“Però così succede che gli schiavi si conoscono, si riconoscono
Magari poi riconoscendosi
Succede che gli schiavi si organizzano
E se si contano allora vincono “
( Kunta Kinte, Daniele Silvestri )
Marco Omizzolo è uno degli studiosi più attenti del fenomeno del caporalato in Italia, curatore del sito tempi-moderni.net. La sua metodologia di osservazione partecipata [1] ed il suo approccio dialogante ma qualificativo in un contesto non certo favorevole come l’agro pontino e la comunità Sikh sono conosciuti ed apprezzati in ambito scientifico e politico.
Il suo ultimo libro: “Sotto padrone, uomini, donne e caporali nell’agromafia italiana” (Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Milano, 2019 ) è insieme una storia della sua esperienza umana e professionale e uno strumento di analisi del fenomeno del caporalato in Italia.
È anche la storia della sua vita da quel 16 agosto 2008 quando incontra il primo Sikh per strada a Sabaudia, un ragazzo caduto dalla vecchia bicicletta Graziella quasi svenuto per il caldo, quando la sua vita cambia e dall’epistemologia passa alla sociologia “ da combattimento”.
Si parla di Sikhismo, una religione monoteista che in India rifiuta la divisione della società in caste crede nell’eguaglianza tra gli uomini e nella parità uomo-donna, del tempio di Borgo Hermada a Terracina [2].
Nel libro si citano canzoni (Guccini, De Gregori, De Andrè e Daniele Silvestri citato in apertura), poesie [3], proverbi [4].
È un libro politico, si parla di “struttura del mercato del lavoro che è stata fatta marcire e poi fecondata col virus della precarietà che ha reso più ricattabili i poveri, i migranti in fuga dalle guerre e dai cambiamenti climatici, dalla povertà e dall’azione predatoria delle multinazionali e speculatori finanziari, gli italiani che non arrivano a fine mese pur lavorando e quelli che si trovano di fronte solo disoccupazione e sfruttamento. Condizioni che riguardano i più fragili tra i più fragili, gli ultimi tra gli ultimi, quelli che vengono considerati, ipocritamente, invisibili”, basta voltarsi dall’altra parte e far finta di niente. L’analisi del fenomeno è senza compromessi: “le agromafie sono interne al sistema perché contribuiscono al prodotto interno lordo, al benessere del paese, a calmierare i costi di beni fondamentali al nostro sostentamento, a fornire risorse ai poveri che non possono acquistare i prodotti d’eccellenza a causa dei costi elevati”. Meglio non farsi domande quando vediamo sugli scaffali di supermercati anche della grande distribuzione prodotti a prezzi così bassi da risultare fuori mercato, perché altrimenti capiremmo senza fatica che sono il risultato di sfruttamento selvaggio dei lavoratori della terra.
