Per Michela Murgia
di Fabrizio Filice
Pensate all’uomo più colto che conoscete, uno di quelli che padroneggia ancora perfettamente il latino e il greco, che conosce in modo approfondito la cultura europea e si sa muovere con disinvoltura negli snodi della storiografia, della letteratura, della filosofia e dell’arte, e ovviamente della politica globale.
Uno di quegli uomini abituati a dare lezione, in cattedra come a cena, e
a proposito dei quali normalmente si usano, traslandoli sulla cultura, aggettivi dal vago sentore fallico come “gigantesco”, “immenso”, “enorme”.
Ecco, ora pensate alla risata di Michela Murgia, quella risata contagiosa, gentile e spietata insieme, che ridurrebbe istantaneamente in cenere l’ego di quell’uomo con la semplice considerazione che “tutta” quella cultura, sotto il cui Gotha siamo cresciuti noi europei, non è affatto “tutta” ma solo una parte; la parte che ha vinto, la cultura degli uomini: istituzionalizzata, perpetrata nel tempo e scolpita nelle pietre del Cursus honorum occidentale e che forse per questo, oggi, è anche la parte meno interessante.
Michela Murgia è stata una cultrice appassionata e rigorosa di quell’altra parte, nascosta per millenni dall’oppressione sessuale.
L’ha studiata, se ne è innamorata e soprattutto l’ha divulgata in mille modi diversi.
Il podcast cult Morgana, che Murgia ha condotto negli ultimi anni insieme a Chiara Tagliaferri, è un mirabile esempio di come la cultura pop possa essere usata per la divulgazione del pensiero e del lavoro delle donne: con un linguaggio colloquiale, ironia e intuizioni formidabili, Murgia ci ha condotto per mano dentro tante storie non scritte, oppure scritte solo dal punto di vista maschile, e lo ha fatto trascendendo completamente le regole della cultura patriarcale, prime fra tutte la partizione disciplinare, la dittatura dell’ordine cronologico e l’odiosa divisione “in caste” della cultura.
In Morgana non c’è separazione tra narrativa e letteratura, tra musica e filosofia; non esistono una cultura alta e una cultura bassa, tutto è sessuale e tutto è politico.
Da Maria di Nazaret a Madonna (la pop star), da Ipazia a Marina Abramović sino alle attrici americane che hanno scatenato il Me too e ingaggiato la battaglia per l’Inclusion rider, Murgia ci proietta nelle vite di tante Morgane, donne complesse, visionarie, meravigliose e terribili, donne scomode che, come lei stessa dice all’inizio di ogni puntata, «non sposeresti e non vorresti come amiche ma, mettiti l’anima in pace, non sono mai stati questi i loro obiettivi, loro vogliono piacersi, non compiacerti».
Donne diversissime tra loro che hanno in comune un’unica costante, quella di essere state sistematicamente silenziate e invisibilizzate dalla storia e dalla cultura mainstream in quanto non conformi ai modelli di femminilità riconoscibili e ritenuti socialmente accettabili, spesso anche con la complicità di alcune declinazioni del femminismo occidentale, a tratti più rigido della cultura maschile nel conformare i codici e le regole di una femminilità adeguata, da “brava femminista”, un’etichetta di cui tante, troppe Morgane non sono state ritenute meritevoli.
Ma Michela Murgia non è stata solo una eccezionale divulgatrice pop di cultura femminista e queer, è stata anche una grande scrittrice e una raffinatissima teologa, capace di riprendere in modo inedito, nell’oggi schiacciato sul materialismo, quel magico filo di nesso che lega la teologia alla filosofia e alla politica.
Molto probabilmente quell’uomo di cui abbiamo parlato prima, l’uomo colto, conosce Tommaso d’Aquino e la teologia tomistica ma non conosce l’altra teologia, quella delle donne, le mistiche bruciate sul rogo come streghe, che già nel XIII secolo rifiutavano un Dio sessualizzato e maschilizzato (un Padre, un Figlio e uno Spirito che lega i due: più maschio di così…, scherza Murgia nel recente God save the queer), un Dio inteso come signore onnipotente, da temere e servire, una proiezione ante litteram del padrone hegeliano.
