Dopo aver letto l'ultima pagina del più recente romanzo di Safran Foer ("Eccomi", Guanda, 2016), me lo sono rigirato ancora un po’ tra le mani, giallo e voluminoso. Ne ho riguardato la copertina, arricchita da un disegno a prima vista scanzonato e umoristico, in cui una lampada da cucina illumina il titolo ed il nome dell’autore. Poi ho riflettuto, sull’onda della lettura appena conclusa, che quella lampada mi appariva più simile a quelle di certe sale operatorie e che la luce, bianca, che sembrava spandere intorno, era piuttosto da osservazione scientifica, autentica e notoriamente spietata.
Sotto la lente dell’autore c’è, nel libro, la famiglia e la casa dei Bloch: ebrei, intellettuali, americani, padre sceneggiatore in terapia dall'analista, madre architetto di progetti più che di opere realizzate, nonni e un bisnonno dalle personalità a dir poco ingombranti, figli piccoli e dalle risposte invariabilmente geniali, il cane Argo, testimone vecchio e malandato del loro modo cervellotico di essere una famiglia di oggi.
L' "eccomi" del titolo evoca la risposta che Abramo dà più volte al suo Dio, anche quando quest'ultimo lo sta chiamando a sacrificargli il figlio. È il segno di una presenza integrale nel "qui e ora", che si confronta con la nostra malattia più diffusa: essere sempre con qualcuno, anche chi amiamo, senza esserci del tutto, presi da un perenne altrove di contatti social e di pensieri che ci portano lontano.
Come si tiene in vita una relazione di coppia? Ce la facciamo a dirci tutto? È necessario dirci tutto?
"È facile essere vicini ma è quasi impossibile rimanere vicini".
Si creano faglie nella prossimità e abissi di parole non dette e sentimenti non comunicati. Dipende dalla polvere che finisce per ricoprire la parte di noi che ci fa vergognare e, più ancora, dalla paura di non essere all'altezza delle aspettative nostre e di chi ci ama.
L'autore incide fino in fondo nelle carni e, tutto fa, tranne darci uno straccio soltanto di alibi. Niente aforismi rassicuranti. Niente assoluzioni. Anche se sono quelle che i protagonisti cercano, rincorrendo sensi di colpa ebraici che ci richiamano con facilità i nostri sensi di colpa cattolici.
Sappiamo assumerci la responsabilità del male che facciamo? Possiamo portare il peso del riconoscerci inadeguati e incostanti anche rispetto alle relazioni cui teniamo maggiormente?
"Non ci sono rimedi per le ferite che feriscono di più. C'è solo la medicina di credere nel dolore dell'altro e di esserci."
I personaggi di Safran Foer, i suoi estenuanti dialoghi, mantengono sempre un tono epico, quando affrontano la storia grande, inventata ma possibile, e quando incrociano le nostre miserie: il filo interdentale, il sesso virtuale, i pacchetti di schifezze buone da mangiare davanti alla TV. C’è la distanza dalle politiche di Israele e il riconoscersi insieme diversi da chi ci vive, ma fratelli nella storia e nel destino. C’è la consapevolezza che l'amore non è dato per scontato, ma è sempre frutto della lotta per mantenere in vita ciò in cui crediamo, come Giacobbe seppe lottare con l'angelo di Dio, perché questi, alla fine,lo benedicesse.
È un lungo viaggio, quello di Jacob Bloch e della sua famiglia, attraverso la nostra imperfezione. Un viaggio nelle parole, come solo la cultura ebraica sa scrivere. Un viaggio, come quello di Leopold Bloom, che ci riporta al vecchio cane Argo e alla fedeltà a se stessi. La conquista sembra essere che "siamo quelli che siamo" ma quel che fa la differenza "è riuscire ad ammetterlo".
Niente dura identico a se stesso, non i riti che in famiglia abbiamo sostituito a quelli religiosi, non il sesso vissuto come liturgia per dimostrare che tutto va bene, non la salute e non l'umore. Le cose non vanno sempre bene. Va bene, però, dirselo e lottare per l'amore che resta, anche quando tutto cambia e forse proprio perché tutto cambia.
Non ci spostiamo molto nel tempo e nello spazio, leggendo Safran Foer, ma ci immergiamo a fondo nel nostro più intimo essere umani. Così, da amare così. Nudi. Consapevoli, non più tanto colpevoli.