Magistratura democratica
Corti europee e Corti internazionali

Sistemi fiscali europei e diritti fondamentali: i casi Ungheria e Belgio

di Alberto Marcheselli
Professore Associato di Diritto Finanziario e tributario Univ. di Genova e Torino
Una riflessione sulla fiscalità pubblica, a partire da due recenti sentenze della Corte Costituzionale belga e da una sentenza Cedu, sulla legittimità dei poteri di indagine della locale amministrazione
Sistemi fiscali europei e diritti fondamentali: i casi Ungheria e Belgio

Due recenti sentenze della Corte Costituzionale belga (reperibili qui e qui) e la sentenza Cedu 14 maggio 2013, N.K.M. vs Ungheria) sulla legittimità dei poteri di indagine della locale amministrazione fiscale e sui limiti massimi della tassazione e la sua applicazione retroattiva, sono molto interessanti, sia nella prospettiva internazionale, sia per le possibili ricadute sulla riflessione interna sulla giustizia della fiscalità e finanza pubblica.

Esse sono un evidente “rimbalzo” delle rinnovata politica di giusta attenzione alla efficace riscossione dei tributi che sta attraversando, sostanzialmente, tutto il mondo occidentale e consentono di formulare una serie di riflessioni su profili che, in tempi di prosperità economica, sono sempre rimasti lontani dall’indagine, ma che, in tempi di crisi e contrazione delle risorse, si avviano ad assumere un rilievo tutt’altro che trascurabile.

Fino a qualche anno fa parlare di fiscalità e diritti fondamentali sarebbe apparso, infatti, un approccio elitario, se non bizzarro.

Al momento, invece, si tratta di argomenti di non trascurabile peso e non è un caso che in interventi ufficiali sui lavori della Corte Edu non sia mancato qualche riferimento alla necessità di buttare un occhio proprio sul settore della Fiscalità nel periodo della crisi economica.

In una duplice direzione: l’efficacia del sistema tributario garantisce allo Stato i mezzi per lo svolgimento dei servizi essenziali e l’adempimento dei doveri di solidarietà, che sono il presupposto per il concreto riconoscimento dei diritti fondamentali. Ma non va dimenticato che, a contraltare, gli Stati che non hanno saputo governare efficacemente il sistema finanziario e tributario, perdendone il controllo per effetto di scelte politiche rivelatasi errate (o coatte), se non frutto di colpevole disattenzione o compiacenza, corrono, in periodi di ristrettezze, il pericolo di non saper procedere equamente, ledendo i diritti fondamentali anche nelle manovre correttive (come emerge in modo evidentissimo nella sentenza della Cedu sulla manovra correttiva Ungherese).

Il pericolo di un circolo vizioso malgoverno -> insipienza tecnica -> incapacità attuare meccanismi e correttivi equi -> aggravamento delle disuguaglianze –> lesione dei diritti fondamentali, è serio e concreto.

Le due sentenze belghe ritengono, a mio avviso del tutto giustamente, ingiustificati i timori dei contribuenti e della associazioni ricorrenti (e, in parte, strumentali le relative difese), ma pongono una serie di questioni molto interessanti: esse, se ben comprese, possono servire a sdrammatizzare le tensioni che continuano ad agitare la fiscalità e la finanza pubblica (e verosimilmente sempre più le agiteranno) e contengono vere e proprie stelle polari per un Fisco che sia contemporaneamente severo ed efficiente, ma giusto e serio.

Intanto, su un piano quasi pregiuridico, esse affrontano due questioni molto interessanti.

La prima è quella immanente alla difesa di uno degli attori che, con molta icasticità, contestava che, se la finalità del sistema fiscale è, come talora si sostiene, la prosperità economica dello Stato, non è affatto detto che regole di trasparenza siano congrue allo scopo.

Con argomentazione sul filo della provocatorietà, ma estremamente thought provoking, si osserva che, se il valore fosse attrarre ricchezza, è più facile che attraggano investitori esteri regole che scoraggino la trasparenza più che non il contrario.

L’argomentazione suona forse cinica, ma è piuttosto esatta in termini empirici e molto importante in termini assiologici.

È vero che Stati “canaglia” possono arricchirsi attraendo capitali (illeciti e non) proprio attraverso l’offerta di opacità. Ed è soprattutto vero che, se un fantasma si aggira per l’Europa (e non solo), esso è oggi quello della “monetarizzazione ossessiva”. Si stanno perdendo di vista tutti i valori non misurabili in termini economici e quella difesa, nella sua brutalità, ha il pregio di mettere il dito nella piaga e dire che “Il Re è nudo”. La giustificazione dei tributi non è il benessere economico dello Stato (men che meno di uno Stato che solo una visione distorta potrebbe contrapporre alla sua Comunità), ma l’attuazione dei servizi essenziali attraverso l’adempimento dei giusti doveri di solidarietà. Lo scopo della Finanza Pubblica non è arricchire (altrimenti qualsiasi mezzo sarebbe lecito), ma procacciare i mezzi dei servizi pubblici, facendoli pagare il giusto a tutti, secondo i parametri del giusto sacrificio e la correlazione al beneficio.

