I significati generalmente associati all’espressione “nativo digitale” sono due.
In un primo senso questa indica la persona che, paragonata al resto della popolazione, possiede, per essere cresciuta in un ambiente pervaso da computer, smartphone e tablet, una maggior “familiarità d’utilizzo” di questi strumenti.
In un secondo senso, che può aggiungersi o meno al primo, indica la persona che, per la stessa ragione, utilizza questi strumenti in modo particolarmente “consapevole”, “non ingenuo”, “non passivo”, rappresentando essi un elemento essenziale della sua “mappa mentale”.
La prima accezione è assai fuorviante. Alla sua base vi è la presupposizione per la quale una certa “sveltezza” nell’accedere alle funzionalità proprie di queste tecnologie sia indice, per quale motivo, del possesso di una qualche facoltà degna di nota.
Così non è.
Ogni italiano attualmente vivente è “nativo” relativamente a una qualche tecnologia. Chi scrive, mancata per poco la “natività digitale”, è comunque senz’altro un “nativo televisivo”, o un “nativo automobilistico”. Questo non fa di ogni appartenente alla mia classe d’età (e di me in particolare) un esperto di onde elettromagnetiche o un ingegnere meccanico. Come molti altri sono semplicemente stato addestrato, in gran parte per l’influenza dettata da massicce organizzazioni produttive e commerciali, a divenire un diligente end user di tecnologie delle quali devo ammettere di non comprendere quasi nulla. Lo stesso dicasi del “nativo digitale” nel primo senso indicato: si tratta di persona generalmente in grado di seguire assai semplici istruzioni d’utilizzo di apparecchi basati su tecnologie e saperi intorno ai quali non è tenuto a conoscere (e quasi mai conosce) alcunché.
La seconda accezione appare decisamente mistificatoria. Attesa la capacità manipolatoria degli algoritmi per la “cattura dell’attenzione” di cui si servono i grandi produttori o host di “contenuti” diffusi su internet, il fatto che un bambino cresciuto nell’esposizione ad essi possa mantenere una capacità di autodeterminazione culturale maggiore di una persona diventata adulta in epoca “televisiva”, o “giornalistica”, appare quantomeno controintuitivo.
Le numérique est partout. Fanno il loro ingresso in magistratura i primi vincitori di concorso “nativi digitali”, e tutti i magistrati, nativi e non, sono costretti a misurarsi con un mutamento di paradigma, che non definirei, peraltro, per quello che attualmente ci riguarda, tecnologico (anzi: di tecnologie che rendano possibile concentrare il lavoro magistratuale sui compiti che necessitano di un intervento del giudice o del pubblico ministero, liberandoli da altri incombenti, possiamo usufruire in misura decisamente modesta) – si tratta, invece, di un mutamento epistemico e cognitivo, di fronte al quale dobbiamo domandarci se la nostra etica, il nostro autogoverno e il nostro rapporto con la società necessitino di un aggiornamento.
In cosa consisterebbe il mutamento di paradigma al quale ho accennato?
Da un punto di vista epistemico l’epoca di internet ha deregolamentato il reperimento dei “dati” d’esperienza. Nel tempo in cui ogni voce equivale ad ogni altra, viene meno il “filtro” di valutazione preventivo di affidabilità del locutore, imposto, nel passato, dalle limitazioni consustanziali alle tecnologie di diffusione dell’informazione (per parlare in radio o in televisione, per scrivere su un giornale, per tenere una conferenza era necessario passare al vaglio di istituzioni editoriali, culturali, politiche, imprenditoriali). Con specifico riferimento ai social media, ma anche a chat e mailing list, la contaminazione è ancora più evidente, con la caotica compresenza di contenuti “condivisi” di indubbio valore e interesse, di chiacchiere senza importanza e di interventi volutamente disturbatori (e disturbanti).
