Magistratura democratica
giurisprudenza di legittimità

La crisi di liquidità dell’impresa: tra forza maggiore, causa di esclusione della colpevolezza e inesigibilità della condotta doverosa

di Marco Nassi
Sostituto Procuratore della Repubblica - Grosseto
Breve nota a Cass. n. 5905 del 7.2.14.
La crisi di liquidità dell’impresa: tra forza maggiore, causa di esclusione della colpevolezza e inesigibilità della condotta doverosa

Con la sentenza n. 5905 del 7.2.14 la Suprema Corte si è occupata della tematica della rilevanza della illiquidità dell’impresa in riferimento al delitto di omesso versamento di ritenute certificate (art. 10 bis d. lgs. n. 74/00).

La motivazione della sentenza richiede più di una lettura e va valutata, come evidenziato nella sua premessa metodologica, avendo ben presente l’intero percorso processuale della vicenda.

La decisione della corte territoriale impugnata aveva liquidato il motivo di appello incentrato sull’assenza di dolo e sulla inesigibilità della condotta doverosa (l’imputato “in un periodo di serie difficoltà finanziarie della società, aveva preferito far fronte al versamento delle retribuzioni”) osservando che il fatto che “pagate le retribuzioni nette l’appellante non abbia avuto disponibilità per i versamenti delle ritenute è cosa priva di rilievo, come già ritenuto dal primo giudice”. Nel caso concreto il Tribunale di Lucca aveva riconosciuto la responsabilità dell’imputato ma aveva concesso le attenuanti generiche in considerazione, tra le altre cose, dell’assenza di un fine egoistico per avere l’imprenditore indirizzato le proprie risorse al pagamento delle retribuzioni dei dipendenti.

La Corte di Cassazione affronta il motivo di ricorso – ove all’assenza di dolo veniva giustapposta la forza maggiore consistente nell’indisponibilità della somma necessaria ai versamenti delle ritenute d’imposta – prendendo le mosse dall’analisi della natura della forza maggiore per poi giungere alla verifica della compenetrazione in essa di due anime distinte: la prima involgente l’elemento oggettivo del reato sub specie di legame causale tra condotta ed evento, la seconda l’aspetto soggettivo della colpevolezza. Sul punto, più precisamente, rileva come “per quanto ab origine si tratti di una tematica eziologica, cioè attinente al comparto oggettivo della fattispecie criminosa (come si è detto, l’articolo 45 c.p., pure sinteticamente, la statuisce prevedendo l’aver “commesso il fatto per” forza maggiore), non può non evidenziarsi pure l’effetto sull’elemento soggettivo (da ultimo, in motivazione, Cass. sez. I, 5 aprile 2013 n. 18402 definisce la forza maggiore un evento “tale da rescindere il legame psicologico tra azione ed evento) quale causa di esclusione del dolo o della colpa”.

Nel successivo sviluppo argomentativo si avverte come la questione della “inesigibilità della condotta doverosa” – che pure era stata espressamente posta dal difensore a base del motivo di appello - progressivamente sfumi sino a scomparire, soppiantata in una prima fase dal binomio art. 43 e art. 45 cod. pen., per essere infine risolta nel momento decisorio vero e proprio (e in ragione delle specifiche argomentazioni difensive che corredavano il motivo di ricorso) esclusivamente sotto il primo dei due profili appena evidenziati. Conferma di quanto detto lo si trova nel § 3.2.3 della motivazione, laddove si osserva che “quanto l’appellante aveva addotto era in realtà riconducibile a un’asserita carenza di elemento soggettivo, non essendo stato, a ben guardare, dall’appellante stesso allegato alcun concreto elemento riconducibile in completa ed esatta maniera alla vis maior”.

Rimane così irrisolta una delle questioni più interessanti che si pone in tema di reati di omesso versamento di imposte di cui agli artt. 10 bis e 10 ter d.lgs. n. 74/00 e che con sempre maggiore frequenza trova riscontro nella recente giurisprudenza di merito, ossia la problematica - su cui si tenterà di tornare nella parte conclusiva – attinente alla rilevanza dell’inesigibilità (in senso proprio) del versamento delle ritenute certificate (o dell’iva) in caso di crisi di liquidità dell’impresa.

