“Ora rivoglio bianche tutte le mie lettere,
inaudito il mio nome, la mia grazia richiusa;
ch’io mi distenda sul quadrante dei giorni,
riconduca la vita a mezzanotte….”
Cristina Campo, Passo d’addio
Opera di multiscrittura, “Non avrai le mie parole” (Novecento Editore, 2014) ci stringe nei nodi delle tante voci che narrano, da diverse angolazioni, la medesima storia, miriadi di confessioni che si snodano sullo sfondo di una natura sensuale, lucreziana, mai sorda alle voci dolenti o eccitate dei protagonisti di un racconto che dura cinquant’anni e che vaga, come in un bisbiglio percettibile, in mezzo a luoghi immaginari da riempire mentalmente, come in un sogno un po’ febbrile, perché la scrittura rende tutto possibile: narrare, negare, giustificarsi.
Al centro, la storia d’amore tra Marta del Bormio e Dante Cescati, sullo scorcio degli anni trenta, tanto ardore passionale che s’intreccia con l’epopea fascista, le violenze e le prevaricazioni.
Marta, innanzitutto, abbandonata da Dante, forse per distrazione, forse per minimizzazione di un amore vero, o, forse, vittima incolpevole di chi la spinge ad amarlo e a congiungersi con lui sugli argini del fiume che nasconde e protegge, per mascherare una perduta verginità già offerta ad altri, con la complicità rude e distratta dei parenti.
Il colpo di pistola di Marta, contaminata dalla sifilide, da questo commerciante di scarpe innamorato, soprattutto, del suo mestiere e dell’incanto di scorribande tra paesi e piedi invitanti, che accarezza, di corpi che invogliano. Dante non morirà, il processo si concluderà con una pena lieve, ma i due amanti non sanno né perdonarsi, né scontrarsi, troppo grande è il dolore di Marta violentata già da un ambiguo professore compromesso dalle complicità politiche con i gerarchi locali, quegli stessi che coprono le efferatezze dello zio Luciano che, a sua volta, si congiungerà con Marta in un delirio forse d’onnipotenza e di ricchezza di terre e di beni al sole, vinto da quella pazzia di possedere che lo condurrà anche all’assassinio di chi si oppone alla sua ascesa, lui, fattore scaltro e violento che cercherà, solo alla fine, nella cura di Marta e nella scrittura un riscatto impossibile.
Nascerà, da Marta, una figlia, Lavinia. Chi è il padre? Dante? Lo zio Luciano? O l’untuoso professore?
Tutti, però, si rincontreranno in destini che la scrittura avviluppa e plasma nelle fantasie e nei soliloqui
Ritroveremo Marta Del Bormio con una nuova identità, che curerà lo stremato e stralunato Dante, incontreremo la moglie di lui che, in un rancore sordo per un figlio piccolo morto di polmonite, per una mancata rinuncia ad un giorno di mercato, fa deportare il marito, in un’illusione distratta di una nuova vita e per allontanare da sé il dolore.
Ma incontreremo anche la loro figlia, Elvira, forse la sorella di Lavinia o forse no.
Quanto spazio vi è ancora per ricominciare a comprendersi e ad indovinare il proprio destino in un mondo che cambia, dove le terre hanno sempre meno valore perché l’uomo che le coltiva vede spezzato il suo legame primordiale e vitale con la natura?.
Forse non valeva la pena di una vita così tormentata e drammatica per ricongiungere i poderi e per fare di Marta qualcosa di fertile che, nel sogno tragico di zio Luciano, appartiene a lui come una cosa.
Tutto, alla fine, rimarrà equamente diviso tra Elvira e Lavinia, inconsapevoli pedine di tanti dolori.
Quelli causati dalla violenza del fascismo, dalle botte prese dal padre di Dante Cescati che non vuole piegarsi ai gerarchi, dal dolore allucinato di Olga, la moglie di Dante, passiva amante dell’ufficiale tedesco letterato, medico e lucido testimone delle scelte dolorose di una guerra che annichilisce e violenta ogni speranza e che alimenta la bugia di un lavoro impossibile per Dante lontano dai suoi paesi .. semplicemente deportato insieme a tanti altri disperati come lui.
Nel libro ci sono tanti enigmi che ci tengono in ansia e che vorremmo vedere svelati, quasi come in un giallo, ma sono le lettere d’amore di Dante e Marta che ci accompagnano verso una soluzione, insieme ai fogli strappati da un libro che solo lo zio Luciano può riordinare come in un mazzo di carte, forse truccato da un “cartaro” dispotico.
Per questo, nessuno, le avrà quelle parole risolutive degli enigmi esistenziali dei protagonisti, se non quando zio Luciano, solo lui, vorrà disvelarle.
Le parole possono ingannarci, ma una volta scritte non possono cambiare, si cristallizzano, conformano il vuoto, creano le identità e ci suggeriscono risposte.
Tutto il “non detto” dei silenzi dolorosi di Marta, degli assassinii, dei tradimenti, delle violenze sono conservati lì, anche se al lettore è lasciata la libertà di “chiudere” il gioco secondo la propria inclinazione e la propria speranza.
Solo al ritorno in patria Dante ritroverà la sua Marta, ma non sapremo mai quanto potranno ancora riconoscersi e se sono ancora capaci di amarsi ed, ancora, se Dante, che stringe ancora al petto le amate scarpe che accarezza svagato, come una cosa viva, comprenderà quella rinnovata tenerezza che darà finalmente un senso alla loro storia, a costo della pazzia.