Da un punto di vista cognitivo la nuova esperienza comunicativa è caratterizzata dal notevole incremento della quantità dei “dati” e dal ritmo estremamente accelerato dello “scambio”. Il prezzo per l’accesso ad una mole informativa senza precedenti (seppure quasi irrimediabilmente svalutata e inquinata dalla deregolamentazione) viene pagato attraverso la già menzionata “cattura dell’attenzione” da parte di un flusso vorticoso di post, tweet, feed, scroll, chat, mail, di fronte al quale è facile cadere nella compulsione alla lettura – e, cosa ben peggiore, alla replica – immediate.
Il fenomeno interessa l’insieme della società, a livello globale. Pure, credo che in un senso piuttosto particolare esso debba concernere il magistrato, e la magistratura, in quanto tali.
Perché?
Perché, a ben vedere, il “tipo umano” e “mentale” disegnato dall’attuale deriva di internet e dei social media si pone, per aspetti che ritengo non trascurabili, in diretta antitesi rispetto ai valori che la magistratura è chiamata a salvaguardare e fare propri dal costituzionalismo liberale.
In particolare:
i. Il magistrato opera in un contesto altamente procedimentalizzato. Può dirsi, anzi, che, come testimoniato da numerosi richiami nelle carte fondamentali, la garanzia che egli offre attraverso una procedura corretta e prevedibile costituisca in non piccola parte il fondamento del credito di fiducia che l’istituzione alla quale appartiene si è meritato, quale argine ad un esercizio del potere eccessivamente “diretto” e result-driven. L’universo discorsivo virtuale, dove immediatezza, “urlo” ed efficacia (a qualunque costo) sono tutto, o quasi, svilisce gravemente la procedura, quantomeno agli occhi degli osservatori esterni.
ii. Il magistrato opera in un contesto altamente “discriminatorio” e “filtrante” nei riguardi dell’informazione. Non ha posto, nel contesto di un potere giudiziario democratico e costituzionale, il “diluvio” dei dati. L’informazione (l’atto, il documento, la prova in genere) ha tempi di ingresso e di valutazione nel processo (e nella psiche del magistrato) incompatibili con la “voracità” di un universo informativo che, pure, ambisce a “colonizzare culturalmente” anche le nostre menti, come quelle di chiunque altro.
iii. La magistratura “comunica” con il mondo ad essa esterno attraverso procedure che internet e i social media sembrano destinare all’irrilevanza, se non al ridicolo. Il provvedimento giudiziario, la rarissima dichiarazione affidata ai media “tradizionali”, la presa di posizione istituzionale, il “comunicato stampa” sono strumenti che non possono conservare l’efficacia di un tempo, a fronte dell’affermarsi di canali comunicativi che possono “sommergere”, presso l’opinione pubblica maggioritaria, le nostre prese di posizione, che pure non possiamo e non dobbiamo affidare a metodi che compromettano la dignità che ci è imposto, e che ci onoriamo, di custodire.
iv. Il magistrato “interagisce” con i colleghi, e vive la dimensione interpersonale e associativa, in modi nuovi, segnati dalla predominanza dei canali comunicativi social. L’effetto non appare del tutto confortante. Un corpo professionale che, come già segnalato, si distingue (deve distinguersi) per pacatezza (anche discorsiva), attitudine all’ascolto, attento utilizzo delle parole, e per l’abitudine di pronunciarsi solo dopo un’attenta riflessione, viene inconsciamente attratto verso modalità comunicative irruenti, frenetiche, febbrili, non mediate da intervalli di riflessione adeguati. Gli effetti negativi di tali pratiche non si limitano ad un danno d’immagine (che è tutto fuorché secondario), bensì consistono anche in una mutazione che, da stilistica, si fa di contenuto, “premiando” (sull’effimera ribalta delle “tifoserie informatiche”) doti argomentative ed espressive che, fino a qualche decennio fa, avrebbero incontrato una diversa accoglienza, e portando ad una mutazione dello stesso dibattito associativo.
