1. La Corte suprema italiana vive da anni sotto l’assedio dell’eccesso di domanda.
Limitando l’osservazione al settore penale, è ormai dal 2010 che il numero dei ricorsi iscritti per anno supera le cinquantamila unità.
I tempi medi di risposta sono attualmente contenuti in circa nove mesi, il che lascia intendere il sottostante sacrificio personale degli addetti.
La lettura del dato andrebbe peraltro disaggregata, nel senso che il giudizio di legittimità non riguarda esclusivamente le decisioni sul fatto e sulla responsabilità (quelle emesse in sede di cognizione piena) ma si estende a provvedimenti cautelari (personali e reali), ai provvedimenti emessi in sede esecutiva incidenti su diritti del condannato (dagli incidenti di esecuzione in senso stretto alle decisioni della magistratura di sorveglianza), alle decisioni in tema di misure di prevenzione personale e patrimoniale, a quelle che precludono l’accesso alla rivedibilità della condanna (revisione), ai conflitti di competenza.
Su ognuno di tali settori, peraltro, incide ormai in misura sempre maggiore l’apertura del sistema giuridico all’esterno del perimetro nazionale, con frizioni o ricadute visibili di decisioni emesse dalle corti sovranazionali, sì da porre in crisi la illusoria visione piramidale del diritto di cui l’istituzione de qua è plastica espressione.
L’enorme afflusso di dati e di richieste è di per sé fonte di disagio operativo, correlato alle ambiguità di fondo che circondano il giudizio di legittimità, da sempre in bilico tra la natura formale della nomofilachia intesa come ripudio delle questioni di fatto e la natura giurisdizionale di momento di verifica, nei limiti posti dai motivi, della giustizia della decisione.
È un tema di cruciale importanza per gli assetti democratici del Paese, atteso che il diritto penale resta strumento di controllo dei comportamenti e di ricostruzione di condotte punibili solo nella misura in cui il fatto commesso sia conforme al tipo e realmente accertato al di là di ogni ragionevole dubbio.
Per tale ragione occorre ulteriormente riflettere sulle tentazioni riduzioniste dell’accesso alla Corte, sostenute da esigenze obiettive di un recupero di funzionalità che non sia portatore di inaccettabili semplificazioni, ed al contempo sul ruolo da assegnare, in prospettiva, alla Corte di legittimità.
Si tratta di un dibattito antico e difficile, su cui inevitabilmente incide l’opzione politica di fondo di cui persone e gruppi sono portatori.
2. Nell’attuale quadro normativo e organizzativo, le prime risposte alle esigenze di contenimento della domanda (ed alla gestione dell’abnorme carico), dandosi per scontata la impossibilità di accrescimento numerico degli attuali organici, sono passate attraverso l’adozione di modelli sempre più semplificati di trattazione [1] e di articolazione delle decisioni semplici [2], nonché attraverso l’abolizione della facoltà di proporre ricorso personale [3].
Si tratta di strumenti certamente utili sul piano operativo tesi al contemperamento degli interessi in gioco (si sacrifica il contraddittorio in una fase in cui è legittima la sua riduzione di incidenza, specie ove assistita da una prognosi ragionata di infondatezza macroevidente del ricorso) pur con qualche possibile cedimento sul piano dei valori di fondo (la valorizzazione del precedente, in caso di motivazione semplificata, è figlia di una logica di “parificazione dei casi” il cui governo è ampiamente discrezionale, così come il sacrificio del ricorso personale rischia di determinare sgradevoli differenziazioni censuarie).
Ciò che tuttavia resta un cantiere aperto è quello della modifica delle “chiavi di accesso” al giudizio di legittimità, in particolare, per quanto riguarda la tipizzazione dei motivi di ricorso (art. 606 cpp), più di una voce [4] si è levata circa la necessità di eliminazione del vizio di motivazione da tale quadro, specie in ipotesi di giudizio di secondo grado confermativo, sul punto, della prima decisione [5].