È un libro di analisi del fenomeno, studiato insieme con l’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai-Cgil, e di riflessione su alcuni fenomeni connessi col caporalato, gravi e poco conosciuti. Si parla delle droghe che i braccianti-schiavi sono costretti ad assumere per poter resistere ai dolori provocati dalle fatiche quotidiane disumane [5] masticando bulbi di papavero essiccati, parte residuale o di scarto della lavorazione del papavero per l’estrazione della cocaina, per avere un effetto analgesico comprando i semi da spacciatori grazie al permesso, tacito ma consapevole, del titolare dell’azienda, e poi ogni altro tipo di droga e psicofarmaci utili per non sentire la fatica e il dolore “una delle prime conseguenze di questo sistema è stata quella di creare, parallelamente alla sua diffusione, un circuito economico rilevante, che ha attratto molti giovani indiani, trasformandoli nel giro di pochi anni, da braccia utili al padrone a braccia utili ai boss delle nuove tossicodipendenze”. Questa condizione genera disperazione e sconforto insopportabile, nel triennio 2016-2019 dodici braccianti indiani si sono suicidati, impiccati nelle serre del padrone durante l’orario di lavoro. Si parla di fitofarmaci cancerogeni made in China, utili per le coltivazioni ma con effetti devastanti per tutti. Sono sostanze diffuse dall’atomizzatore del padrone che i braccianti respirano perché “ci fanno la doccia: il padrone passa con l’atomizzatore anche mentre stiamo raccogliendo. Ci bagna dalla testa ai piedi, e molti di noi si sentono male” riferisce una testimonianza raccolta nel libro. Si tratta di sostanze tossiche, cancerogene e nocive, tutte proibite in Italia importate illecitamente dalla Cina e fatti arrivare nei porti di Napoli e Gioia Tauro “li portano di notte, di contrabbando, dal napoletano e dal casertano, il padrone li acquista in nero, fa il trattamento e poi brucia di nascosto i bidoni in campagna”. Questi prodotti producono cancro, infettano l’aria respirata dalla popolazione, l’acqua come anche le falde acquifere e la terra di tutti. Poi infettano il corpo dei braccianti, a volte anche quello dei padroni e dei consumatori che acquistano prodotti pensando siano genuini. Si parla di antimafia sociale, quella che Omizzolo preferisce e che “cammina e cresce ventre a terra, cita esplicitamente i padroni e i padrini, entra nei processi sociali e in quelli giudiziari per cercare di cambiarne la direzione o di raccontarne il dibattito, cerca di costruire giustizia e libertà come un muratore costruisce un ponte, mattone dopo mattone o come un bracciante annaffia e cura le sue piante”.
Combattere per Omizzolo vuol dire convincere chi lavora a parlare non di padroni e schiavi ma di datori di lavoro e lavoratori perché, come diceva Nanni Moretti le parole sono importanti [6], vuol dire non dover più fare tre passi indietro ed abbassare la testa rivolgendosi a chi ti sfrutta [7].
Ma è anche il racconto di un sogno divenuto realtà, il primo sciopero dei lavoratori Sikh il 18 aprile 2016 a Latina [8]. Si parla della l.199\2016 e delle conquiste dovute al nuovo testo normativo per la lotta al caporalato.
È un libro politico ma anche un racconto umano, pieno di storie di persone, quasi una specie di Spoon River del caporalato, con i protagonisti per fortuna vivi. Si parla di Manjeet, un indiano recluso in una gabbia di cemento, quattro metri per quattro, spersa nelle campagna con la porta in ferro chiusa da un lucchetto dal padrone per non farlo scappare. Omizzolo racconta la rottura del lucchetto con mezzi di fortuna e lo descrive come una svolta: "Non stavo solo liberando un uomo. Stavo anche sugellando un matrimonio d’amore tra me e l’impegno per la giustizia e la libertà". E se vi sembrano ridondanti queste parole, fatelo voi quello che ha fatto lui. C’è la storia di Harbhajan Singh, responsabile del tempio di Sabaudia, diventato famoso per la trasmissione Propaganda Live di Diego Bianchi in un servizio molto importante sulla comunità Sikh dell’agro pontino perché ridendo chiamava la moglie “governo”, cioè colei che comanda davvero. Si parla di Malhi Singh, un indiano di cinquantacinque anni che doveva avere migliaia di euro dal padrone e che ha avuto il coraggio di denunciarlo ma che dopo cinque anni non ha ancora visto la prima udienza al Tribunale di Latina: “avere ancora fiducia nella giustizia italiana dopo oltre cinque anni di rinvii non è affatto facile”. Si parla di Ajit Singh, giovane e sorridente, fuori della sua casa appesi alcuni jeans usati per lavorare, con le ginocchia segnate di macchie marroni, e verdi, tracce indelebili dell’erba dei campi, marchio di fabbrica : made in schiavo. Racconta Ajit di non poter tornare in India perché non ha finito di pagare il debito, 12 mila euro con il trafficante, e di rompersi la schiena per 4 euro l’ora per otto, dieci ore al giorno. È storia di donne: “se gli uomini, i lavoratori braccianti spesso stranieri, vengono sfruttati ed umiliati per retribuzioni da fame, ciò vale anche per le lavoratrici, con due differenze. La retribuzione di una bracciante è spesso inferiore di un terzo rispetto a quella di un suo collega di lavoro uomo. E poi c’è la questione dei ricatti e delle violenze sessuali”. Si parla di Mariana, una lavoratrice rumena, Il padrone italiano le aveva fatto capire più volte che se non voleva problemi doveva accettare le sue avances. Le chiedeva sempre la stessa cosa ma in forme diverse. Marianna rifiutò e per questo venne punita, spostata alle serre alla raccolta di ortaggi, costretta a dare alcuni prodotti chimici come quelli descritti in precedenza. A forza di spargere diserbanti, concimi chimici e fitofarmaci Mariana si ammalò di cancro. In seguito riuscì a cambiare lavoro. Non denunciò il suo aguzzino, ma raccontò a Omizzolo la sua storia, aveva solo bisogno di essere ascoltata, di essere riconosciuta come persona, donna e lavoratrice.
