“Fin dall’inizio ci vengono consegnate molte vite che conserviamo dentro di noi. Dal primo all’ultimo mattino lottiamo per portarle con noi fino alla fine”.
E’ Mei, bambina cambogiana che a 11 anni lascia il suo paese dilaniato dalla follia dei Khmer Rouge, la protagonista di “L’eco delle città vuote” (66thA2ND,2013), un libro scritto con linguaggio potente ed elegante da Madeleine Thien (nella foto), 40 anni, canadese di origini orientali.
Ci sono voluti 5 anni per scrivere la storia di due sopravvissuti che ad un certo punto della loro vita non resistono al senso di colpa e tornano in Cambogia per cercare parenti scomparsi e dar corpo a ricordi confusi: lo fa Mei, finita a Vancouver dove, grazie a genitori adottivi, è diventata Janie, brillante elettrofisiologa.
E lo fa il giapponese Hiroy, uno scienziato suo amico, per ritrovare il fratello medico.
A Janie l’Angkar ha strappato 30 anni prima non solo i genitori, ma anche il fratellino Sopfham, diventato bambino-soldato e torturatore prima di scomparire per sempre.
Nell’aprile del 1975, quando gli uomini di Pol Pot entrarono in Phnom Penh, “la città alla confluenza dei fiumi”, sembravano i vincitori di una guerra giusta ma la verità era un’altra: volevano azzerare tutto, compresa la memoria delle vite precedenti: “Non appartieni a nessuno e nessuno ti appartiene - dice l’Angkar – l’attaccamento al mondo è un reato”.
Due o tre milioni di morti, però, non furono sufficienti: nel gennaio del 1979 i vietnamiti li cacciarono da Phnom Penh ma per molti anni ancora, grazie all’ipocrisia dell’Occidente, furono i Khmer a rappresentare la Cambogia nelle N.U. Janie ritornerà al marito Navin e al figlio Kiri lasciati in Canada solo dopo essersi riappropriata di radici e identità.
Fangosi campi di sterminio ed ossa sparse ovunque, ma anche amicizia e generosità popolano le pagine di questo intenso libro e così la storia di una donna e di un uomo si confonde con quella di un popolo, il sogno con la realtà, in un groviglio magico e inestricabile.
“L’ultima immagine che ho della Cambogia è oscurità, è il suono di una quarantina di vagabondi muti, di preghiere silenziose. Ho chiuso gli occhi...Voltati a guardare indietro un’ultima volta, ha detto mia madre”.