Queste donne credevano invece in un Dio talmente immanente alla natura da manifestarsi nella natura stessa e quindi da Essere la natura stessa, anche la natura umana, intesa soprattutto come sostanza intellettuale.
Con e nell’intelligenza di relazione, con e nell’amore, le persone si amano e amandosi e relazionandosi, scambiandosi anche e trasformandosi, implicitamente amano Dio.
Nei saggi divulgativi Ave Mary, del 2011, e God save the queer, del 2022, Murgia riesce a riprendere e ad attualizzare quel filone teologico, e ci trasporta in una ucronia, invitandoci a pensare cosa sarebbe stato della cultura cristiana e dell’Illuminismo se, quando Cartesio ha cambiato per sempre le sorti della filosofia unendo la fede alla scienza ‒ con la formula del dualismo conoscitivo, che ha spiritualizzato la religione cristiana ‒ non l’avesse fatto avendo come base la religione che aveva vinto, quella di Tommaso e della Chiesa ufficiale, ma quella che aveva perso: l’altra Chiesa, quella delle donne e degli amici delle donne, come Teodorico di Freiberg, quella del Dio che immane alla natura, non è distante in un al di là ma è nel qui e ora, e può capitare nell’esperienza quotidiana, mentale e fisica, di tuttə noi.
Forse anche l’Illuminismo sarebbe stato diverso e in effetti, anche qui, c’è stato un Illuminismo che ha vinto, quello politico e moderato, che ha introdotto l’idea di una comune umanità originale degli uomini (non delle donne) solo per giustificare, immediatamente dopo, la ragionevolezza dei diversi trattamenti riservati agli esseri umani a seconda di come avessero diversamente sviluppato quel self originario e comune a tutti. E così è stato illuministicamente accettato che i popoli con una capacità di produzione, un labour più avanzato, assoggettassero e colonizzassero i popoli più “arretrati”, avendo in fondo il compito di spingere tutta l’umanità verso la “migliore” versione si sé stessa, senza lasciare indietro nessuno. Una tara fondazionale di cui il discorso dei diritti umani risente ancora oggi.
E c’è stato conseguentemente un Illuminismo che ha perso, l’illuminismo radicale, come lo definisce Jonathan Israel in Una rivoluzione della mente, del 2009, strettamente legato a quell’altro cristianesimo di ispirazione unitariana, sprigionato a un certo punto dalla potenza di Baruch Spinoza (lui si azzardò anche a dirlo: Deus sive natura) e subito censurato, scomunicato, per poi essere sostanzialmente eclissato: o meglio studiato sì (almeno Spinoza, che era pur sempre un uomo) ma come un unicum, un a-topos, per lasciare invece spazio al Soggetto della storia, quel soggetto mirabilmente descritto da Hegel, che non rinnega l’unitarietà dell’essere ma pretende di possederla, di afferrarla “dall’alto”, confidando nell’illimitatezza della sua potenza mentale; un soggetto che si è invece abbondantemente riprodotto nella storia, sino a dominare anche la cultura contemporanea.
Lo sguardo delle donne, invisibilizzate dalla storia, non è invece mai stato “dall’alto” ma sempre dal basso, “da qui”.
Quelle che sono le nostre vite, il canone minore della storia, è questo l’unico campo di osservazione.
Ed è questo campo di osservazione che interessava a Michela Murgia, come paradigma teologico ma anche come mondo narrativo. Sono i corpi, questi corpi e queste vite, spesso deludenti e impotenti, non come li avremmo voluti, a dare voce ai suoi romanzi.
I corpi di una madre e di una figlia che madre e figlia non sono, almeno biologicamente, ed esplorano, insieme eppure distanti, la dimensione del fine vita e la pietà dell’Accabadora, la pratica dell’eutanasia che è sempre esistita e, nel silenzio della legge e della Chiesa ufficiale, è sempre stata apprezzata dalle comunità come gesto di pietà e di amore.
