La vicenda di Benjamin Netanyahau, facitore primo della terribile politica israeliana di oggi, è indicativa del progressivo arretramento culturale di un popolo che almeno nel ceto dei suoi intellettuali ha a lungo creduto alla possibilità di un rapporto pacifico e costruttivo con il mondo arabo; e al quale per molto tempo si è guardato come un interessante esperimento di democrazia. Certo, in Israele sono storicamente in tanti, non solo i coloni, a non volere uno Stato di Palestina, a cominciare da Netanyahu. O vorrebbero, a tutto concedere, che i palestinesi venissero concentrati in una serie di bantustan, tratti di territorio isolati fra di loro e severamente controllati, come avveniva ai tempi dell’apartheid in Sudafrica per la gente di colore.
E però sono tanti anche coloro che pensano sia da rifiutare la logica di una guerra permanente con il mondo arabo. Del resto, sia pure fra mille contraddizioni le premesse per arrivare a una soluzione positiva del conflitto nel corso degli anni si sono intraviste. Questa è una storia già scritta e commentata ma vale la pena di ripeterla. Il ricordo va agli accordi di Oslo del settembre 1993, fra Yasser Arafat e Itzhak Rabin, e ai negoziati di Taba (Egitto) del 2001. I punti di convergenza sono stati ripresi in una ipotesi di trattato, elaborato nel 2003 da pacifisti israeliani ed esponenti palestinesi. Questo testo prevedeva fra l’altro che i confini fra i due Stati, garantiti dalla presenza di forze armate internazionali, venissero stabiliti sulla base di quelli del 1967, peraltro con alcune modifiche dettate dal realismo, nel senso che in territorio israeliano rimanevano alcuni consistenti insediamenti di coloni intervenuti nei decenni, in cambio di un tratto del sud del deserto del Negev. Questi tentativi non hanno avuto successo, e gli appelli di tanti intellettuali israeliani, guidati dagli scrittori Grossman, Oz e Yehoshua, per la pace e per il riconoscimento dello Stato palestinese, sono rimasti inascoltati, E sono peggiorati i rapporti fra i due popoli, anche per i continui espropri di campi e case giustificati col mancato riconoscimento da parte di Israele del catasto ottomano.
Il passo decisivo verso questo peggioramento lo si è avuto nel 2022. «Votatemi, e lo Stato palestinese non nascerà». Messo all’angolo da sondaggi che lo vedevano in difficoltà, Benjamin Netanyahu - «uomo pronto a morire per il potere», ha scritto di lui il quotidiano Haaretz - ha concluso quella campagna elettorale dicendo chiaramente le sue intenzioni, che per la verità in Israele tutti conoscevano da tempo e che le Cancellerie Usa ed europee, ripetendo sempre la formula “due popoli, due Stati”, facevano finta di ignorare. Per non lasciare dubbi sulla sua linea politica, quelle parole Netanyahu le ha pronunciate in un insediamento nella Cisgiordania occupata, sorto a sud di Gerusalemme, nei pressi di Betlemme, avendo alle spalle un cantiere per la costruzione di nuove abitazioni. Pur di vincere si è spostato sempre più a destra, proponendo la visione di uno stato ebraico, nazionalista e religioso, con la marginalizzazione degli arabo-israeliani, circa il 20% della popolazione.
Dopo una campagna elettorale che lo ha portato a sfruttare anche l’aiuto dei repubblicani americani, contro la politica del presidente Obama, Netanyahu ha vinto. Da allora i disastri si sono succeduti ai disastri. Mentre autorevoli leader moderati che in passato avevano sostenuto i suoi governi, come Yair Lapid e Benny Gantz, sono diventati suoi avversari, spingendo sempre più a destra il governo, il 7 ottobre 2023 Hamas, l’organizzazione sunnita operante a Gaza dal 1987, ha attaccato Israele senza trovare una significativa resistenza, uccidendo numerosi israeliani e sequestrandone più di duecento. La reazione di Netanyahu di questi mesi è nota: ai distruttivi bombardamenti su Gaza si sono progressivamente affiancati quelli sul Libano, la Siria e l’Iran. Il numero dei morti causati da queste operazioni è diventato incalcolabile. E però le critiche si sono fatte forti come non mai nei confronti dello Stato ebraico, nelle pubbliche opinioni come a livello internazionale. Qui, mentre Netanyahu è giunto a offendere ripetutamente l’Onu e il suo segretario generale ostentando indifferenza per ogni esortazione, s’è fatto grande il numero degli Stati - 146 su 193 membri delle Nazioni Unite - che hanno riconosciuto la Palestina come stato sovrano (fra questi non c’è l’Italia). E può capitare che un gran numero di governi escano dell’aula dell’Onu quando è chiamato a intervenire il capo di quello israeliano, che intanto nel suo paese è sotto processo per tre vicende di corruzione. Intanto la bandiera palestinese, i suoi colori erano largamente sconosciuti fine a due anni fa, ha invaso le università e le strade del mondo. Certo, la sua politica, continuamente sostenuta da sanguinose operazioni militari, appare oggi fallimentare. Carri armati e aerei da combattimento continuamente forniti dagli Usa rendono facilissimi questi attacchi (inutilmente il presidente francese Macron propone la sospensione dell’invio di armi a Israele).
Ma, a parte l’ostilità crescente nel mondo, Netanyahu deve governare un paese profondamente diviso, che in particolare gli contesta il rifiuto ostinato di accettare una qualche sospensione del ricorso alle armi per ottenere la liberazione da parte di Hamas di numerosi ostaggi, la cui sorte lo lascia palesemente indifferente. E i paesi che circondano Israele, tutti vittime di indiscriminati bombardamenti, gli sono diventati tutti nemici.
Quanto potrà durare questa situazione?