3. Tale direzione non va di certo ritenuta eversiva. Tutte le disposizioni legislative riflettono equilibri politico–istituzionali correlati alle consapevolezze del momento in cui vengono in essere e non vi è punto dell’ordinamento giuridico non modificabile, ferma restando la ovvia necessità di correlazione con il sistema complessivo delle fonti.
Tuttavia, è il caso di esprimere una voce contraria a tale proposta, che ci sembra riflettere una visione “economico–aziendalista” più che “sistematico–valoriale” del giudizio di legittimità.
3.1 Un primo punto è quello della – sottesa alla proposta – idea della riduzione del valore della nomofilachia alle questioni che riguardano il diritto penale sostanziale (o le norme integratrici del precetto) e non anche quello processuale e, in particolare, probatorio.
Schematizzando al massimo il ragionamento, vi è da chiedersi quale sia il connotato attuale della nomofilachia.
Sul piano formale, dal testo dell’art. 65 della legge di ordinamento giudiziario, al di là dell’ormai datato riferimento al diritto oggettivo nazionale, comprensibile solo in chiave storica, non si trae alcuno spunto per siffatta limitazione, posto che il riferimento alla “legge” non è, ovviamente, ulteriormente connotato (...l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge). Lì dove la legge si direziona verso le forme e le modalità dell’accertamento (e non solo verso le forme sequenziali del rito) e, soprattutto, introduce – come nel codice del 1988 e nelle successive norme novellatrici – precisi canoni di valutazione e regole di giudizio, anche la distanza tra quanto realizzato e quanto previsto in siffatto settore è violazione di legge.
Stesso discorso vale per il contenuto della previsione costituzionale di cui all’articolo 111 comma 7, ove si compie riferimento al ricorso per Cassazione per violazione di legge.
Non pare possibile attribuire alcun contenuto limitatrice a tale previsione, nella misura in cui anche il procedimento di formazione e valutazione della prova è regolamentato dalla legge, salvo intendersi sulle modalità e sull’oggetto del controllo.
Sul piano della valenza semantica, la nomofilachia è “protezione della regola”, dunque è opzione tutta politica quella che porta alla selezione preliminare delle regole da proteggere.
3.2 Ed allora viene da chiedersi quale sia il fondamento di proposizioni che si richiamano al valore della nomofilachia al fine di escludere il controllo “funzionale” sulla motivazione dei provvedimenti in sede di legittimità. Ci sembra di poter dire che riflettono una visione del fenomeno che pone al centro dell’interesse la verifica delle opzioni interpretative di diritto sostanziale, marginalizzando il processo, considerato esclusivamente, a fini di controllo, come sequenza di atti (con possibile rilievo della nullità o di altre sanzioni processuali correlate a violazioni del contraddittorio partecipativo) e non come luogo di problematicità ricostruttiva del fatto introdotto dall’accusa.
Lì dove, in particolare, il sistema processuale ha già offerto uno strumento di rivisitazione della decisione (il giudizio di secondo grado) tornare sull’esito dell’accertamento pare essere – in tale chiave – uno spreco delle già limitate risorse umane e organizzative (su ciò si fondano, in particolare, le proposte tese ad eliminare il controllo di legittimità in ipotesi di doppia conforme).
L’opzione è tutta “politica” e gli argomenti per lo più utilizzati in tale direzione non sono, secondo chi scrive, del tutto convincenti.
3.3 L’errore sulla interpretazione della norma giuridica, si dice, è sempre possibile, ma va limitato alla norma regolatrice di diritto sostanziale o a quella che influisce sulla meccanica del procedimento (presidiata da sanzione). Quanto alla motivazione ci si accontenta della sua esistenza, specie in presenza di una “doppia conforme”.
Ma, come si è detto, anche il percorso di attribuzione del valore ad un dato probatorio è fenomeno giuridico oltre che logico, specie in un contesto che eleva a regola normativa canoni esperenziali (si pensi al comma 2 e 3 dell’art. 192) e che valorizza l’aspetto funzionale della motivazione come costrutto espressivo capace di segnalare in modo persuasivo l’assenza di dubbi sulle soluzioni cui si è approdati (art. 533).
