Dalla relazione del ricorrente con A.D. nasce una bambina il 31 marzo 2001. Poco meno di due anni dopo, dato il conflitto insanabile della coppia, A.D. decide di lasciare Roma, dove entrambi i genitori avevano vissuto sino ad allora, per far ritorno a Termoli presso la sua famiglia d’origine. Da quel momento – osserva la sentenza - la bambina manifesta un’opposizione crescente a mantenere il rapporto con il padre. La madre si rivolge al Tribunale per i minorenni di Roma (sembra che il ricorso preceda di poco la sua decisione di trasferirsi) che le affida la figlia in forma esclusiva - decreto del 9 luglio 2003 - e disciplina la frequentazione paterna (la decisione lascia qualche dubbio sul fatto che il Tribunale fosse informato del trasferimento del genitore avvenuto qualche mese prima, visto che ad esempio sono previsti due pomeriggi durante la settimana per poche ore). Non migliora tuttavia la relazione parentale ed anzi si radicalizza il rifiuto della bambina (due anni e mezzo a quel momento): nell’agosto il padre si rivolge al giudice tutelare del Tribunale di Termoli (a quel punto era evidentemente fallita anche la frequentazione disposta per l’estate per dieci giorni consecutivi). Il giudice tutelare indica la modalità per la ripresa degli incontri: alla presenza della madre e di un’assistente sociale. A fronte del fallimento anche di questa modalità, il padre per due volte si rivolge nuovamente al giudice tutelare che conferma la prima decisione (decreto del 23 dicembre 2003 e del 13 marzo 2004). La vicenda giudiziale, che si dipana nei sette anni successivi fino al ricorso alla Corte Edu del 22 aprile 2011, è assai complessa e non sintetizzabile in breve, le decisioni del tribunale minorile di Campobasso e della Corte d’Appello intervengono su più punti: limitazione della potestà genitoriale della madre e affidamento al servizio sociale (30 marzo 2005), prescrizioni di trattamento psicologico alla madre per rimuovere i suoi comportamenti ostacolanti (6 novembre 2006), modifica del regime di affidamento esclusivo e previsione di incontri alternati nelle due città in cui i genitori vivono (10 dicembre 2007), sostegno psicologico alla bambina (27 giugno 2009). Nel corso del 2010 l’interruzione del rapporto tra padre e figlia è praticamente completa; bisogna attendere l’anno successivo perché riprendano incontri che il padre nel ricorso alla Corte definisce “una timida ripresa del rapporto”, troppo segnato dalla vicenda precedente per consentire che si stabilisca tra lui e la figlia una relazione stabile (§ 71)
Questi i passaggi principali di questa vicenda assai complessa.
In questa pronuncia la Corte riprende alcuni argomenti consolidati in tema di violazione dell’art. 8 della Convenzione nel caso di interruzione delle relazioni parentali e fa di questi criteri un applicazione alla vicenda specifica particolarmente duttile ed incisiva proprio per mettere in luce gli snodi critici della vicenda, che sono poi quelli che motivano la condanna.
Appartengono agli argomenti consolidati i passaggi della motivazione che richiamano l’interpretazione dell’art. 8 nella partizione tra gli obblighi negativi che sullo stato incombono e si traducono nel dovere di non ingerenza nella vita privata e familiare, e quelli positivi, non separabili dai primi, che invece impegnano lo stato ad attivare l’intero repertorio dei rimedi disponibili nell’ordinamento interno per ristabilire la relazione genitoriale (§ 84).
Egualmente ricorrente in vicende del genere è lo stretto collegamento che la Corte stabilisce tra il contenuto intrinseco della decisione, raramente oggetto in sé di valutazione, ed il momento in cui il decisum trova effettiva attuazione: nell’ottica della Corte l’adeguatezza della misura è prevalentemente funzione della tempestività con cui la decisione giudiziale trova effettiva attuazione (§ 89, che richiama anche il precedente Piazzi c. Italia, sentenza del 2 ottobre 2010 § 58). In luogo di una concezione lineare del tempo, commisurata alla durata dei procedimenti, la Corte privilegia una concezione del “tempo opportuno” strettamente correlata al momento in cui si consuma la frattura nella relazione genitoriale, segnalando il rischio che si consolidino situazioni difficilmente reversibili. Questo piano dell’analisi consente alla Corte di non entrare nel merito del contenuto delle decisioni via via adottate, che costituisce un limite di apprezzamento in linea di massima rimesso alla discrezione delle autorità giurisdizionali nazionali (non a caso la difesa dello stato anche in questa vicenda ha insistito nel marcare il limite § 75), senza però rinunciare a sottoporre egualmente il sistema istituzionale (non solo giudiziario in questo caso ma anche socio sanitario) ad un test di coerenza particolarmente stringente che ne svela le aporie e le inerzie interne. Il focus dell’analisi si sposta così dall’attività giudiziale di cognizione a quella di attuazione delle pronunce giudiziali, per quanto questa partizione abbia senso in una materia del genere.
