La famiglia di fatto impegna sempre più frequentemente la Corte di Cassazione, evidenziando, anche in ambiti diversi da quello strettamente legato alla disciplina delle relazioni endofamiliari, l’emersione capillare di situazioni di diversità di trattamento rispetto all’unione matrimoniale delle quali si richiede la rimozione alla luce del tradizionale ancoraggio costituzionale (art. 2 e 3 Cost.) coordinato con il diritto alla privata e familiare (art. 8 CEDU) nella attuale elaborazione della giurisprudenza EDU e del canone antidiscriminatorio, di peculiare rilievo in ambito UE (tra le più conosciute sent. Corte di Giustizia 1/4/2008 proc. C/267/06 Maruko).
Il diritto di costituire un’unione familiare senza il vincolo matrimoniale non può più limitarsi alla salvaguardia della libertà della scelta iniziale ma richiede un processo di adeguamento continuo verso un trattamento omogeneo a quello assicurato alla coppia coniugata nell’esercizio dei diritti fondamentali che scaturiscono dal complesso di rapporti, non solo di natura emotiva, conseguenti alla creazione di una relazione a carattere familiare (Cass. 4184 del 2012).
Tale equiparazione non richiede ineluttabilmente la funzione adeguatrice della Corte Costituzionale (Corte Cost. n. 138 del 2010) ma può in concreto essere esercitata mediante l’applicazione dell’ampio quadro costituzionale, non solo nazionale, dei diritti della persona, composto non soltanto dal catalogo interno dei diritti fondamentali ma anche da quello, aperto, proveniente dalla CEDU e dalla Corte di Strasburgo, dalla corretta valutazione della Carta dei diritti fondamentali, dalla giurisprudenza delle Corti Nazionali e della Corte di Giustizia (Cass. 4184 del 2012; sulla necessità di un’ampia ricognizione delle fonti relativi ai diritti umani della persona Cass. 19393 del 2009).
Prima di esaminare in concreto la sentenza n. 1277 del 2014 che riveste particolare interesse proprio per il rilievo attribuito alle fonti costituzionali e convenzionali del diritto alla vita familiare nelle relazioni non matrimoniali, si deve segnalare, a conferma dell’importanza qualitativa e quantitativa del fenomeno, che soltanto nell’ultimo biennio la Corte di Cassazione si è trovata di frequente a dover confrontare le istanze provenienti da componenti di unioni familiari non matrimoniali rispetto a diritti, come quello di proprietà, di godimento di un’unità abitativa, di soggiorno in Italia o di non esserne espulso in qualità di cittadino straniero, diversi da quelli tradizionalmente connessi al quadro delle relazioni tra partners o di quelle filiali.
Pur escludendo che il convivente more uxorio possa essere qualificato come possessore ad usucapionem dell’immobile ove risiede la famiglia di fatto (Cass.9786 del 2012) di cui sia possessore l’altro convivente, la Corte ne afferma la qualità di detentore autonomo, evidenziando che si tratta di una relazione qualificata con l’immobile, protetta dall’ordinamento.
In tale qualità, il convivente è legittimato all’azione di spoglio nei confronti del convivente proprietario che l’abbia spossessato del diritto di godimento dell’unità abitativa adibita a casa familiare (Cass. 7214 del 2013).
La soluzione, non del tutto nuova, si fonda non sull’esame del potere di fatto sull’immobile del convivente detentore ma sullo statuto costituzionale che tutela la famiglia di fatto, considerata come autentico consorzio familiare ove si svolge e si attua il programma di vita in comune.
Nell’ambito della tutela risarcitoria, risulta di particolare importanza la pronuncia n. 15481 del 2013 nella quale è stato affermato, ai fini del riconoscimento del patrocinio a spese dello stato, che non può ritenersi manifestamente infondata l’azione risarcitoria per violazione degli obblighi familiari relativa ad uno dei componenti di un’unione di fatto sul solo rilievo della "insussistenza sia normativa che giurisprudenziale dell'ipotesi di violazione degli obblighi familiari in ipotesi di persone unite dal solo vincolo more uxorio", dovendosi verificare in concreto la configurabilità di tale posizione nell'ambito della categoria dei diritti fondamentali della persona, “senza che assuma rilievo il tipo di unione al cui interno la lamentata lesione si sarebbe verificata”. La tutela risarcitoria del danno patrimoniale da lesione d’interesse costituzionalmente rilevante, costituisce uno dei terreni elettivi di riconoscimento giuridico delle unioni caratterizzate da “significativa comunanza di vita e di affetti”.
Il pregiudizio arrecato a tali tipologie di relazioni, merita, secondo la Corte, protezione ex art. 2059 cod. civ. anche quando la coabitazione non sia ancora intervenuta, proprio in virtù della riconduzione di tali unione nell’attuale riconoscimento “relazionale” della precettività dell’art. 2 Cost. (Cass. 7128 del 2013).
Non in tutti gli ambiti la sensibilità della Corte verso una comunione di vita e di affetti non riconducibile al vincolo matrimoniale incontra lo stesso grado di tutela.