Il tributo non è distruzione di ricchezza ma è uno strumento di benessere ANCHE economico, da attuarsi secondo GIUSTIZIA, sia nel prelievo che nella distribuzione, entrambi rigorosi, efficaci e proporzionati.

La seconda è che la Corte conferma che imporre al sistema bancario e finanziario di collaborare all’accertamento dei tributi, “lavorando per il Fisco” (così come, per i datori di lavoro e i sostituti di imposta in genere, collaborare effettuando le ritenute sui compensi e versandole allo Stato), ben lungi da contrastare con il divieto di lavoro forzato o coattivo (come invece assai immaginosamente sostenuto dalle difese), sono anche essi, se ragionevolmente disciplinati, adempimento del dovere di solidarietà.

La chiave è sempre quella della proporzione: imporre a chiunque versi un compenso ad altri di farsi garante e guardiano della compliance fiscale altrui sarebbe inaccettabile, e la Corte di Giustizia Ue lo ha spesso ribadito (implicherebbe, per portare l’argomento all’estremo paradossale exempli causa, che ciascun cittadino facesse la spesa al mercato con il commercialista al seguito, con oneri sproporzionati e vessatori). Ma che strutture professionali organizzate (banche, aziende, ecc.) prestino la loro collaborazione, adeguatamente riconosciuta, è doveroso.

Nel merito giuridico poi, le sentenze riguardano essenzialmente il segreto bancario e sono sollecitate in riferimento a una serie di questioni e, in particolare: a) se la riservatezza sui dati bancari rientri nel più ampio spettro della tutela della vita privata: b) se e in quale misura la riservatezza della vita privata debba cedere rispetto agli interessi finanziari dello Stato; c) se e in che misura il contribuente possa opporre alle indagini il suo diritto al silenzio.

Preliminare a questi interrogativi si pone poi la questione se il contribuente possa trarre principi per la sua tutela, oltre che dalle norme, anche costituzionali, interne, dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e dalla giurisprudenza della relativa Corte.

Su quest’ultimo punto, la Corte è assolutamente netta: anche le indagini fiscali debbono rispettare i limiti e principi della Carta di Strasburgo. È utile sottolineare questa affermazione, che corrisponde a una curiosa, a nostro avviso, asimmetria della giurisprudenza della CEDU. Essa, da un lato, assume pacificamente che anche potere fiscale dello Stato possa essere vincolato al rispetto di limiti corrispondenti ai diritti fondamentali dell’Uomo, quali il nucleo essenziale della proprietà.

Tale orientamento ha avuto una conferma di rilevante importanza nella terza sentenza considerata (Cedu, 14 maggio 2013, 66529/11, N.K.M. vs Ungheria).

Essa concerne il caso in cui uno Stato, per asserite ragioni di moralizzazione (che osterebbero a retribuzioni eccessive dei pubblici dipendenti) e per ragioni di aggiustamento del bilancio, aveva introdotto l’aliquota marginale del 98% (e quella media del 52%) sulle buonuscite spettanti alla cessazione del rapporto di lavoro dei pubblici impiegati, comprese quelle già maturate.

La Corte, pur ribandendo che gli Stati sono titolari di ampia autonomia nella politica fiscale e che le manovre correttive di budget e anche la sobrietà dei pubblici impiegati possono essere obiettivi di pubblico interesse, ritiene comunque lesivo dei diritti fondamentali (in particolare la legittima aspettativa al godimento della buonuscita) un prelievo tributario così elevato e, contemporaneamente applicato sulle rendite già maturate. Viene leso in modo sproporzionato il diritto patrimoniale, creata una situazione di difficoltà esistenziale e rotto il patto di fiducia, oltre che tra Stato cittadino, tra funzionario e amministrazione.

Per altro verso le sentenze belghe riconoscono che le indagini fiscali possono impattare sul valore, tutelato della riservatezza, di cui è causa.

La stessa Corte, invece, ha finora negato che al processo tributario si applichi la clausola del giusto processo di cui all’art. 6 della Carta: considerando il rapporto tributario espressione di “sovranità”. In effetti, forse questa ultima giurisprudenza potrebbe avviarsi a una parziale rimeditazione: se, sia pure in casi eccezionali, il potere fiscale può ledere i diritti fondamentali dell’uomo e, quindi, essere censurato il suo esercizio, non sembra (più) giustificato ritenere che i giudizi interni che devono assicurare tutela (anche) di quei diritti non siano vincolati al principio del giusto processo (come invece affermò la CEDU nel caso Ferrazzini). Il carattere illimitato e sovrano della potestà tributaria non sembra poter più giustificare la deroga all’art. 6 della Carta.

