Due lettori hanno recensito per Questione Giustizia il libro di Giorgio Fontana, fresco vincitore del premio Campiello. Ecco le loro impressioni:
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1.
Il mio rapporto con i libri è quasi carnale, dettato spesso dall’empatia di un titolo, di un’edizione, di un’immagine di copertina. Chi me li dona lo sa bene.
Con i libri della Sellerio poi, la sensazione ogni volta è di trovarsi di fronte ad un piccolo scrigno da aprire, alla ricerca della sua essenza preziosa. Da Sellerio è appunto edito “Morte di un uomo felice”di Giorgio Fontana. Libro letto tutto d’un fiato, di corsa , certamente in prima battuta “condizionato” dal ruolo di magistrato del suo protagonista.
Infatti, siamo a Milano, estate 1981, stagione piena dei c.d. anni di piombo. Tutto ruota intorno alla figura di Giacomo Colnaghi, impegnato sul fronte delle indagini sulle organizzazioni terroristiche di quella stagione. Figura solitaria, ma non introversa,intrisa di una religiosità non bigotta, fermamente rispettoso delle regole, ma con l’intuizione fortemente innovativa della creazione di un lavoro di gruppo.
Figura malinconica, “tormentata” dal peso della scomparsa tragica di suo padre, che sembra voler vivere una dimensione quasi “totalizzante”, vocazionale, del suo lavoro, scegliendo di stare distante dalla famiglia, dagli affetti, rispetto ai quali vive una condizione di sofferta quasi non appartenenza. Uomo semplice, ma attanagliato dalla curiosità impellente di comprendere, di affrontare i “nodi“ di quel tempo, pronto ad immedesimarsi, con la stessa umanità che rivela nella conduzione dei suoi atti di indagine, nella quotidianità e nelle vite di una periferia quale quella milanese, ma che potrebbe essere una qualunque delle nostre.
Un filo di dolce e sottile malinconia avvolge, dunque, il lettore che accompagna la vicenda professionale, umana e storica di Colnaghi, fino al suo finale.
Evidente il richiamo a figure importanti della nostra storia italiana e delle storie professionali di tanti di noi, prima fra tutte quella di Guido Galli, ricordato appunto nella narrazione. Infine, la curiosità di una lettrice con la passione per i titoli: era felice Colnaghi?
Non so dare una risposta precisa a questo interrogativo. Le vite di tanti di noi così simili alla sua possono definirsi tali?
Buona, consigliatissima, lettura.
Angela Arbore
Ha tanti livelli di lettura l’ottimo “Morte di un uomo felice” di Giorgio Fontana, così come tanti ne aveva “Per legge superiore” che lo ha preceduto in libreria ma lo segue sull’asse temporale.
Sono romanzi di delitti e di investigazioni, con una precisione narrativa che tradisce la preparazione anche tecnica dell’autore. Tutti e due raccontano quartieri di una Milano, contemporanea e degli anni ’70, di periferia, pulsante di varia umanità, quasi provincia di quella della moda e degli aperitivi. Ma il palazzo di giustizia, con la sua imponente architettura, è protagonista di entrambi. Sono romanzi di crescita umana e culturale, a prescindere dall’età dei due protagonisti.
Entrambi si interrogano (con esiti diversi) sull’esistenza di una giustizia superiore, divina o umana, capace di ricomporre l’ordine rotto dal male. Sul ruolo del giudice, se debba essere sommo sacerdote della giustizia che si compie nelle aule o protagonista del processo che porta alla giustizia, anche per le strade.
Narrano dei rovelli dell’anima e delle mente di due magistrati, uno giovane, l’altro anziano. L’uno idealista, l’altro disincantato. L’uno che patisce per il mondo fuori dai fascicoli, l’altro che si rifugia nell’ascolto della musica. Il primo ossessionato dall’esigenza della comprensione del male, l’altro roso dal dubbio. Ma i rovelli non rimangono speculazione. Colnaghi, protagonista della “Morte di un uomo felice” vuole comprendere il perché del male - si tratta della follia omicida degli anni di piombo - perché solo così spera di prevenire altro, non essendo sufficiente comminare sempre più anni di carcere. Doni, sia pure stimolato da una giovane giornalista, accetta il dubbio per fare giustizia, nonostante le risultanze processuali.
I due romanzi dialogano fra loro, con una staffetta fra i protagonisti.
Il primo si concludeva con una proposta: per vivere felici, non bisogna agire, fare le cose per bene, andare per piccoli passi come una persona mediocre. Già il titolo del secondo annuncia lo sviluppo del tema. Forse, nemmeno la lettura dei due libri consente di capire se proprio questa è la strategia giusta per vivere felici.
Nel primo, la figlia, lontana, del protagonista lo stimola ad agire. Nel secondo, le parti sui rapporti fra padre figlio assumono un tono tragico. Il protagonista vive la sofferenza di essere stato figlio di un padre, morto partigiano troppo giovane, ed essere anche padre di un figlio, che non cura abbastanza perché assorbito dal lavoro di magistrato.
“Morte di un uomo felice” manifesta una maturità di scrittura sorprendente ed una sana consapevolezza degli snodi della storia nazionale. Gli anni di piombo sono ancora un argomento scottante. Ogni volta si riaprono le ferite delle stragi senza colpevoli, dei cattivi maestri, dei pezzi di Stato deviati.
Fontana rifugge dall’impostazione cronachistica, pure dimostrando di dominare le fonti storiche su quegli anni. Si sottrae pure alla pubblicistica di gran moda, che riporta il tema all’eterno complotto dei poteri forti contro la democrazia (si pensi alla trilogia di Simone Sarasso od al pur riuscito “La legge dell’odio” di Garlini).
Sceglie il tono crepuscolare della vita privata e professionale di un magistrato, che fra gli anni ’70 ed ’80 temeva che il vecchio corpo italiano non avesse anticorpi contro il terrorismo. Mentre gli anticorpi erano proprio quelli come lui che, pure non sentendosi eroi, hanno consentito al paese di superare quegli anni.
L’anti-eroismo di Colnaghi è proprio l’umanesimo che lo anima, quando si interroga sui motivi della violenza politica, incontra le vittime dei reati, discute con librai, teologhe, baristi.
E’ la passione civica che lo spinge ad aderire a Magistratura Democratica, non per fervore ideologico, ma per partecipare al processo di svecchiamento culturale della magistratura italiana. E’ la scommessa contro la violenza e per la democrazia e la giustizia, personificata da Generoso Petrella, che durante l’ assemblea fra magistrati dopo l’omicidio di Guido Galli, fra grida di vendetta, a basse voce, ammonisce che “noi non dobbiamo essere gli uomini dell’odio”. E’ il senso profondo e nuovo del suo essere giudice, che non tratta le persone “come parti nel gioco del processo”.
Deciderà il lettore se Colnaghi sia stato un uomo felice, di certo è stato un grande magistrato.
Giovanni Zaccaro