Giuseppe Marotta fa l’ufficiale giudiziario. È laureato, ma non in giurisprudenza. È “napoletano” (di Pompei), ma vive e lavora a Milano senza perciò fare la caricatura a Totò. È uno che prende sul serio il suo lavoro, che pure non gli piace, e ogni giorno esce di casa sapendo di dover entrare nell’inferno degli altri. Un luogo di disperazione dove se va bene si firmano solo verbali, ma se va male sono minacce, botte, scene da apocalisse, forza pubblica, fabbro, ambulanza.
Il sottotitolo di Sfrattati avverte: entro nella vita delle persone per farle uscire di casa. Si potrebbe pensare di avere tra le mani un libro noioso, ripetitivo, farcito di tecnicismi, arido.
La sorpresa è quella di incontrare un vero scrittore, con lo stile e i tempi del narratore, che chiama gli esecutati suoi “clienti” (a rigore, il cliente dovrebbe essere il creditore procedente) e che, consapevole di dover applicare il codice di procedura (del quale probabilmente conosce qualcosa del libro III), si impegna quotidianamente nella ricerca di soluzioni che, compatibili con quel codice, “personalizzino” l’esecuzione in modo da renderla tollerabile. Ciò non avviene sempre – c’è lo sfrattato che si chiude in bagno e si spara, perché non ha trovato il coraggio di dire alla famiglia che la casa è persa – ma avviene comunque di regola: e i clienti, che pure debbono subire la violenza dello sfratto, a volte addirittura, al termine del trattamento, lo ringraziano.
Ogni storia è diversa dall’altra, e la tensione della lettura cresce. E ti rendi conto che non è possibile ottenere da qualcuno l’abbandono dell’abitazione senza prima entrare nella sua vita, capire come si è arrivati a quel punto, suggerire possibili alternative, offrire un aiuto. Quasi tutti gli sfrattati chiedono aiuto all’ufficiale giudiziario, al quale danno del tu sperando che diventi rapidamente loro amico. Il paradosso è che la persona col compito istituzionale di sbatterli fuori è, per loro, un amico che non potrà non aiutarli. È l’ultima istituzione pubblica prima di scivolare nel totale abbandono.
I clienti sono tutti dei disperati: extracomunitari, balordi, poveracci colpiti dalla “triplice” (nell’ordine: perdita del lavoro, della famiglia e della casa), vittime della giustizia non soltanto perché sfrattati ma perché non hanno avuto tempestiva tutela dei loro diritti e il mancato recupero dei loro crediti li pone nella condizione di perdere tutto. L’inefficienza della giustizia fa vittime a caso, rende l’esecutato esecutante e viceversa. Chi perde tutto a volte si spara, a volte muore d’infarto: Marotta racconta del caso in cui d’infarto muore prima il marito e poi la moglie e per quest’ultima l’infarto è la spiegazione che fa più comodo a tutti perché impedisce di vedere che un aiuto, forse, la signora alla fine se l’è dato.
Le trattative coi clienti sono estenuanti: a volte avvengono a casa in occasione degli accessi, a volte nell’ufficio di Marotta ove gli esecutati si recano alla caccia del miracolo. Pregano, minacciano, mentono, blandiscono, promettono, barano, si disperano, si umiliano, sono disposti a tutto pur di non perdere il bene primario della casa. E anche tra loro i disperati non sono tutti uguali: chi viene sfrattato dal privato per morosità può forse ancora trovare un alloggio del Comune, può chiedere aiuto agli assistenti sociali; ma chi perde la casa del Comune ha solo l’alternativa della strada. E di questi tempi sempre più disperati si ritrovano per strada, e la casa manco la cercano più.
Al primo accesso si sa che non si sfratta. E neanche al secondo. Le visite dell’ufficiale giudiziario sono una via della croce che serve soprattutto a convincere lo sfrattato ad andarsene in pace, senza danni, senza la forza pubblica. Ma per ottenere questo lo si deve convincere, serve tempo, e la convinzione non verrà certo dalla lettura del provvedimento del giudice che dispone lo sfratto: il giudice vive su un altro mondo, è a tutti gli effetti l’esponente d’un altro mondo. La consegna delle chiavi è il miraggio cui tendono atti, verbali, sottoscrizioni, moduli, avvisi.
Puoi incontrare il camorrista che chiama in aiuto la famiglia e ti minaccia offrendoti da bere, l’extracomunitario che se ne va dopo un imprecisato numero di accessi ma non senza aver distrutto l’appartamento il cui canone per anni non ha pagato e che all’inizio aveva pagato in nero. A volte la lotta è tra il ricco e il povero, a volte tra forme diverse di povertà perché esistono proprietari schiacciati dalle spese condominiali, dalle tasse, dalle proprie personali vicende e che rischiano di perdere a loro volta il bene, se non percepiscono il canone che serve a pagare il mutuo.
Al centro di questi conflitti è l’ufficiale giudiziario, un mestiere ingrato in mezzo a tante diverse conoscenze: la legge, certo, ma insieme ad essa tante altre cose che appartengono alla natura umana, spesso tra loro in conflitto, ma che consentono di andare avanti e potersi conquistare i quindici giorni d’estate con la famiglia in riviera romagnola a spingere sul pedalò, sognando vacanze in terre lontane. Sognando un lavoro diverso: di scrittore, di pubblicitario, qualcosa che sia un po’ più lontana dal dolore.
Sfrattati è un libro talmente drammatico da apparire leggiero. È la testimonianza di chi la realtà la vede tutti i giorni in faccia, e assai spesso si tratta di facce che nessuno vorrebbe mai vedere; e che, anche volendo, non riesce a vedere perché qui i riflettori restano sempre spenti. Lo spettacolo riguarda molti, ma non interessa nessuno.