Il divieto di espulsione per “gli stranieri conviventi con parenti entro il secondo grado o con il coniuge di nazionalità italiana” stabilito dall’art. 19 comma secondo, lettera c) del d.lgs n. 286 del 1998 nella sua attuale formulazione non si applica, secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità (di recente confermato nella pronuncia n. 22305 del 2013) ai matrimoni contratti con rito “Rom”.
Tali unioni, afferma la Corte non sono riconducibili ad un modello matrimoniale di uno Stato straniero e non possono qualificarsi neanche come unioni di fatto regolate.
La soluzione formalistica prescelta da questo orientamento sembra in palese contraddizione con il rilievo costituzionale attribuito alle unioni familiari non matrimoniali dalla sentenza n. 4184 del 2012 e all’attenzione per il riconoscimento del diritto ad ottenere un’equiparazione effettiva nel godimento dei diritti fondamentali da parte dei componenti di tali unioni, evidenziati negli orientamenti precedentemente illustrati.
Né sembra che “l'interesse nazionale al controllo dell'immigrazione” (Cass. 22305 del 2013) possa giustificare, soprattutto in considerazione del canone della proporzionalità, la soluzione adottata dalla Corte anche con riferimento alle unioni tra un cittadino italiano e un cittadino straniero non appartenente all’Ue dello stesso sesso (Cass. 6441 del 2009; per il superamento ben argomentato di questa limitazione da parte della giurisprudenza di merito Trib. Reggio Emilia ord. del 17/12/2008 reperibile in www.articolo29.it ; Trib. Napoli ord. 25/10/2013 reperibile in questa rivista).
All’interno di questo ampio quadro di riconoscimento e equiparazione nella titolarità e nell’esercizio dei diritti fondamentali dei componenti di unioni familiari non matrimoniali, attualmente caratterizzato dall’impegno concentrico delle Corti Europee, Nazionali e dalla giurisprudenza di merito, si colloca la pronuncia n. 1277 del 2014, non tanto per la soluzione adottata, coerente con i precedenti orientamenti di legittimità quanto per la ricognizione puntuale, normativa e giurisprudenziale del processo che si è sinteticamente illustrato.
Il caso è semplice.
Alla cessazione di una convivenza more uxorio, caratterizzata da cinque anni di vita in comune in Cina, le parti concludevano accordi economico patrimoniali che, però, non riguardavano gli importi versati dall’uomo su un conto corrente intestato alla donna.
Veniva azionata una domanda di ripetizione, accolta in primo e secondo grado. La Corte cassava la pronuncia della Corte d’Appello ritenendo che le somme in questione fossero state versate in ossequio ad un dovere morale di solidarietà fondato sulla comunione di vita condivisa dalle parti in Cina ove la donna aveva seguito il partner rinunciando al proprio lavoro.
Si trattava, in conclusione di obbligazioni naturali non ripetibili, anche perché rispettose del parametro della proporzionalità ed adeguatezza (Cass.11330 del 2009).
Colpisce in primo luogo, dalla lettura della sentenza, la ferma posizione dei giudici di merito fondata sull’assenza di qualsiasi rilievo giuridico alla natura esclusivamente familiare della relazione instaurata e conservata per cinque anni dalle parti, alla peculiarità del trasferimento in Cina, alla realizzazione di una comunione di vita stabile e del tutto equiparabile a quella coniugale.
I giudici di merito si fermano al momento genetico della relazione, dando peso esclusivamente alla libertà di scelta originaria, senza dare alcuna considerazione alla radicale diversità della modulazione della vita quotidiana derivante da tale opzione iniziale (peraltro del tutto omologa a quella matrimoniale, sotto il profilo dell’assenza di coazione).
La Corte, nell’ampia disamina giurisprudenziale e normativa che compie, sottolinea, invece, proprio il contenuto oggettivo, valutabile nel tempo della relazione, caratterizzata dalla nascita di un figlio e dall’esclusività e dalla stabile coabitazione oltre che da una differenza di ruoli molto netta, fondata sul sacrificio delle aspettative lavorative e professionale di uno dei due partners.
Riconosce in questa comunione di vita, una formazione sociale degna di rilievo costituzionale e di protezione giuridica non soltanto al momento del suo sorgere, come atto di autodeterminazione personale ma anche e soprattutto nel suo divenire, ritenendo, sia pure con un grado diverso di cogenza rispetto al parametro costituito dall’art. 143 cod. civ., che sussistono doveri di solidarietà e assistenza reciproca attuabili anche mediante esborsi di denaro, non ripetibili ai sensi dell’art. 2034 cod. civ.
Merita menzione la ricognizione delle fonti normative interne che evidenziano, secondo la Corte, il rilievo giuridico-costituzionale delle unioni familiari non coniugali.