In conclusione racconta Marco Omizzolo che la sua è una scelta politica, ha scelto gli sfruttati, perché sanno, a volte, fare quelle rivoluzioni uniche ed eroiche che insegnano agli altri che il cambiamento possibile parte dalla capacità di metterci in gioco. E ricorda un sacerdote che diceva “Tra il dire e il fare c’è di mezzo il cominciare” [9].
[1] l’osservazione partecipata si realizza con interviste in profondità all’interno di un dialogo continuo con i membri di una comunità, nel caso di Omizzolo la comunità Sikh dell’Agro Pontino che gravita attorno al tempio di Borgo Hermada, realizzata anche attraverso una esperienza di tre mesi vissuto da infiltrato lavorando come uno degli sfruttati nel luglio del 2010 e replicata nell’estate del 2019, e con un viaggio in India per comprendere i meccanismi della tratta internazionale.
[2] nel Tempio Magistratura Democratica ha organizzato l’apertura del proprio congresso nazionale il 28 febbraio 2018 ospite della comunità Sikh di Gurmukh Singh insieme con Libera, la Flai Cgil, grazie proprio a Marco Omizzolo, e si è trattato di una esperienza estremamente significativa dal punto di vista umano e politico.
[3] “Arrabiati, ti amo arrabbiato e ribelle, rivoluzione cocente, esplosione. Ho odiato il fuoco che dorme in te, sii di brace, diventa una vena appassionata, che grida e s’infuria” tratto da Non ho peccato abbastanza, Mondadori Milano, 2007 di Nazik al-Mala’ika, poetessa irachena.
[4] “non arrenderti. Rischieresti di farlo un’ora prima del miracolo” proverbio iracheno.
[5] e la morte della bracciante Paola Clemente il 13 luglio 2015 stroncata da un infarto per la fatica mentre lavorava nei campi di San Giorgio Jonico ne è una tragica conferma.
[6] Palombella Rossa, 1989.
[7] spesso i braccianti indiani pontini erano costretti a lavorare dalle dieci alle quattordici ore al giorno, sabato e domenica compresi, per circa tre euro l’ora con un contratto nazionale che parla di sei ore e trenta per sei giorni alla settimana per circa nove euro lorde l’ora, per una rappresentazione di quella realtà si può vedere anche il bel film “ The Harvest”, film del 2017 regia di Andrea Paco Mariani che racconta l’umiliazione del lavoratori Sikh e che vede lo stesso Omizzolo tra gli interpreti.
[8] “prima cento, poi duecento poi quattrocento persone, alla fine oltre quattromila indiani erano lì per chiedere pacificamente e con orgoglio migliori condizioni di lavoro”.
[9] Don Francesco Fiorillo, della Fraternità del Monastero di San Magno a Fondi.