È la storia di Isabella Marincola, nata a Mogadiscio nel 1925. Meticcia perché figlia di un maresciallo di fanteria di origine calabrese e di una donna somala. Riconosciuta dal padre, insieme al fratello Giorgio, torna in Italia e vive a Roma in seno alla famiglia paterna. Studia fra le angherie della moglie del padre. Il fratello Giorgio, partigiano azionista, anche lui meticcio, muore in battaglia. Lei vive il dopoguerra fra atelier di artisti, salotti di sinistra ed una carriera di attrice stroncata da un marito troppo geloso. Incrocia Indro Montanelli, Alberto Sordi, Giuseppe De Santis, Corrado Alvaro. Torna in Somalia e ci rimane. Vive i tentativi di un regime democratico, partorisce un figlio anche lui meticcio e poi venuto in Italia per studiare, soffre il regime di Siad Barre, assiste alla visita trionfale di Bettino Craxi a Mogadiscio, sopravvive al caos successivo alla caduta di Biarre, torna in Italia in tempo per vedere la crisi della Prima Repubblica e l’avvento della Seconda. Muore mentre racconta a Wu Ming 2 la sua storia.
Il racconto è meticcio perché incrocia tempi e voci narranti. Racconta il meticciato all’epoca della colonizzazione fascista e quello in Italia dove una profuga somala trova la solidarietà di una migrante albanese.
La storia è meticcia perché affronta momenti di possibile rinascita nazionale: l’Italia del dopoguerra, la Somalia dopo la fine del protettorato italiano. In questi momenti, tutto si mischia: le ambizioni personali, le velleità artistiche, le utopie politiche.
Il romanzo è meticcio perché promana da tante fonti. Il racconto di Timira, quello di suo figlio Antar, la diaristica coloniale italiana, i filmati dell’istituto Luce, gli scarni documenti che Timira ha portato con sé, le fotografie d’epoca, i volumi di storia, i canti popolari somali, addirittura You Tube dal quale si è appreso come aprire una bottiglia di vino.
Wu Ming 2 è parte di un collettivo. Scrivono libri ed anche saggi, da soli, tutti insieme o qualcuno di loro insieme ad altri.
Hanno teorizzato la nuova epica italiana e scrivono di storie che avrebbe potuto scrivere Salgari.
Tutta la loro produzione è meticcia.
È meticcia appunto perché scritta a tante mani.
È meticcia perché scrivono di momenti storici meticci. I momenti in cui si fondano le nazioni (Manituana) o succedono i fatti che chiudono un’epoca e ne aprono un’altra (prima Q e poi, con un balzo all’indietro nel tempo, Altai). Sono i momenti in cui le identità si mischiano, gli schieramenti non sono chiari, si fondono mondi diversi e da un presunto ordine si giunge al disordine (ancora Q ma anche Stella del mattino).
È meticcia perché gli autori attingono a tutte le fonti, scritte, orali, iconografiche. Alla cultura pop (letteratura, cinema, fumetti), alla storiografia, alla tradizione popolare orale, all’antropologia culturale. Frequentano l’Accademia ed i centri sociali, le sagre paesane e le biblioteche universitarie.
L’operazione culturale di Wu Ming è meticcia perché vive dello scambio con altri artisti e con la comunità dei lettori. L’architrave è il suo sito internet www.wumingfoundation.com. Congelato il sito (ma con i materiali “statici” ancora consultabili), gli scambi con i lettori avvengono tramite il blog “Giap” da dove si possono scaricare gratuitamente testi, leggere le provocazioni politiche e culturali della comunità “giapster”, fare collegamenti arditi con altri autori e performance artistiche; il blog vive sul lavoro volontario del collettivo Wu Ming, oltre che su, ancora scarse, donazione dei lettori in un interessante esperimento di mecenatismo diffuso.
Proprio i caratteri dell’opera di Wu Ming hanno indotto gli autori a riflettere su copy right, proprietà intellettuale e pirateria. Tutto il materiale di tale riflessione si può agevolmente consultare, gratuitamente, in un archivio dal significativo nome “Omnia sunt communia”.