L’attenzione è rivolta non solo alla legge sull’affido condiviso (l. n. 54 del 2006) che, con peculiare riferimento alla filiazione, esclude qualsiasi differenza di regime giuridico tra unione matrimoniale e famiglia di fatto ma anche alla recente legge n. 212 del 2013 che ha cancellato anche semanticamente la differenza tra figli nati all’interno o all’esterno del modulo matrimoniale.
Viene indicato l’art. 5 della l. n. 40 del 2004 che consente l’accesso alle tecniche di procreazione assistita anche alle famiglie di fatto e gli art. 342 bis e ter cod. civ. relativi all’estensione dello strumento di tutela costituito dall’ordine di protezione contro gli abusi familiari anche ai conviventi.
La medesima estensione riguarda la nomina dell’amministratore di sostegno e del tutore dell’interdetto (artt. 408 e 417 cod. civ.).
La pronuncia in esame pone l’accento sui profili economico-patrimoniali del dovere di assistenza e solidarietà che caratterizzano tale tipologia di unione, in quanto direttamente dipendenti dalla collocazione costituzionale (nel senso comprensivo anche delle fonti costituzionali-convenzionali non nazionali riconosciute dal nostro ordinamento) ad esse propria.
Il profilo più attuale del sistema di protezione giuridico della dignità e meritevolezza di queste comunioni di vita sia quando discendano da un’opzione personale sia quando siano imposte dal diritto positivo (come le unioni tra persone dello stesso sesso), consiste nell’esigenza di estendere la rete dei diritti conseguenti dall’essere parte di una formazione sociale tutelata dall’art. 2 Cost., dall’Art. 8 CEDU e dagli artt. 7 e 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, oltre il confine costituito dai doveri e dagli obblighi endorelazionali, anche se d’indubbio rilievo anche economico-patrimoniale.
L’impegno delle Corti e dei giudici di merito, così come già accaduto in sede UE, (per i richiami giurisprudenziali relativi alle più significative pronunce della Corte di Giustizia, a parte il citato caso Maruko si rinvia al sito www.articolo29.it ) deve rivolgersi più incisivamente verso la rimozione di discriminazioni ingiustificate relative al godimento di diritti sociali (previdenziali, sanitari retributivi etc.), riconosciute nella omologa condizione coniugale. Accanto a significative aperture dei giudici di merito (Corte d’Appello di Milano sent. 31/8/2012 n. 7176 in www.asgi.it ) devono segnalarsi anche pronunce che costituiscono un oggettivo arretramento nel processo che coerentemente con i parametri costituzionali la giurisprudenza sta ponendo in atto.
Si richiama al riguardo la recente pronuncia del T.A.R. Lazio n. 9263 del 2013 con la quale è stata esclusa l’estensione al partner di un funzionario diplomatico di benefits, attributi dalla legge ai “familiari” sul rilievo della mancanza di riconoscimento giuridico formale alle unioni di fatto tra persone dello stesso sesso.
Il giudice amministrativo, pur fondando la propria decisione sulla sentenza della Corte di Cassazione n. 4184 del 2012 ne ha tratto conseguenze non condivisibili.
Dopo aver ribadito il divieto di matrimonio tra persone dello stesso sesso e l’inefficacia degli effetti di un’unione coniugale contratta all’estero, ha ritenuto che il riconoscimento di “altri diritti fondamentali” pur dovuto a tale tipologia di unioni per la copertura costituzionale di cui godono, non poteva estendersi ai benefits richiesti sia perché di natura prevalentemente economica, sia perché non impeditivi della continuazione della relazione di coppia.
Così argomentando il giudice amministrativo omette integralmente lo scrutinio del canone antidiscriminatorio, pur segnalato da Corte Cost. n. 138 del 2010, con riferimento all’equiparabilità del riconoscimento di diritti eziologicamente derivanti dall’appartenenza alla formazione sociale costituzionalmente rilevante.
La natura economica della pretesa è, peraltro, del tutto ininfluente rispetto alla qualificazione giuridica del diritto che ne costituisce il fondamento, da individuarsi nella posizione di familiare, da riconoscersi a chi condivida e attui il progetto di una stabile comunione di vita.
E’ dal rilievo giuridico del ruolo che scaturiscono non solo i reciproci doveri di solidarietà ma anche la posizione di parità rispetto a prestazioni pubbliche o di terzi (datore di lavoro, struttura sanitaria etc.).
Infine, desta perplessità il ritenere estensibili solo quei diritti la cui mancanza impedisca la continuazione della relazione sia perché vi sono diritti che vengono azionati, come nella pronuncia sopra esaminata, soltanto quando la relazione cessa, sia perché il criterio adottato tende a giustificare qualsiasi trattamento non paritario.
La categoria degli “altri diritti fondamentali” (Corte Cost. n. 138 del 2010) riferita alle unioni di fatto, è destinata a un continuo processo di sviluppo ed approfondimento lungo il percorso tracciato dal riconoscimento del rilievo costituzionale delle predette unioni.
Il versante dei diritti sociali sembra il settore allo stato più debole rispetto a quello relativo alla reciprocità dei diritti e dei doveri della coppia. Ma indietro non si può tornare.