoletano Ermanno Rea?
Non può certo dirsi che egli sia stato poco apprezzato o che sia stato un paria nel mondo delle lettere italiane.
I suoi romanzi (se non lo avete fatto, mi permetto di consigliarvi di leggere, quanto meno, Mistero napoletano; La dismissione e La comunista. Due storie napoletane) e le sue inchieste giornalistiche hanno vinto premi importanti (il Campiello ed il Viareggio) e sono stati pubblicati dalle più prestigiose case editrici italiane (Einaudi, Rizzoli, Feltrinelli).
Nonostante ciò, egli, nelle sue scelte (non solo) narrative, rimase sempre un vero eretico, molto distante dai modelli di intellettuale “organico” in voga in Italia, sicché non appare del tutto convincente il tentativo di riappropriazione di Rea all’establishment culturale, che si sta svolgendo sotto i nostri occhi in questi giorni sulle pagine dei grandi quotidiani di informazione (con l’unica eccezione, forse, del bell’articolo scritto da Corrado Stajano per il “Corriere”).
L’eresia di Rea si svolge lungo tre assi portanti.
Innanzitutto essa si rivolge contro una rappresentazione conformistica di Napoli: uomo dalla fisionomia ispida, urticante, a tratti antipatico, remotissimo dallo stereotipo del napoletano piacente e compiacente, in lui prendeva corpo il lato pessimistico e melanconico di quell’intelligenza meridionale, così ben descritta da Sciascia.
Pessimismo, tuttavia, che non si risolveva nell’accidia deprecata da Leopardi, ma nella convinzione, fondata sulla lezione vichiana secondo cui il mondo della storia è costruito dall’uomo con le sue azioni concrete, che il napoletano, al pari di tutti gli altri uomini, non è ontologicamente vittima del male, potendo, anzi dovendo, scegliere da che parte stare.
E la parte di Rea era quella del socialismo, che vedeva nei lavoratori e nel partito comunista gli elementi portanti della Repubblica nata dalle ceneri del fascismo, contro il quale egli aveva combattuto da ragazzo come componente della brigata garibaldina “Gino Menconi”, e che lo portò a frequentare la redazione napoletana dell’Unità, nella storica sede dell’Angiporto Galleria, insieme tra alcune delle energie intellettuali più vivide della Napoli del dopoguerra, tra cui spiccava la figura di Enzo Striano.
Ma anche il suo rapporto con il P.C.I. fu contrassegnato dall’eresia
Attraverso la dolorosa vicenda umana e politica della militante comunista Francesca Spada, protagonista assoluta di Mistero napoletano, morta suicida (come il grande matematico napoletano Renato Caccioppoli, altro esempio di intellettuale trasgressivo, inviso ai burocrati del partito), con il fantasma della quale lo scrittore immagina di dialogare in La comunista, Rea denuncia la violenza “stalinista” e l’ottusità del gruppo dirigente del Pci napoletano degli anni ’50, incapace di tollerare qualsiasi forma di dissenso al suo interno.
Tema che verrà ripreso in un’altra opera di grande importanza storica e sentimentale, Il caso Piegari, in cui Rea ricorda la “scandalosa liquidazione del gruppo Gramsci, attivo a Napoli tra la fine degli anni ’40 e il 1954”, il cui leader, Guido Piegari, venne espulso dal Pci, all’esito di una vera e propria campagna diffamatoria condotta nei suoi confronti per iniziativa dei vertici del partito, che, alla visione gramsciana, propugnata da Piegari, di un meridionalismo vissuto come “questione nazionale”, fondato “sull’integrazione politica dell’Italia nel segno dell’egemonia operaia alleata ai contadini e ai sottoproletari meridionali”, preferirono sostenere il modello del Movimento per la Rinascita di Giorgio Amendola, di cui lo stesso Piegari ed il suo stretto sodale del tempo, l’avvocato Gerardo Marotta, futuro creatore dell’Istituto per gli studi filosofici, dove sopravvisse lo spirito del “gruppo Gramsci”, denunciarono invano la deriva regionalistica e salveminiana.
Napoli ritorna nel romanzo La dismissione, come lente attraverso la quale rappresentare la perdita di centralità del mondo del lavoro manifatturiero, attraverso la narrazione di Vincenzo Buonocore, espressione di un’aristocrazia operaia ormai perduta, che, sia pure a malincuore, onorerà al meglio delle sue capacità l’ultimo compito che gli viene affidato: smontare le apparecchiature della fabbrica siderurgica di Bagnoli, acquistate dai cinesi; ed ancora in Napoli Ferrovia, dove ad accompagnare lo scrittore in un viaggio contemporaneo all’interno degli inferi della città partenopea è Caracas, un venezuelano dal cranio rasato e razzista, che sta per convertirsi all’Islam.
E Napoli, infine, chiude il percorso esistenziale di Rea nella sua ultima opera, che verrà pubblicata postuma il 13 ottobre, Nostalgia, in cui a parlare sarà il quartiere dove Rea è nato, la Sanità, una delle zone a più alta densità criminale della città, dove a fronteggiare le bande criminali della camorra provvedono soprattutto i sacerdoti di diverse parrocchie e le organizzazioni di volontari che ad essi fanno capo.
Una Chiesa, quella degli Zanotelli, dei Loffredo, diversa dalla Santa Romana Chiesa, istituzione ecclesiastica, contro cui Rea lancia gli strali della sua acuminata intelligenza, nel suo saggio La fabbrica dell’obbedienza, individuando nell’opera della Controriforma e del suo braccio armato, il Tribunale dell’Inquisizione, l’artefice di quell’abito (im)morale del tipo italiano, contraddistinto da servilismo e complicità nei confronti del potere, qualunque veste esso assuma, e dall’assenza di ogni etica della responsabilità.
La scelta di Rea è stata, dunque, quella di narrare, partendo dalla sua città, secondo la lezione di Eduardo, le storie degli sconfitti, dei perdenti, senza nessuna commiserazione, mosso da una mai doma volontà di andare alla ricerca della giustizia, ovunque fosse rintracciabile, che lo spinse, ultraottantenne, a candidarsi generosamente con la lista Tsipras alle ultime elezioni europee.
Napoli, però, non lo ha mai sentito sino in fondo come suo figlio, perché troppo eterodosso ed ispido.
Ora si assiste ad un tentativo di recupero, sicuramente apprezzabile, ma che, per essere davvero convincente, dovrà superare il doppio pregiudizio ed i luoghi comuni ai quali Rea faceva riferimento in una bella intervista ad Antonio Gnoli.
"L'idea che sia impensabile un comunismo allegro, umano, garbato, perfino 'leggero', fa il paio con l'idea che non possa esistere in natura il napoletano silenzioso, ordinato, malinconico, legalitario fino all'ossessione. Il fatto è che certi luoghi comuni sicuramente facilitano la vita, però non la spiegano".