I giovani corpi sfruttati e usati come strumenti nei call center de Il mondo deve sapere, sino ai corpi del suo ultimo romanzo, Tre ciotole, corpi che decidono, a un certo punto della vita, che è arrivato il momento di smettere di fingere e di combattere sé stessi. Il momento di lasciarsi andare, finalmente, e di lasciare che i demoni interiori ‒ tante piccole grandi paure, complessi, insicurezze e abbandoni ‒ li trasformino e li plasmino senza riserve, attraverso l’alimentazione, l’ossessione e ovviamente attraverso il sesso, essendo i corpi per definizione corpi sessuati.
Nelle sue storie, nella sua ricerca teologica e anche nelle sue battaglie mediatiche per il riconoscimento dei diritti ‒ quei diritti che, come le sue Morgane, sono fastidiosi e scomodi perché generano conflitti, spesso anche all’interno del mainstreaming liberal e sedicente “progressista” ‒ , Michela Murgia è stata capace di descriverci il mondo come un contesto oppressivo e di continuo schiacciamento dall’alto verso il basso, ma nel quale sono ancora possibili rari, imprevisti e folgoranti momenti ‒ solo momenti, attimi ‒ di accesso alla Grazia: attimi in cui è come se il tempo e soprattutto il moto si fermassero, e noi potessimo inalare un respiro leggero come non lo abbiamo mai provato, e vedere tutto con una lucidità non sperimentata prima: l’ingiustizia immane che, come civiltà in declino, stiamo infliggendo a tante persone, alle generazioni future e al nostro pianeta, e quanto sarebbe in fondo facile porvi rimedio se ci fosse la volontà politica di farlo; sentiamo noi, in questi attimi, quasi una vocazione a farlo davvero, ad assumercene in prima persona, per quello che possiamo, la responsabilità, prima che l’istante finisca e tutto ripiombi nella cappa di potere e di immobilità dalla quale non riusciamo a uscire.
Attimi di Grazia, di sollevazione, che nel suo sconfinato mondo interiore e dialogico sanno assumere anche i tempi comici di una risata, spietata e gentile. Una risata che ci mancherà tanto.
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Ciao, Michela!
di Antonella Di Florio
Dopo la pausa estiva, Questione Giustizia riprende la partecipazione al dibattito politico, etico e giuridico con il ricordo di Michela Murgia, scomparsa prematuramente, dopo una breve malattia, lo scorso 11 agosto.
La scrittrice, intellettuale ed opinionista sarda, ha espresso sempre posizioni determinate e coraggiose sulle questioni relative ai diritti fondamentali della persona.
Il romanzo che l’ha resa nota, Accabadora, racconta la storia speciale di una donna che, secondo una tradizione diffusa nella Sardegna degli anni ’50, è pronta ad entrare nelle case per portare una morte pietosa, come gesto amorevole finalizzato ad evitare la sofferenza ed accettato dalle regole condivise della comunità alla quale appartiene[1].
La fine della vita, presentata come un passaggio dell’esistenza, naturale come il suo inizio, nel quale la persona continua il suo cammino in un’altra dimensione, è stato un punto centrale delle riflessioni di Michela Murgia, mai avvolto da disperazione perché accompagnato dalla condivisione della «legge non scritta per cui sono maledette solo la morte e la nascita consumate in solitudine». La comunità rappresenta un sostegno per tutti.
Questo filo conduttore collega la sua principale opera, che vinse nel 2010 la quarantottesima edizione del premio Campiello per la letteratura, all’ultimo romanzo pubblicato prima della sua scomparsa.
Tre ciotole, rituale per un anno di crisi[2] è composto da dodici racconti che hanno sullo sfondo la narrazione del tempo in cui la scrittrice si è dovuta misurare con la patologia che l’ha colpita e con altri episodi rivelatori di un periodo di crisi.
