La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo il 15.9.16 ha definito il giudizio promosso contro la Repubblica italiana da Giorgioni Ezio che, in virtù dell’articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, aveva adito la Corte il 26 giugno 2010 per vedere tutelati e riconosciuti i propri diritti di padre nei confronti del figlio.
IIl ricorrente sosteneva che, nonostante durante la vicenda giudiziaria tra lui e la madre della bambina fossero state pronunciate diverse decisioni dei Tribunali aditi in cui veniva riconosciuto il diritto di visita del padre e le modalità di esercizio del medesimo diritto, il rapporto padre-figlio di fatto non era stato garantito e tutelato rispetto alle ingerenze della madre.
Il Giorgioni contestava alle autorità interne di non aver esercitato, pur essendone obbligate, un controllo costante sul rispetto del suo diritto di visita, e di avere tollerato, unitamente ai servizi sociali incaricati, il comportamento della madre. In specifico il ricorrente contestava alle autorità interne di non aver preso delle misure positive che gli avrebbero consentito di esercitare il suo diritto di visita e di instaurare una relazione significativa con il figlio.
La Corte, dopo un particolareggiato excursus sulla vicenda giudiziaria intercorsa dinanzi ai tribunali nazionali tra il Giorgioni e la moglie (2006-2016), avente ad oggetto, prima, la separazione tra i coniugi e, poi, le azioni promosse dal Giorgioni al fine di potere esercitare effettivamente la propria responsabilità genitoriale sul bambino, ha condannato l’Italia per non avere adottato tutte le misure necessarie affinché, a fronte del forte ostruzionismo manifestato dalla madre, il padre potesse esercitare effettivamente i suoi diritti di genitore.
In particolare la Corte ha ritenuto che almeno per i primi quattro anni, dal 2006 al 2010 del contenzioso tra gli ex coniugi, le doglianze del Giorgioni fossero fondate e si fosse realizzata la violazione dell’8 della Cedu ( “Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare (...) 2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute e della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.”)
Secondo la Corte, infatti, l’articolo 8 della Convenzione ha sì essenzialmente lo scopo di tutelare la persona contro le ingerenze arbitrarie dei pubblici poteri, ma esso non si limita a imporre allo Stato di astenersi da simili ingerenze; a questo impegno negativo possono aggiungersi obblighi positivi inerenti a un rispetto effettivo della vita privata o famigliare. Tali obblighi possono implicare l’adozione di misure volte al rispetto della vita familiare, incluse le relazioni reciproche fra individui, tra cui la predisposizione di strumenti giuridici adeguati e sufficienti ad assicurare i legittimi diritti degli interessati, nonché il rispetto delle decisioni giudiziarie ovvero di misure specifiche appropriate. Peraltro, sempre secondo la Corte, gli obblighi positivi non implicano solo che si vigili affinché il minore possa raggiungere il genitore o mantenere un contatto con lui, bensì comprendono anche tutte le misure propedeutiche che consentono di giungere a tale risultato.
La Corte, dunque, nella propria pronuncia ha delineato con chiarezza quali sono gli obblighi che gravano sui singoli Stati a tutela dei diritti della persona rispetto ai legami affettivi e familiari, specificando che si tratta di obblighi di carattere non solo negativo e di non ingerenza, ma anche, e soprattutto, di natura positiva, di rimozione degli ostacoli alla effettiva realizzazione dei medesimi diritti.
Sulla base di tali principi la Corte ha quindi ritenuto che dall’agosto 2006 al novembre 2010, nell’ambito della vicenda giudiziaria esaminata, la violazione lamentata si fosse realizzata perché, malgrado l’evidente comportamento ostruzionistico della madre e le richieste avanzate dal padre di garantire che gli incontri con il figlio non avvenissero alla presenza della figura materna, il tribunale si era limitato a prescrivere alle parti - con una formula di fatto vuota e priva di significato giuridico - il rispetto delle decisioni prese, lasciando così il destino del rapporto genitoriale padre figlio alla volontà e alle decisioni della madre. Secondo la Corte sarebbe stata necessaria una risposta rapida rispetto a tale situazione, in quanto, in questo tipo di cause, il trascorrere del tempo non può che avere effetti negativi sulla possibilità che il rapporto in pericolo possa riprendere e consolidarsi.
Nel caso di specie, invece, la risposta delle autorità interne fu debole, lenta e non adeguata al caso concreto, tanto che di fatto venne tollerato per circa quattro anni che la madre, con il suo comportamento, impedisse l’instaurarsi di una vera relazione tra il ricorrente e suo figlio. Vennero adottate solo una serie di misure del tutto automatiche e stereotipate, quali richieste successive di informazioni e una delega del monitoraggio della famiglia ai servizi sociali che prevede l’obbligo per questi ultimi di far rispettare il diritto di visita del ricorrente; tali misure di dimostrarono assolutamente inadeguate alla tutela dei diritti in questione, che invece richiedevano uno specifico intervento sulla costante ingerenza della madre nel rapporto agli incontri padre-figlio.
Solo dopo il 2010, secondo la Corte, le autorità interne, anche alla luce delle parole che - finalmente - il minore poté esprimere in sede di ascolto sul desiderio di passare più tempo con il padre, adottarono le misure necessarie a garantire tale rapporto, organizzando gli incontri senza la presenza della madre. Proprio per tale ragione la Corte rispetto a tale periodo di tempo ha escluso la sussistenza della violazione lamentata.
