1.- Con la sentenza 6.3.2014 la Corte di Giustizia CE risponde alle domande pregiudiziali sollevate dal Tribunale di Trento (ord. 20 settembre 2012) in merito ai dubbi di compatibilità con la direttiva europea in tema di trasferimento di parte di azienda (direttiva del Consiglio 1 marzo 2001, n. 2001/23/CE), ed allo scopo di sapere:
a.- se quella normativa osti ad una norma interna, come quella dettata dall’art. 2112 co. 5 cod. civ., che consentirebbe, secondo il Tribunale di Trento, la successione del cessionario nei rapporti di lavoro del cedente, senza necessità del consenso dei lavoratori ceduti, anche qualora la parte di azienda oggetto del trasferimento non costituisca un’entità economica funzionalmente autonoma già preesistente al trasferimento, tanto da poter essere identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento;
b.- e se osti ad una norma interna, come quella dettata dall’art. 2112 co. 5 cod. civ.per come interpretata dal giudice a quo, che consente la successione del cessionario nei rapporti di lavoro del cedente, senza necessità del consenso dei lavoratori ceduti, anche qualora l’impresa cedente eserciti dopo il trasferimento un intenso potere di supremazia nei confronti della cessionaria che si manifesti attraverso uno stretto vincolo di committenza ed una commistione del rischio di impresa.
Nel caso in questione avanti quel tribunale, il giudice aveva pure accertato che la funzione trasferita era stata istituita soltanto poco più di due mesi prima della sua alienazione e che dopo la sua istituzione e finanche dopo l’atto di cessione, erano seguitati i rapporti di collaborazione con la struttura preesistente, al punto che l’alienante aveva impartito disposizioni in tema di limiti di spesa e di parametri di qualità dopo la cessione.
2.- Va premesso che a chi scrive sembra che il caso potesse essere deciso senza dover procedere al ricorso alla procedura di interpretazione pregiudiziale davanti alla Corte di giustizia ex art. 234 CE ; dovendo il giudice di merito (europeo) operare una interpretazione della normativa interna alla luce di quella comunitaria, in coerenza con la giurisprudenza della Corte di Giustizia; ed in base alla quale non sembra cheche l’art.2112 comma 5 c..c, correttamente interpretato, consenta di fare tutto quello che è stato prospettato ai fini della questione pregiudiziale ovvero un trasferimento di ramo autonomo pur in difetto di preesistenza e di indipendenza funzionale ed organizzativa.
3.- La sentenza della Corte risponde al giudice del merito sostenendo che la direttiva Europea non osta ad una disciplina interno sul tipo di quella prospetta a fondamento della questione (per come interpretata dal giudice a quo) e la decisione se non ben compresa potrebbe apportare elementi di equivocità e di difficoltà su un tema già caratterizzato da una elevata fluidità dei parametri di giudizio. Potrebbe riaccendere perciò molte dispute sulla legittimità della cessione di rami d’azienda privi di qualsiasi autonomia organizzativa e funzionale, requisito che pur il nostro art.2112, 5 comma c.c. continua a prescrivere per la cessione del ramo senza consenso dei lavoratori stabilendo, ancora, che occorra accertare la cessione di “parte dell'azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata”. Si disputava solo se esso continui a richiedere la preesistenza, dopo le modifiche apportate alla normativa ad opera della legge 276/2003 art. 32.
4.-- Ora quanto all’autonomia e preesistenza del ramo, la sentenza della Corte da una parte dice e ribadisca in più punti (30-34) che secondo la direttiva il ramo deve godere “anteriormente al trasferimento, di un’autonomia funzionale sufficiente”. E perciò occorre anche la preesistenza.
In particolare al punto 34: Infatti, l’impiego, al citato articolo 6, paragrafo 1, primo e quarto comma, del termine «conservi» implica che l’autonomia dell’entità ceduta deve, in ogni caso, preesistere al trasferimento. Poi però al punto 42 conclude dicendo l’esatto contrario: Ossia “che l’articolo 1, paragrafo 1, lettere a) e b), della direttiva 2001/23 deve essere interpretato nel senso che non osta ad una normativa nazionale, come quella oggetto del procedimento principale, la quale, in presenza di un trasferimento di una parte di impresa, consenta la successione del cessionario al cedente nei rapporti di lavoro nell’ipotesi in cui la parte di impresa in questione non costituisca un’entità economica funzionalmente autonoma preesistente al suo trasferimento”.
5.- Sulla diversa questione della dipendenza del ramo ceduto dal cedente, ovvero sul fatto che, dopo il trasferimento del ramo il cedente eserciti un intenso potere di supremazia nei confronti del cessionario; la Corte sostiene che l’esistenza di un cordone ombelicale che leghi il cessionario al cedente non è vietato della direttiva, anzi. E che perciò “uno stretto vincolo di committenza ed una commistione del rischio di impresa, non può costituire, di per sé, un ostacolo all’applicazione della direttiva 2001/23”.
E ricorda, perciò la Corte “l’obiettivo di tale direttiva, che è di garantire, per quanto possibile, il mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di cambiamento dell’imprenditore, consentendo loro di rimanere al servizio del nuovo imprenditore alle stesse condizioni pattuite con il cedente (sentenza Allen e a., cit., punto 20).”
6.- Ora secondo la nostra interpretazione l’articolazione autonoma non è solo la funzione in quanto tale (l’attività); ma anche la funzione concreta, in atto, al momento della cessione e dopo. Ed “autonoma” significa in grado di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi, funzionali ed organizzativi. Significa autonomia nel funzionamento e nell’organizzazione.
Il ramo ceduto non può dipendere quindi per la funzione e per l’organizzazione dal cedente; altrimenti non può essere inteso come articolazione autonoma. Se un’attività continui a dipendere in tutto e per tutto dal cedente significa che non si è ceduto un’articolazione autonoma, ma un gruppo sparuto di persone e/o di beni (suscettibile di essere esposto ad una successiva potenziale condotta liquidatrice ad opera dello stesso cedente che ha mantenuto nelle proprie mani la sfera decisionale).
7.- In conclusione va osservato che questa sentenza non si possa capire se non si tiene conto dell’eterogenesi dei fini che si è prodotta all’interno di una normativa che rispetto alla regola originaria volta a stabilire la garanzia del trapasso del rapporto di lavoro insieme all’azienda (intera); vede oggi prevalere, nella disciplina del ramo d’azienda, l’interesse opposto aziendale volto ad agevolare processi di esternalizzazione di singoli segmenti cui si contrappone l’interesse dei lavoratori di rimanere alle dipendenze dei datori cedenti.
La sentenza della CGCE si è posizionata nell’ottica della prima esigenza, volendo dire che è un bene per i lavoratori passare al lavoro (senza consenso) presso un nuovo cessionario; ed è per questo che la direttiva viene ora intesa nell’ottica di agevolare qualsiasi sorta di trapasso (anche senza autonomia e senza indipendenza).
Non si è invece tenuto conto che l’esigenza che muove al giudizio in Italia (anche nel caso di quello a quo) è quasi sempre opposto: ossia impedire il trapasso di pezzetti di aziende e di gruppi di lavoratori che temono da lì a poco il licenziamento o comunque che vedono peggiorata la propria condizione di lavoro.
La sentenza in commento può essere letta qui