La tesi, invero diffusa da oltre dieci anni, periodo al quale risalgono gli interventi pubblicati, è che il diritto d’autore sia un limite alla libertà artistica ed alla crescita culturale diffusa. La legislazione repressiva è inadeguata a fermare la diffusione di copie illegali di prodotti d’autore, soprattutto di natura audiovisiva, favorita inesorabilmente dalla rivoluzione tecnologica. L’industria dell’intrattenimento avrebbe dovuto (come ora in gran parte sta facendo) utilizzare le nuove tecnologie per sperimentare nuove forme di fruizione, anche remunerata, delle opere dell’autore.
La tesi è solo apparentemente estremista e trova, invece, riscontro nella storia della cultura mondiale.
Se gli aedi che cantavano nelle corti del Mediterraneo il ciclo degli eroi achei e troiani avessero “registrato” le loro storie e ne avessero impedito la libera circolazione e riproduzione, non sarebbero esistiti i poemi omerici. Secoli dopo non sarebbe esistiti nemmeno il Decamerone o Don Quijote de la Mancha.
Se i tanti, sconosciuti cantori delle mille versioni della commedia dell’Arte italiana avessero impedito la circolazione dei loro plot nell’Europa rinascimentale, non sarebbero esistite le opere di Shakespeare.
Se il primo a dipingere un’ Annunciazione od una Ultima cena avesse imposto il copyright sul soggetto, non avremmo potuto vedere una stessa scena con gli occhi di centinaia di artisti, di età e gusti diversi.
Tutta la storia della musica lirica è storia di continui aggiusti, nelle trame e nelle partiture.
Per questo Wu Ming, che trae linfa dalla tradizione orale popolare e pop, si preoccupa di difendere la libera circolazione delle opere dell’ingegno.
Addirittura sostiene che la possibilità di “scaricare” gratuitamente le loro opere ne incrementa il valore commerciale, perché i dati di vendita delle versioni cartacee sono direttamente proporzionali al numero di down load gratuiti. Questo, fino agli ultimi dati di vendita, che, complice la contrazione diffusa dei consumi, negano quanto affermato per un decennio. Nel terribile anno 2012, alla crescita del down load gratuito non segue una crescita delle vendite in libreria. Ma Wu Ming non si arrende, mantiene la possibilità di scaricare gratuitamente le sue opere e, perché comunque anche lo scrittore deve mangiare, spiega come cambia il mestiere. L’autore non vivrà più dalla rendita dei libri venduti, ma dai biglietti dei reading che organizzerà. Ancora una volta, la narrazione diventa opera collettiva, non parto dell’ingegno solitario, ma frutto dello scambio fra chi racconta e chi ascolta, arricchita ad ogni performance, impreziosita dagli inserti di altri ascoltatori narratori. La letteratura è bene comune come nei palazzi del Mediterraneo omerico, come nei mercati della tragedia e della commedia classica, come nelle corti provenzali. Lo scrittore si guadagna da vivere con la fatica della narrazione; solo lui (e la misura nella quale interagisce con il suo pubblico) rappresenta il quid pluris rispetto al testo scritto, asettico e sterile e dunque scaricabile gratuitamente.
Sembrano tesi provocatorie ed estremistiche.
Eppure, proprio in questi mesi, trovano conferma in un brillante saggio di autori di ben altra provenienza culturale e politica. Michele Boldrin e David K Levine in Abolire la proprietà intellettuale (Editori Laterza, Bari, 2012), docenti di Economia in facoltà statunitensi, spiegano, con esempi tratti dalla storia industriale, come la proprietà intellettuale abbia storicamente rallentato il progresso della tecnica e dell’economia. Come la storia economica debba essere letta tramite la continua dialettica fra innovazione e conservazione e come la proprietà intellettuale, costituendo una rendita, integri ineluttabilmente gli estremi della conservazione. Sono certo che anche Boldrin e Levine sarebbero d’accordo che, se fosse esistita la SIAE, non sarebbero esistiti i poemi omerici.
Questi sono i temi. Queste le riflessioni.
Le consegniamo al legislatore che sanziona, con pene piuttosto elevate, le violazioni del diritto d’autore. All’operatore di diritto che, in un’epoca in cui il lavoro giudiziario sembra valutabile a cottimo, si compiace di decisioni seriali a fronte dei tanti Diouf che vendono dvd contraffatti sulle spiagge italiane.