Ed allora, ci si chiede, perché il doppio errore sulla interpretazione della regola sostanziale sarebbe sindacabile e quello sulla interpretazione della regola dimostrativa non potrebbe esserlo? quale il fondamento giuridico di simile distinzione?
Affrontare temi ricostruttivi in sede di legittimità è operazione complessa, non vi è dubbio.
C’è il rischio obiettivo di trasformare un momento di controllo funzionale in un momento di ridiscussione del valore attribuito in sede di merito al singolo elemento, sconfinando in un territorio precluso dalla stessa ragion d’essere del giudizio di legittimità.
Ciò chiama in causa il livello di professionalità di chi è chiamato ad operare siffatta tipologia di giudizio, e la responsabilità dell’intera struttura organizzativa, anche in punto di formazione e di selezione della componente umana chiamata ad esercitare il compito.
Ma, quantomeno sul piano della effettiva tutela dei diritti dell’accusato (in quella chiave garantistica che ci sembra molto costoso abbandonare), non sembra esserci ragione per una amputazione così drastica della attuale fisionomia del giudizio di legittimità, ove si rispettino i canoni ben espressi in autorevoli interventi sul tema, secondo cui quello che si esercita in sede di legittimità è un giudizio sul giudizio nell’ambito del quale non si attribuisce in via primaria il “peso dimostrativo” al singolo elemento di prova (attività che è di competenza esclusiva del giudice di merito) ma si verifica la complessiva congruità logica e finalistica dell’apparato motivazionale, nel senso che si può cogliere – sulla base dei motivi addotti – l’eventuale inconsistenza della induzione probatoria – quale risulta dalla carenza o incongruenza della motivazione – e pertanto sindacare il rispetto o meno dei criteri dell’induzione, ossia le condizioni epistemologiche in assenza delle quali un determinato “insieme” di dati probatori non può considerarsi, nel caso specifico, prova adeguata a sostenere l’esito del giudizio [6].
Ciò, del resto, risponde agli approdi più avvertiti della stessa corte di legittimità, sovente affannata nel delicato compito di autoregolamentare i limiti del suo intervento [7].
3.4 I valori della presunzione di innocenza e del giusto processo [8] per come recepiti nelle fonti sovranazionali – con tutto ciò che ne deriva in rapporto ai vincoli di cui all’art. 117, comma 1 Cost. – appaiono oggi presidiati, in concreto, anche dal controllo di legittimità sulla resistenza logico-giuridica dell’apparato argomentativo della decisione di condanna, aspetto che non ci sembra di secondaria importanza in un quadro di certo problematico e che necessita di riforme, anche coraggiose sul piano organizzativo [9] e normativo. Va ritenuta necessaria, restando sul tema, una riscrittura dei contenuti della disposizione dell’art. 606, comma 1, lett. e) del codice di rito, frutto di adattamenti e modifiche che non rendono del tutto chiara la possibile direzione del controllo. In estrema sintesi, ed in chiave propositiva, andrebbe meglio evidenziata la proiezione funzionale del controllo di legittimità, non solo e non tanto sui singoli passaggi argomentativi espressi in sede di merito ma sulla complessiva tenuta dell’apparato giustificativo della decisione in riferimento alle regole di giudizio tipiche di ogni fase procedimentale. Ma ciò è ben diverso da una sostanziale abolizione del momento di verifica.
[1] L’attuale previsione dell’art. 610 comma 5 bis cpp, introdotta dalla recente legge n. 103 del 23 giugno 2017, consente la decisione de plano in numerose ipotesi ricollegabili all’avvenuto vaglio preliminare di inammissibilità, nonché in riferimento ai ricorsi proposti avverso decisioni emesse ai sensi dell’art. 444 o 599–bis cpp.
[2] La cd. motivazione semplificata è promossa da un decreto presidenziale del 28 aprile 2016.
[3] Anche in tal caso si tratta di intervento realizzato con legge n. 103 del 23 giugno 2017, con le modifiche apportate al testo dell’art. 571 ed a quello dell’art. 613 cpp.