Tornando alla decisione in commento, la Corte affronta la tematica della sussistenza dell’elemento soggettivo richiamando ampi stralci della motivazione della sentenza n. 37425 del 28 marzo 2013, con cui le Sezioni Unite hanno risolto il contrasto in essere tra le Sezioni semplici sull’ applicabilità dell’art. 10 bis cit. (inserito dalla l. 244/04 a decorrere dal 1 gennaio 2005) alle omissioni relative al periodo di imposta 2004.

In estrema sintesi viene affermato che sebbene la prova del dolo (generico e non di evasione) sia ravvisabile nella duplice circostanza del rilascio della certificazione al sostituito e della presentazione della dichiarazione annuale del sostituto, tuttavia ben può accadere che a tali dati non si accompagni l’elemento soggettivo della coscienza e volontà di omissione dei versamenti, “non essendosi verificata alcuna scelta inidonea a “non far debitamente fronte” agli obblighi di legge, cioè – a prescindere dalla sussistenza o meno, quindi, di una scriminante e rimanendo sul piano strettamente soggettivo – non risultando dimostrata una consapevole volontà criminosa in chi ha omesso i versamenti”.

Gli obblighi di legge, come noto, sono quelli previsti dal d.P.R. n. 602/73 in tema di modalità di riscossione delle imposte e dal d.P.R. n. 600/73 in tema di ritenute alla fonte: il sostituto d’imposta (persona fisica o giuridica che in forza di disposizioni di legge è obbligato al pagamento di imposte in luogo di altri, dei quali è debitore, per fatti o situazioni a questi riferibili ed anche a titolo di acconto, art. 64 d.P.R. n. 600/73), per adempiere a tale obbligazione provvede a trattenere somme di denaro – di cui ha la materiale disponibilità, che deve al soggetto passivo e che costituiscono per costui reddito (sostituito) - in misura pari all’imposta da questi dovuta per poi successivamente versarle al fisco a tale titolo (meccanismo della ritenuta alla fonte, artt. 23 e ss. d.P.R. n. 600/73). Il sostituto certifica l’ammontare delle ritenute operate, delle detrazioni di imposta effettuate e dei contributi previdenziali ed assistenziali con obbligo di consegna della certificazione entro il termine previsto dall’art. 4 d.P.R. n. 322/98 e presenta annualmente una dichiarazione contenente l’indicazione dei compensi erogati sotto qualsiasi forma e le ritenute alla fonte operate; il sostituito, dal canto suo, è liberato dall’obbligazione tributaria, in misura diversa a seconda che la sostituzione avvenga a titolo di imposta o di acconto.

Al trattenimento delle somme, secondo la Corte, non deve necessariamente seguire l’accantonamento progressivo da parte del sostituto nell’ottica del futuro versamento al concessionario per la riscossione “poiché l’organizzazione previdente del datore di lavoro deve configurarsi su ‘scala annuale’, ovvero più ampia ma anche più elastica”. Quello che però viene reputato imprescindibile per poter escludere la colpevolezza è che la crisi di liquidità sia intervenuta al momento della scadenza del termine lungo e che essa non derivi “dalla scelta del datore di lavoro-sostituto d’imposta ‘di non far debitamente fronte’ al suo obbligo organizzativo”. La perimetrazione dell’indagine sul dolo è dunque operata in tali termini netti sia con riferimento alle coordinate temporali che modali.

Un simile argomentare pone però sul piatto ulteriori scivolosi nodi problematici, perché parlando di ‘organizzazione previdente’ e di capacità dell’imprenditore di ‘far debitamente fronte ai propri obblighi organizzativi’, la cui violazione non consentirebbe in alcun modo di sfuggire ad un giudizio di responsabilità, sembra evocare concetti più consoni ad un illecito a struttura colposa che ad una fattispecie dolosa quale quella in esame.

Come rilevato da una parte della dottrina la natura dolosa del delitto non consente l’affermazione di responsabilità in capo a chi non abbia provveduto al versamento al fisco per mancanza di risorse, indirizzate altrove (si pensi ad es. al pagamento delle retribuzioni dei dipendenti o dei fornitori), neppure in caso di mala gestio, pena, in caso contrario, il punire in forza di una fattispecie incriminatrice omissiva dolosa una serie di atti di natura colposa e a carattere commissivo posti in essere in un momento antecedente alla scadenza del termine per il versamento dell’imposta. Altri ancora hanno messo in evidenza che la imprudente e inappropriata gestione delle risorse ritenute parrebbe senz’altro sufficiente a fondare un rimprovero per colpa, ma comunque non tale da dimostrare l’esistenza del dolo di non adempiere in chi è costretto a tale soluzione dalla mancanza di mezzi, dolo che pacificamente va riscontrato nell’ultimo momento utile in cui è possibile validamente adempiere.