Appare evidente che secondo la CEDU la tutela dei diritti della persona nell’ambito dei rapporti familiari ed affettivi per essere effettiva non può che passare, da un lato, per decisioni calate nel caso concreto, in cui non ci si limiti ad una astratta e generica regolamentazione dei rapporti tra le parti interessate, dall’altro, per l’adozione immediata da parte delle Autorità interne di strumenti di intervento che permettano di tutelare il genitore più debole, perché non collocatario del figlio, nonché il diritto dello stesso figlio a mantenere un rapporto con entrambi i genitori.
La Corte in tale pronuncia non ha, rientrando questo nella competenza dei singoli Stati, indicato nello specifico quali sarebbero state le misure adeguate che avrebbero dovuto essere poste in essere nel caso concreto, tuttavia appare evidente, a chi quotidianamente si occupa del contenzioso in materia di famiglia, quali siano gli strumenti giuridici a cui il giudice interno, attingendo al diritto interno sostanziale e processuale, può, anzi deve, fare ricorso per garantire una tutela effettiva.
In primo luogo l’ascolto del bambino, direttamente o indirettamente, permette di comprendere quali sono i suoi desideri e le sue paure, nonché quali sono i suoi sentimenti rispetto ad entrambe le figure genitoriali.
Va verificata la necessità di affidare ad uno specialista una puntuale valutazione delle capacità genitoriali delle parti e delle condizioni psicologiche del minore all’interno di un subprocedimento di CTU. Ove in seno alla CTU o in seno all’ascolto emerga la necessità di superare delle criticità relative alle capacità genitoriali delle parti, deve essere prescritto ai genitori di partecipare a percorsi di sostegno alla genitorialità organizzati presso i servizi sociali sul territorio o suggerito un percorso di mediazione, con eventuale anche sospensione delle decisioni in ordine all’affidamento.
E ancora, appena ricorrono sufficienti elementi per regolamentare i rapporti in contestazione, debbono essere adottati i provvedimenti provvisori sull’affidamento e sul diritto di visita, al fine di verificare nel corso del processo e della prosecuzione della attività istruttoria, se detti provvedimenti risultano rispettati e se i percorsi di sostegno raccomandati sono stati intrapresi.
Quando non vi sia collaborazione delle parti o di una loro, il diritto di visita del genitore in difficoltà deve essere disciplinato in modo puntuale, con specifiche prescrizioni in ordine alla sua attuazione, anche facendo ricorso alla collaborazione dei Servizi per evitare le pressioni e le ingerenze dell’altro genitore.
Ed infine il Giudice deve trarre dal contegno processuale delle parti elementi per arrivare alle determinazioni finali in punto di affidamento e collocamento del minore, nonché ricorrere agli strumenti previsti a tutela del minore ex art. 709 ter cpc.
Tutto ciò in ogni caso deve o tradursi in una risposta celere e tempestiva, poiché il trascorrere del tempo senza che il rapporto affettivo da proteggere possa esprimersi in maniera libera e serena, determina, come sottolineato più volte dalla Corte, necessariamente il consolidarsi di situazione familiari disfunzionali, di sentimenti, sia nei genitori che nei figli, di sfiducia nei confronti degli altri soggetti coinvolti nella relazione nonché degli operatori del settore che, invece, dovrebbero rispendere alla domanda di tutela e supportare la famiglia nel momento della difficoltà.
Tali conclusioni trovano conferma anche nella parte della sentenza in commento avente ad oggetto la valutazione della vicenda giudiziaria dal 2010 in poi, in cui la Corte, pur non riconoscendo la sussistenza della responsabilità dello Stato italiano per tale periodo, in ragione delle misure finalmente adottate a tutela del rapporto padre figlio, ha dovuto dare atto dell’esito assolutamente fallimentare di tale intervento. Il padre infatti a tali incontri di fatto non partecipò, essendosi ormai cristallizzata la precedente situazione e le difficoltà di contatto con il figlio, trasferitosi nelle more persino altrove.
Parimenti, le stesse considerazioni possono essere tratte da una precedente sentenza della CEDU del 23.6.16 , Caso Strumia c. Italia, avente ad oggetto una vicenda analoga a quella del caso Giorgioni, in cui l’Italia è stata egualmente condannata per violazione dell’art. 8 CEDU in ragione della mancata tutela del diritto di visita del padre nei confronti della figlia nei lunghi sette anni di vicenda giudiziaria tra le parti.
Anche in tale caso la risposta alle esigenze di tutela rappresentate dal padre alle autorità interne era stata, secondo la Corte, debole, lenta e inadeguata, tanto da pregiudicare in via definitiva la possibilità di un recupero del rapporto padre con la figlia. Questa ultima, risulta dalla sentenza, essendo cresciuta sotto l’influenza della madre sin dalla tenera età e senza poter avere contatti significativi con il padre, infatti consolidò un significativo senso di rifiuto e avversione verso la figura paterna, tale da far fallire qualsiasi progetto di riavvicinamento.
In conclusione risulta evidente che i diritti fondamentali della persona, come quello ai legami familiari ed effettivi, richiedano affinché la loro tutela sia effettiva, che coloro che operano nel settore della famiglia, tanto nell’ambito del potere giudiziario, tanto nell’ambito dei servizi di assistenza sociale sul territorio, intervengano, piuttosto che, come spesso accade, con l’inserimento dell’ennesima “pratica” nell’iter processuale o burocratico che astrattamente le spetta, con misure tempestive e pensate per risolvere in concreto le difficoltà che di volta in volta risultano maturate nell’ambito della famiglia in crisi.