Proprio nel rapporto tra decisione e (mancata) attuazione, la Corte individua i momenti deficitari dell’attività giudiziale: quando la Corte si riferisce (§ 92 la stessa critica in Piazzi c. Italia, cit. § 61) all’adozione di una serie di misure “automatiche e stereotipate” - si tratta del passaggio che ha più attirato l’attenzione dei primi commenti – intende segnalare proprio quelle pronunce in cui il sistema giudiziale non tiene conto del fallimento, già consumatosi, nell’attuazione delle decisioni adottate in precedenza e si limita a replicarle senza indagare – e per quanto possibile rimuovere – gli ostacoli frapposti all’attuazione. La stereotipia del sistema riguarda quindi la sua incapacità ad apprendere dagli insuccessi e ad esercitare un controllo effettivo sui soggetti incaricati dell’attuazione (a questo livello si colloca la questione del rapporto tra autorità giudiziaria e servizi socio sanitari).
Ad un’analisi dell’azione giudiziale incentrata sull’efficacia dei rimedi – e quindi sulla complessità del rapporto tra decisione ed attuazione – fa riscontro una rappresentazione delle relazioni familiari altrettanto consapevole della complessità: di qui il richiamo al principio, anche questo ormai parte integrante del patrimonio della giurisprudenza convenzionale sull’art.8, secondo cui l’obbligo positivo della stato non ha carattere assoluto né dall’insuccesso degli sforzi dell’autorità nazionale si può dedurre automaticamente la violazione dell’obbligo. Il carattere non assoluto dell’obbligo deriva dal fatto che “la comprensione e cooperazione di tutti i soggetti coinvolti costituisce comunque un fattore importante” correlato alla considerazione che è necessaria la massima cautela nel far ricorso alla coercizione in questo delicato settore e che l'articolo 8 della Convenzione non autorizza il genitore ad intraprendere azioni pregiudizievoli per la salute e lo sviluppo del bambino (§ 84). Un approccio del genere presenta qualche similitudine con un modello di “giurisdizione mite” perché incentrato non sull’imposizione coattiva della decisione ma sulla comunicazione e sull’appello alla cooperazione dei soggetti coinvolti; comunque un modello nell’accezione convenzionale tutt’altro che debole per il richiamo al controllo esercitato sull’attuazione effettiva delle decisioni.
L’obbligo positivo, se non comporta automaticamente il raggiungimento del risultato, impegna però l’autorità nazionale ad attivare gli interventi preparatori necessari. Per questa ragione la condanna si fonda principalmente sul ritardo nel disporre le misure idonee a creare le condizioni future per l’esercizio effettivo del diritto del ricorrente e sull’omesso controllo sulla loro effettiva attuazione da parte dei servizi sociali incaricati: si tratta delle prescrizioni di trattamento psicologico alla madre impartite dal tribunale minorile solo con il decreto del 6 novembre 2006 e del sostegno psicologico alla bambina deciso dalla Corte d’Appello il 27 giugno 2009 (§ 93).
La pronuncia suggerisce infine una considerazione su un diverso piano, che supera i confini della singola vicenda giudiziale: l’assenza di un processo adeguato per l’attuazione delle decisioni in materia di famiglia e minori, sinora mutuato in parte dall’art.337 c.c. con attribuzione della competenza al giudice tutelare, in altra parte demandato alla stesso organo giudiziale decidente che talvolta procede con l’emissione di pronunce urgenti e provvisorie ai sensi del comma terzo dell’art. 333 c.c., come anche in questa vicenda è avvenuto, costituisce una causa non secondaria del deficit di tutele che le condanne della Corte di Strasburgo stanno in questi anni evidenziando.