[4] Cfr. C. Brusco, La Corte di cassazione e il sistema delle impugnazioni penali: prospettive di riforma, in Questione Giustizia Trimestrale, n. 3/2017, ove si ipotizza un articolato intervento in tale direzione. Il punto è stato oggetto di discussione anche nell’ambito della Assemblea Generale della Corte del 25 giugno 2015 ma non si è tradotto in proposta operativa (si veda il punto n.8 del documento finale).
[5] Il legislatore ha realizzato una prima timida – ma significativa – apertura in tale direzione, lì dove, sempre con la riforma del 2017, ha escluso (art. 608, comma 1 bis cpp) la possibilità per il pubblico ministero di ricorrere per cassazione per vizio di motivazione (e per mancata assunzione di prova decisiva) in ipotesi di doppia conforme di proscioglimento.
[6] Così L. Ferrajoli, I valori del doppio grado e della nomofilachia (ne Il giudizio di cassazione nel sistema delle impugnazioni, supplemento al n.1 /1992 di Democrazia e diritto), ove si afferma, tra l’altro, a sostegno della permanente inclusione del controllo logico del ragionamento probatorio in sede di legittimità che «nella cultura formalistica propria del nostro ceto giudiziario, l’eventuale mancanza di una sede normativamente deputata al controllo logico del ragionamento probatorio finirebbe per rafforzare la concezione già ampiamente diffusa del carattere insindacabile del libero convincimento». In analoga direzione F. Cordero, che evidenzia come il controllo sulla motivazione inadeguata risponde al sistema «implicano troppi rischi giudizi d’appello sovrani sulla quaestio facti, come lo sarebbe il verdetto di una giuria» (Procedura, 2012, p. 1147).
[7] Almeno a partire da Sez. unite n. 11 del 2000, ric. Audino.
[8] Non appare inutile evidenziare, sul tema, come la stessa Corte Europea dei diritti dell’uomo nell’interpretare la previsione convenzionale sul giusto processo (art. 6 Conv. Eur.) abbia più volte ribadito l’esistenza di spazi di verifica – a fini di rispetto della previsione convenzionale della effettività della risposta ai temi dimostrativi introdotti dalla difesa (da ultimo nella decisione di irricevibilità del ricorso Mazzarella contro Italia, Sez. I del 26 settembre 2017: «incombe alle giurisdizioni interne di rispondere ai mezzi di difesa essenziali, sapendo che l’estensione di questo dovere può variare secondo la natura della decisione e che deve dunque essere valutato alla luce delle circostanze del caso di specie» (Hiro Balani c. Spagna, 9 dicembre 1994, serie A n.303–B, § 27, e Menet c. Francia, n. 39553/02, § 35, 14 giugno 2005).32. In definitiva, la Corte si deve assicurare che la procedura nel suo insieme, «compreso il modo in cui sono state trattate le prove», ha rivestito un carattere equo ai sensi dell’articolo 6 § 1 della Convenzione...); al contempo, l’art. 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea nel recepire, al comma 1, il principio della presunzione di innocenza («ogni imputato è considerato innocente fino a quando la sia colpevolezza non sia stata legalmente provata») pone ulteriori condizioni in tema di legalità processuale e probatoria con innegabile valorizzazione del principio del ragionevole dubbio inteso come limite alla affermazione di responsabilità, il che renderebbe irragionevole, a parere di chi scrive, una restrizione del controllo di legittimità sul fenomeno “processo” limitato alla verifica della corretta interpretazione del diritto sostanziale con amputazione delle possibili doglianze in punto di legalità probatoria.
[9] Limitandosi al giudizio di legittimità appare di certo utile una rimodulazione della collegialità – con adozione di forme più agili rispetto all’attuale fissità dei cinque componenti – in rapporto alla tipologia ed all’oggetto dei ricorsi, sì da ottenere un recupero di risorse. In via generale ciò che va complessivamente ripensato è il giudizio di secondo grado, specie lì dove la definizione della regiudicanda in primo grado sia avvenuta con l’adozione del rito abbreviato.