E’ stato ipotizzato di poter affermare la responsabilità a titolo di dolo eventuale laddove l’agente si sia rappresentato l’evento del mancato pagamento come un risultato possibile del proprio agire illecito dal quale non vi è volontà di recedere, ma tale soluzione postula ovviamente di ritenere compatibile il dolo eventuale con una fattispecie di mera condotta omissiva, con evento non in senso naturalistico ma giuridico.

Per quanto riguarda la sussumibilità della crisi di liquidità nell’alveo della forza maggiore - questione come detto affrontata solo nell’ottica di escluderne la rilevanza in ragione delle concrete difese spese dal ricorrente - nella sentenza in commento non si rinviene la chiusura che sarebbe lecito attendersi alla stregua della tradizionale giurisprudenza di legittimità. Nella motivazione si afferma testualmente, con sottolineatura nostra: “L’esimente della forza maggiore configura una ipotesi generale in cui la causa della condotta criminosa non è attribuibile a chi materialmente espleta la condotta stessa: anche nel reato di cui all’articolo 10 bis d.lgs. 74/2000, pertanto, non può escludersi in assoluto che la omissione possa derivare in toto da una causa di forza maggiore, la quale, tenuto conto della conformazione del reato, ragionevolmente può anche configurarsi, a seconda dei casi concreti, in una imprevista e imprevedibile indisponibilità del necessario denaro non correlata in alcun modo alla condotta gestionale dell’imprenditore”.

Precedentemente il giudice nomofilattico era stato ben più restrittivo, affermando che le “difficoltà economiche in cui versa il soggetto agente non sono in alcun modo riconducibili al concetto di forza maggiore che postulando la individuazione di un fatto imponderabile, imprevisto ed imprevedibile, esula del tutto dalla condotta dell'agente, sì da rendere ineluttabile il verificarsi dell'evento, non potendo ricollegarsi in alcun modo ad un'azione od omissione cosciente e volontaria dell'agente” (Cass. pen., Sez. III, 04/12/2007, n. 4529).

Passando in rassegna alcune pronunce più datate, si nota come la scarsità o il difetto di risorse non siano state ritenute idonee ad integrare la forza maggiore atta a far escludere la punibilità del datore di lavoro in tema di violazione di norme antinfortunistiche (Cass. pen., 07/05/1984, Cass. pen., Sez. III, 18/09/1997, n. 9041), o del titolare degli scarichi in tema di inosservanza degli obblighi imposti dalla legge in materia di inquinamento delle acque (Cass. pen., Sez. III, 22/10/1984), o dell’obbligato in tema di assistenza familiare (Cass. pen., Sez. VI, 16/05/1997, n. 10539).

Il principio è stato ribadito in un recente arresto in materia di infortuni sul lavoro, in cui la forza maggiore idonea a giustificare il mancato adempimento alle prescrizioni impartite dall'organo di vigilanza nell'ambito della procedura di estinzione prevista dal d.lgs. n. 758/94 non è stata riconosciuta nel sopravvenuto stato di liquidazione societaria, nemmeno se determinato da difficoltà finanziarie (Cass. pen., Sez. III, 05/04/2011, n. 24410).

In disparte il dato quantitativo delle decisioni di segno negativo, il richiamo alla forza maggiore presenta delle criticità che affondano, verosimilmente, già nello stesso problematico inquadramento dogmatico dell’istituto: a fronte della apparente linearità della lettera normativa (l’art. 45 cod. pen. dispone che non è punibile chi ha commesso il fatto per caso fortuito o per forza maggiore) si pongono le tesi di coloro che la riconducono nell’ambito della suitas, di chi la colloca nell’ambito della colpevolezza sub specie di causa di esclusione della medesima e, infine, di chi ne interpreta la portata in chiave schiettamente causale. La sentenza in commento, come riportato in apertura, ne valorizza questi ultimi due tratti contemporaneamente.