Quanto agli altri profili le sentenze belgghe osservano, innanzitutto, che, dai dati bancari, specie alla luce della attuale diffusione di forme di pagamento tracciabili, risultano sicuramente informazioni estremamente penetranti sulla vita privata del contribuente e, quindi, perforare il segreto bancario significa entrare nella sfera privata.

Ciò tuttavia, è consentito se: a) è legale: avvenga in base a disposizioni di legge che consentano di evitare l’arbitrio incontrollato; b) è proporzionato avvenga in situazioni e con modalità che possano ritenersi ragionevoli.

Anche questa parte delle decisioni è molto interessante, anche nella prospettiva italiana: è evidente che le questioni sottese sono esattamente le medesime che si stanno agitando in Italia, per esempio, rispetto alla legittimità del c.d. nuovo redditometro, e proprio in rapporto al diritto alla vita privata. Ma identiche considerazioni potrebbero estendersi alla trasmissione automatica all’Anagrafe tributaria di tutti i dati di tutti i conti correnti, ecc.

Le sentenze belghe valorizzano, per ritenere legittimo il sistema, le seguenti circostanze:

  1. l’ingresso nella sfera privata è agganciato a presupposti individuabili stabiliti dalla legge: la sussistenza di indizi di frode fiscale o comunque un tenore di vita che faccia ragionevolmente sospettare evasione fiscale.

  2. Tali indizi trovano una ampia, anche se non esclusiva, esemplificazione nei lavori preparatori della legge;

  3. Il contribuente, salvo il motivato e individuato pericolo di insolvenza fraudolenta, deve essere preventivamente sentito con una richiesta motivata;

  4. Il contribuente ha diritto di rivolgersi immediatamente a un giudice che verifichi la fondatezza degli indizi che devono giustificare l’indagine;

  5. Sugli atti acquisiti deve essere mantenuto il segreto.

  6. Che il sistema bancario fornisca tali dati non costituisce un aggravio sproporzionato della sua attività e, anzi, una doverosa collaborazione.

In presenza di tali circostanze, la deroga alla riservatezza è legittima.

E’ interessante osservare che, spostandosi nella prospettiva italiana, devono rilevarsi almeno due differenze. La prima è che né l’indagine bancaria né la raccolta sui dati della spesa sono in Italia ricollegati a indizi di frode o evasione desunta aliunde (ma possono essere fonti di innesco dei controlli). La seconda è che è fortemente discusso che esista la possibilità di agire in via urgente e in via inibitoria per per la tutela dei diritti del contribuente nella istruttoria. In effetti la giurisprudenza della CEDU lo ammette (caso Ravon), ma il riconoscimento di tale possibilità è stato finora isolato (la nota ordinanza del Tribunale di Napoli, Sez. di Pozzuoli, in tema di redditometro).

Non solo, dai lavori preparatori della legge belga si desume una casistica molto analitica e concreta dei possibili presupposti delle indagini fiscali, assente in Italia, ove il processo di produzione legislativa mostra un analfabetismo tecnico di ritornosconfortante e i lavori preparatori sono troppo spesso raccolte di rivendicazioni ideologiche o istanze burocratiche nettamente sganciate dalla realtà.

Se questi devono ritenersi i presupposti di legittimità condizionanti la proporzionalità dei poteri del Fisco, la situazione italiana, si presenta piuttosto critica e lacunosa. Il punto è, pertanto, tutto da approfondire.

Non viene, invece e infine, sviluppato un ulteriore profilo: quello se il contribuente possa opporre alla indagine tributaria il suo diritto di tacere. Ciò per il fatto che i dati di cui si discute vengono, in effetti, richiesti alla banca (e non al contribuente), cui l’interessato li ha conferiti senza costrizione.

Per quanto non rilevante nella fattispecie il problema è, invece, grave e serio: secondo la giurisprudenza Cedu è da ritenersi illegittima ogni norma che faccia conseguire delle sanzioni alla condotta di chi ometta di collaborare con l’Autorità, quando la sua collaborazione contribuirebbe alla propria incriminazione. Non mancano, in effetti, norme (ad esempio quelle sulle conseguenze della omessa o mendace risposta ai questionari o adempimento alle richieste di trasmissione di atti e documenti), che appaiono in possibile contrasto con tali principi, e che verosimilmente torneranno alla attenzione dei giudici, interni ed europei.

 

05/06/2013
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