v. La magistratura difende (e opera all’interno di) un assetto costituzionale (quello occidentale e liberal-democratico) fondato sulla divisione dei poteri, sull’esatta attribuzione delle competenze, sulla regolazione pacifica delle interazioni tra centri decisionali e di controllo. Per motivi ai quali si è già in parte fatto cenno, il mondo successivo all’avvento di internet è invece caratterizzato da un pericoloso anarchismo “di facciata”, comunque inquietante, in quanto suscettibile di “delegittimare” radicalmente qualsiasi luogo del governo legale, in nome di discutibilissime “onde cognitive” (come quella, impensabile in assenza di social media, che il 6 gennaio di quest’anno ha portato all’assalto, da parte di neonazisti, nostalgici della schiavitù e sostenitori di farneticanti teorie complottistiche, del Campidoglio degli Stati Uniti, che solo per poco non si è concluso col linciaggio di deputati e senatori, e dello stesso vice-presidente del paese). Dietro questo apparente libertarismo, peraltro, si celano ampie possibilità d’intervento da parte di “abili manovratori”, che posseggano alcune delle “chiavi occulte” della tecnologia e intendano condizionare fasce anche ampie della popolazione, o frange estremiste, per scopi “politici” che sfuggono allo scrutinio dell’opinione pubblica e delle votazioni. In assenza di ferme contromisure, la posizione della magistratura, all’interno di un ambiente istituzionale e sociale nel quale anche il più potente parlamento del mondo è risultato facilmente espugnabile da orde di fanatici sobillati soprattutto tramite canali informatici, appare destinata ad indebolirsi, esponendo ad un’inquietante vulnerabilità i suoi esponenti.
Cosa dovremmo fare?
Questo articolo si pone sulla scia di sollecitazioni costituzionali che, dopo il 6 gennaio 2021, percorrono il globo (ironicamente, anche grazie a internet e ai social media), e vuole essere in primo luogo una voce tra tante all’interno di un dibattito che trascende la magistratura e sarà (non è difficile prevederlo) articolato e complesso.
Nondimeno, alcune direttrici mi pare si profilino, e alcuni passi mi appaiono degni di essere già proposti alla valutazione del lettore.
In primo luogo, appare opportuno che la magistratura, anche al massimo livello associativo e istituzionale, affronti approfonditamente la questione dei propri rapporti con il mondo della comunicazione elettronica. Le scelte di fondo, è chiaro, spettano al legislatore, ma su una materia come questa, sulla quale può giocarsi il futuro della democrazia, il nostro contributo non può - perché sarebbe un controsenso costituzionale - e non deve - perché sarebbe segno di accidia e insipienza – mancare.
Per quanto riguarda la formazione dei magistrati, sia quelli in tirocinio che quelli già titolari di funzioni, appare consigliabile che a tutti sia fornito, attraverso un ciclo di incontri, che immaginerei, per impegno, concentrato in una classica settimana di “corso”, un “kit di sopravvivenza” relativo alla prevenzione di comportamenti dannosi e inappropriati sui social media, nella comunicazione elettronica in generale e, in particolare, in quella con interlocutori istituzionali e colleghi.
Ancora, il mondo associativo potrebbe utilmente dedicare qualche energia alla valutazione del modo in cui la comunicazione elettronica ha mutato il dibattito tra magistrati e, nel rispetto della libertà e della dignità di ogni collega, incoraggiare pratiche di comunicazione il più possibile partecipative, meditate e rispettose.
L’assalto a Washington lascerà dietro di sé una lunga scia giudiziaria, ponendo i giudici ed i prosecutor statunitensi nella scomoda posizione di chi è chiamato a riflettere ed interrogarsi, in quanto potere dello stato come il legislativo e l’esecutivo, su fenomeni dirompenti, inattesi e poco compresi, sui quali è però allo stesso tempo necessario, in relazione ad episodi specifici, indagare e giudicare.
Nessuno si augura che episodi simili interessino altri paesi, ma una responsabile autocoscienza delle istituzioni resta il dovere, e la migliore assicurazione, degli attori di un regime che si vuole, e vuole conservarsi, autenticamente democratico.