La dottrina ha avuto il merito di tentare di individuare il criterio distintivo delle due figure delineate dall’art. 45 cod. pen. evidenziando il carattere della imprevedibilità del caso fortuito e della irresistibilità della forza maggiore (la vis maior in presenza della quale l’agente non agit, sed agitur). Sul punto si veda anche Cass. pen., Sez. IV, 21/04/1980, secondo cui “mentre il caso fortuito consiste in un quid imponderabile ed imprevedibile che s'inserisce d'improvviso nell'azione del soggetto soverchiando ogni possibilità di resistenza e di contrasto, la forza maggiore si concreta in un evento derivante dalla natura o dall'uomo che, pur se preveduto, non può essere impedito (vis maior cui resisti non potest)”.

Con riferimento ai reati tributari di omesso versamento delle imposte, la forza maggiore – cui sembra aprire la porta la sentenza qui in commento – ha trovato spazio in una parte della giurisprudenza di merito (si segnalano Trib. di Milano, 22/5/2013, Trib. Roma, 7/5/2013, Uff. indagini preliminari Milano, 19/09/2012, Uff. indagini preliminari Firenze, 27/07/2012, Uff. indagini preliminari Milano, 17/04/2012, Trib. Milano, 28/04/2012), in cui peraltro essa è spesso stata avvicinata alla categoria della inesigibilità.

Su tale causa ultralegale di esclusione della colpevolezza, peraltro, è possibile rinvenire nella giurisprudenza della Suprema Corte un atteggiamento di chiara chiusura.

Dal punto di vista teorico essa trae ispirazione dalla presenza di ipotesi di esclusione della colpevolezza normativamente codificate (si fa riferimento, in particolare, agli artt. 45, 46, 54, 384 cod. pen.) che avrebbero in comune la inesigibilità da parte dell’agente di un comportamento conforme al precetto penale.

Secondo la dottrina il fondamento della loro previsione sta nella permanenza, in seno alla colpevolezza, dell’esigibilità del comportamento doveroso, dovendo la volontà formarsi in circostanze di fatto normali e tali da consentire un fisiologico processo motivazionale e decisionale, cosicché, in loro presenza, il comportamento conforme può e deve essere preteso in quanto oggettivamente esigibile.

La giurisprudenza di legittimità, come detto, è tradizionalmente restrittiva.

E’ stato affermato che il principio di non esigibilità di una condotta diversa, sia che lo si ricolleghi alla ratio della colpevolezza così riferendolo alle ipotesi in cui l'agente operi in condizioni soggettive tali da non potersi da lui umanamente pretendere un comportamento diverso, sia che lo si voglia ricollegare alla ratio della antigiuridicità, riferendolo a situazioni in cui non sembri ravvisabile un dovere giuridico dell'agente di uniformare la propria condotta al precetto penale, non può trovare collocazione e spazio al di fuori delle cause di giustificazione e di esclusione della colpevolezza codificate espressamente, in quanto condizioni e limiti di applicazione delle norme penali sono poste dalle norme stesse e al giudice non è consentito di individuare cause di esclusione della punibilità, attraverso l’analogia juris, diverse da quelle tassativamente previste dalla legge (Cass. pen., Sez. III, 18/09/1997, n. 9041; conf. Cass., Sez. VI, 2/4/1993; Cass. pen., Sez. VI, 24/01/1995, n. 11240). Siffatta conclusione è stata ulteriormente ribadita facendo richiamo all’eccezionalità dell’istituto di cui all’art. 384 cod. pen., norma che era stata proposta dai sostenitori della teoria dell’inesigibilità quale aggancio di diritto positivo della scusante (Cass. pen., Sez. V, 21/01/1998, n. 1245).

Per vero anche accorta dottrina non ha mancato di segnalare che per tale principio non pare esservi nel nostro ordinamento sufficiente spazio, evidenziando che per poter avvincere ipotesi concrete dissimili (perché comunque ritenute meritevoli) diventa di fatto necessario fare riferimento ad espressioni sfuggenti quali “umanamente”, “ragionevolmente”e similari, a causa della impossibilità di definire un parametro adeguato alla cui stregua qualificare un determinato comportamento come esigibile o inesigibile.