Il primo racconto descrive in modo illuminante le sue sensazioni nel rapporto con il medico che, per primo, le aveva dato la notizia della malattia: la ricerca della causa e di una eventuale sua responsabilità («Dove ho sbagliato?») e la risposta realistica che le era stata data («Siamo esseri complessi, signora… non credo si possa definire la questione in termini di sbagli suoi. Gli organismi sofisticati sono più soggetti a fare errori. E’ il sistema che ogni tanto si ingarbuglia, la volontà non c’entra») rivelano il senso di colpa che affligge ogni malato ed il bisogno di dare una spiegazione razionale ad un evento per il quale è impossibile trovare un chiaro nesso eziologico. La voglia di dare un nome che personalizzi la definizione “neoplasia” e che la faccia sentire parte di sé (“I am”) mostra il desiderio di prenderne possesso anche con la mente.
Nel prosieguo, i racconti sono una ricerca della complessità attraverso le storie di tanti personaggi che, tutti, si guardano allo specchio con la vita della scrittrice: dividere il cibo nelle “tre ciotole” è la soluzione al senso di nausea provocato da un profondo disagio emotivo per la sofferenza inferta da una separazione perché, in tal modo, si rimettono a posto «tutte le gerarchie fra stomaco e cervello» (secondo racconto); descrivere in modo laico il rapporto con il rifiuto della maternità e dei bambini («educazione è affermare che sei lieta di fare una cosa che non vorresti fare per niente») insieme alla determinazione di mettere il proprio corpo a disposizione di un amico e della sua compagna che, solo in tal modo, potranno avere il figlio tanto desiderato (quinto racconto); narrare, nell’ultimo racconto, la scena del pranzo di addio e dello svuotamento dell’armadio della sorella che, attraverso la descrizione minuziosa degli abiti regalati, fanno pensare al bisogno di organizzare la sua imminente “partenza” per l’altra vita.
Come del resto, Michela ha fatto: restando padrona di se stessa e delle sue idee fino alla fine.
In questo modo sarà meno difficile sentire la sua mancanza, perché il rispetto che ha sempre elargito e preteso l’hanno resa protagonista di uno stile letterario e di vita che rimarrà vivo per sempre e che, pur radicato nella sua Sardegna, ha varcato ogni confine.
Ciao Michela e grazie per le emozioni che ci hai dato!
[1] «Accabadora» in sardo significa “colei che finisce”: il romanzo raccontala storia di una vita e di una terra speciale, dove le persone sono strette fra loro ed alle loro vite quotidiane.
Maria è una bambina “di troppo” in una famiglia che ha poco e, come in molti casi, diventa figlia di anima di Tzia Bonaria Urrai, la sarta del paese che non ha figli. Una donna rispettata e rispettosa. Una di quelle antiche immagini di cui non era facile capire quanti anni avesse perché «[…] erano anni fermi da anni, come fosse invecchiata d’un balzo per sua decisione e ora aspettasse paziente di essere raggiunta dal tempo in ritardo».
La povertà della madre di Maria e la sterilità di Bonaria, creano un legame in cui i grandi silenzi, gli spazi lasciati inesplorati diventano ogni giorno più forti. Una famiglia non di sangue che vive in mezzo alle stoffe della sarta e allo sguardo di Maria che, giovane, ascolta la voce di Tzia Bonaria anche se spesso non ne capisce il senso, ma ascolta consapevole che «[…] non tutte le cose si ascoltano per capirle subito».
Tutto sembra scorrere ma qualcosa sfugge alla piccola Maria, ancora incapace di cogliere i particolari che si nascondono negli sguardi degli adulti: ma una notte, quando la piccola aveva otto anni e mezzo, sente rumori e vede Tzia uscire nell’oscurità accanto ad un uomo alto, nero in volto e sentirsi subito ammonire dalla figura della “madre”: «Torna in camera tua». Cosa aveva fatto e cosa faceva Tzia Bonaria? Perché si alludeva sempre a lei con timore reverenziale nelle chiacchiere di paese e tra amici?
I giorni di Bonaria Urrai si fondono così con quelli di Maria, insieme a molte delle cose che accadranno e che trasformano la storia di una donna nella voce di due donne.