Ritornando alla questione della mancanza di liquidità di risorse finanziarie merita osservare che in tema di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali (in cui l’affinità con l’omesso versamento delle imposte è evidente) la Corte di Cassazione ha ritenuto configurabile il reato anche nel caso in cui si accerti l'esistenza del successivo stato di insolvenza dell'imprenditore, in quanto è onere di quest'ultimo, quale sostituto d’imposta, ripartire le risorse esistenti al momento di corrispondere le retribuzioni ai lavoratori dipendenti in modo da poter adempiere all'obbligo del versamento delle ritenute, anche se ciò possa riflettersi sull'integrale pagamento delle retribuzioni medesime (Cass. pen., Sez. III, 25/09/2007, n. 38269, Cass. pen., Sez. III, 05/07/2001, n. 33945).

Sullo stesso tema la Corte Costituzionale ha ritenuto non sussistere la denunciata irragionevolezza di un obbligo di versamento penalmente sanzionato perdurante anche nello stato di dissesto dell’impresa, sottolineando come l'obbligo in parola concerna somme trattenute sulle retribuzioni dei dipendenti che il datore di lavoro versa all'Inps, sostituendosi ad essi e si sostanzia, quindi, nel dovere di non trattenere per sé somme di pertinenza dei prestatori e dell'istituto previdenziale (Corte Cost., Ord. 22/07/1996, n. 274).

In tema di omesso versamento delle imposte, di nuovo la Suprema Corte, in costanza della vigenza del d.l. n. 429/82, conv. con modif. dalla l. n. 516/82 (legge passata agli onori della cronaca come “manette agli evasori”), il cui art. 2, co. 3 è sostanzialmente riprodotto dall’art. 10 bis d.lgs. n. 74/00 (si puniva con la pena della reclusione da tre mesi a tre anni e con la multa chi non versava entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituti, per un ammontare complessivo superiore a lire venticinque milioni per ciascun periodo d'imposta), ha affrontato la questione della carenza delle risorse in capo al sostituto d'imposta (nel caso specifico vi era stato il fallimento) e della sua idoneità a rendere insussistente l’elemento soggettivo del reato, risolvendola in senso negativo all’imputato (Cass. pen. Sez. III, 24/3/1999 n. 1178).

In conclusione, si ritiene che a fronte di un diritto vivente così delineato gli spazi di apertura a decisioni di esclusione di responsabilità per illiquidità dell’impresa – che pure paiono essere riconosciuti in astratto dalla sentenza in commento - debbano essere contenute entro margini estremamente ridotti.

Nelle prime pronunce di merito che hanno tracciato la via al riconoscimento giudiziale della “crisi economica” quale causa di non punibilità si era al cospetto di fattispecie concrete del tutto peculiari.

Si pensi al caso del liquidatore o del nuovo amministratore che erano intervenuti nell’amministrazione della società a ridosso della scadenza del termine per il versamento delle imposte, in difetto di accantonamento da parte dei precedenti amministratori all’epoca in cui corrisposero i compensi ai sostituiti.

Meno evidenti in termini di assenza di responsabilità sono le fattispecie nelle quali l’elemento “salvifico” è stato individuato nell’improvviso mancato pagamento da parte di un debitore dell’impresa (generalmente la Pubblica Amministrazione) o nel ritardo nell’erogazione di fondi pubblici.

In questi casi, infatti, resta sullo sfondo l’elementare considerazione che se vi è assenza di liquidità significa che l’imprenditore non ha accantonato iva o ritenute, ma ha utilizzato le relative somme (sulle quali non poteva vantare alcun diritto) in una sorta di consapevole e voluto autofinanziamento di tipo non bancario.

Diversamente dovrebbe ovviamente ritenersi nel caso di omesso versamento dell’iva (art. 10 ter d.lgs. n. 74/00), ove a fronte dell’emissione delle fatture vi sia stato l’inadempimento del debitore, poiché in tal caso il contribuente sarebbe chiamato a versare iva su somme in realtà non ancora (o mai) riscosse.

Nell’ipotesi in cui la mancanza di risorse dipenda invece dalla scelta operata dall’imprenditore sul debito da adempiere (verso l’Erario o verso fornitori o dipendenti) con esaurimento delle liquidità disponibili, non si ritiene possa giungersi ad una decisione diversa da quella di responsabilità, né richiamando l’inesigibilità per i motivi ampiamente sopra esposti, né la forza maggiore.

In tale ipotesi – quale quella in definitiva posta all’attenzione della Corte nella vicenda processuale di cui qui si discute – diventa realmente arduo, a parere di chi scrive, ritenere ricorrenti i caratteri della vis cui resisti non potest, della vis che, operando come violenza sulla persona, pone l’agente in una condizione di costrizione assoluta tale da far ritenere del tutto assente un comportamento umano a lui attribuibile: ci troviamo di fronte, infatti, a consapevoli scelte imprenditoriali, precluse a contribuenti appartenenti ad altre categorie e che non possono beneficiare di simili possibilità.

Questa conclusione si ritiene valida anche laddove l’imputato non si sia limitato ad assolvere agli oneri di allegazione ripetutamente affermati dalla Corte, ma sia riuscito persino a provare di aver fatto tutto il possibile per riscuotere dai terzi i propri crediti o di aver tentato inutilmente l’accesso al credito bancario. Ove invece neppure vi sia la prova di tale comportamento diligente nessuna via di fuga dalla responsabilità parrebbe seriamente percorribile e non tanto per la corrispondente presenza di elementi di scarsa diligenza che potrebbero affrettatamente indurre ad evocare inappropriati profili colposi (ininfluenti in un delitto con essenza dolosa), quanto piuttosto perché in tal caso difetterebbe la stessa “irresistibilità” che contraddistingue la forza maggiore, potendo il comportamento virtuoso in realtà consentire di resistere.

E’ la scelta dell’imprenditore, dunque, a fare la differenza.

Diventa però non agevole l’individuazione di spazi nei quali tale scelta, cosciente e ponderata, possa convivere con il giudizio di meritevolezza dell’omissione.

Questo sicuramente è quanto dice Cass. pen., Sez. Unite, 28/03/2013, n. 37425 (vds. § n. 6 della motivazione).

Forse lo stesso dice Cass. n. 5905 del 7.2.14, visto che la Corte ha inteso chiaramente richiamare nel tessuto argomentativo vari passaggi motivazionali della prima. Certo, se le valutazioni sin qui esposte si rivelassero esatte e condivisibili e se, consequenzialmente, la scelta dell’imprenditore lucchese di pagare le retribuzioni ai propri dipendenti in luogo di saldare il proprio debito con l’Erario dovesse essere nuovamente ritenuta dal giudice di merito immeritevole di salvezza come nei due precedenti gradi di giudizio, la cassazione con rinvio disposta dalla Corte assumerebbe un che di beffardo.

***Sullo stesso tema in questa rivista: Crisi economica e reati finanziari commessi dall'imprenditore di ZACCARO

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

FIANDACA MUSCO, Diritto penale

MANTOVANI, Diritto penale

BETTIOL, Diritto penale

GAROFOLI, Manuale di diritto penale

MARTINI, Reati in materia di finanze e tributi in Trattato di diritto penale. Parte speciale. Volume XVII, Giuffré, Milano, 2010

ROMOLI, Omesso versamento di I.V.A. e crisi di liquidità in Archivio Penale

D’AVIRRO – GIGLIOLI, I reati tributari

 

GIURISPRUDENZA

Corte Cost., Ord. 22/07/1996, n. 274

Cass. pen., Sez. Unite, 28/03/2013, n. 37425

Cass. pen., Sez. III, 05/04/2011, n. 24410

Cass. pen., Sez. III, 04/12/2007, n. 4529

Cass. pen., Sez. III, 25/09/2007, n. 38269

Cass. pen., Sez. III, 05/07/2001, n. 33945

Cass. pen. Sez. III, 24/3/1999, n. 1178

Cass. pen., Sez. V, 21/01/1998, n. 1245

Cass. pen., Sez. VI, 16/05/1997, n. 10539

Cass. pen., Sez. III, 18/09/1997, n. 9041;

Cass. pen., Sez. VI, 24/01/1995, n. 11240

Cass. pen., Sez. VI, 2/4/1993;

Cass. pen., Sez. III, 22/10/1984

Cass. pen., 07/05/1984,

Cass. pen., Sez. IV, 21/04/1980

Trib. di Milano, 22/5/2013,

Trib. Roma, 7/5/2013,

Uff. indagini preliminari Milano, 19/09/2012,

Uff. indagini preliminari Firenze, 27/07/2012,

Uff. indagini preliminari Milano, 17/04/2012,

Trib. Milano, 28/04/2012

05/03/2014
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