Nel 1964 è fondata Magistratura democratica (la “prima” Magistratura democratica) avendo tra i principi ispiratori dichiarati, per attuare una “radicale svolta”: l’“abolizione della carriera”, l’eliminazione dell’“assetto gerarchico piramidale” e il controllo della “sovranità popolare” sull’attività dei magistrati[1]. Significativamente, nella prima riunione del luglio 1964 a Bologna, furono istituiti un “comitato organizzativo” e soprattutto un “comitato ideologico” col compito di elaborare una mozione programmatica[2]. I segnali di mutamento tra i protagonisti della giurisdizione incominciavano insomma a farsi evidenti. Sarà poi il 1965 ad apparire come un anno per molti versi di svolta nella storia della magistratura italiana. Suo fulcro – e in chiave progressiva - sarà il congresso della Associazione nazionale magistrati del settembre 1965 a Gardone riviera, ma pur con la evidente presenza di spinte novatrici, la situazione in concreto pareva ancora improntata alla più retriva tradizione giudiziaria. Questo almeno quando sguardi “esterni”, tentavano un’analisi e provavano a prevedere qualche linea di cambiamento.
Il tema ricorrente che attraversa qualsiasi discorso di questa fase è quello della “crisi della giustizia”, in quanto lenta ed inefficiente, con una prima causa sommariamente individuata in un organico insufficiente e per giunta non completamente coperto. Questa era la lettura offerta “dall’interno”, che pure qualche dubbio di autoreferenzialità lo sollevava sia nel dibattito pubblico che a livello istituzionale.
Il 9 gennaio 1965, davanti al Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, e all’Assemblea generale della Corte di cassazione, il Procuratore generale Enrico Ettore Poggi (nato nel 1897, e procuratore generale presso la Corte di cassazione dal 1962 al 1967) legge il suo discorso inaugurale[3].
Per comprendere il senso dello scarto temporale, della frattura rappresentata dal 1965, vale la pena fare un passo indietro. L’anno precedente, l’8 gennaio, lo stesso Poggi aveva tenuto analoga prolusione, salvo che la carica di Presidente della Repubblica era ancora ricoperta da Antonio Segni (e, solo per inciso, Presidente del Consiglio dei ministri era Aldo Moro, che sarebbe rimasto in carica fino al 1968).
Estremamente lineare, la prolusione del 1964 rappresentava un quadro secondo cui lo stato della amministrazione della giustizia era proiezione fedele del rapido sviluppo della società italiana del secondo dopoguerra. Nelle liti civili assumevano rilievo per il loro aumento quelle legate alla responsabilità civile per danni derivanti dalla circolazione di autoveicoli (con ripercussioni anche nel penale, per l’aumento di omicidi colposi da incidente stradale), e al mancato adempimento di obbligazioni derivanti da vendite rateali. L’aumento della litigiosità in «taluni centri economicamente più progrediti» era fatto risalire al «rapido aumento della popolazione per effetto dell’immigrazione»; emergeva un forte abbandono delle procedure per separazione tra coniugi, per accordi extragiudiziali trovati col «consentirsi reciprocamente maggiore libertà di quella compatibile con le norme che regolano l’istituto in questione». Allo stesso modo erano enfatizzate le novità legislative e giurisprudenziali in materia di adozione e filiazioni legittima anche in caso di madre “donna non coniugata”. Nel penale riemergeva il tema dell’immigrazione, cui – se pure “interna” – andavano applicate le valutazioni operate dai sociologi sul rapporto tra il fenomeno in generale inteso e lo sviluppo della criminalità, e in particolare «il numero non indifferente di gravi delitti contro la persona, che traggono il movente dai rapporti tra i sessi, commessi da immigrati». Uno spazio significativo era riservato alla “mafia siciliana”, di cui si registrava una «raggio di azione non (…) limitato al territorio dell’Isola».
Poggi non dimenticava i profili ordinamentali e due cenni, alla luce delle prese di posizione successive, risaltano tra le righe. La giustizia penale, innanzi tutto, versava in uno stato «tutt’altro che confortante», e il motivo principale era la «difficoltà di destinare al servizio magistrati adeguatamente preparati alla funzione, particolarmente a quella della magistratura requirente e della istruzione dei processi penali»[4].
In conclusione, si soffermava poi sulla funziona costituzionale del CSM e sulla sua legge istitutiva, anche alla luce degli interventi della Consulta che ne avevano rafforzato l’indipendenza rispetto al potere esecutivo «in maniera più efficace che non la legislazione degli altri Stati dell’Europa continentale».
Questo ultimo dato può essere interpretato come presupposto di una serie di sottolineature e proposte che Poggi sviluppa nel suo Discorso del 1965. Ma questa volta il tono d’occasione viene abbandonato.
Riproposte in gran parte le tematiche dell’anno precedente, la seconda parte prende avvio da una ricostruzione storica sintetica ma per nulla approssimativa dei modelli processuali europei ed italiani successivi all’unificazione e in particolare di quello inquisitorio di matrice francese. Senza mezzi termini si pone all’attenzione la necessità di «conciliare la tutela giuridica dei cittadini con la tutela giuridica dell’imputato, che entrambe debbono essere religiosamente mantenute!»[5]. La riforma radicale dei due codici penali, e quello di ritto in specie, appare ormai ineludibile, e se la matrice originaria attuale sta nel Code de procedure penal del 1808 (Poggi qui sbaglia, scrivendo «civil») in una definizione secondo cui «le Ministère Public est l’oeil du Gouvernement, par le quel sont observèè les Tribunaux», si tratta di una «concezione, ormai a mio credere insostenibile per il nostro diritto». Per Poggi la concezione del PM come rappresentante del governo non è proponibile alla luce della Costituzione repubblicana, ma d'altronde proprio l’art. 112 sulla obbligatorietà della azione penale - e non solo - ne profila un’identità distinta «Sembra doversi riconoscere che il P.M. opera nell’ambito dell’ordine costituito dalla Magistratura come un organo differenziato che ripete direttamente dalla legge ed in primis dalla Costituzione i poteri-doveri elencati dall’art.73 dell’ordinamento giudiziario, agendo in ciò secondo la formula accolta da Chiovenda, quale rappresentante del pubblico interesse alla attuazione della legge»[6].
Tra il resto, Poggi riteneva che proprio la «strutturazione in un corpo distinto dalla Magistratura giudicante» avrebbe consentito effettivamente ai vertici delle Procure di meglio «vigilare sulla legalità dell’azione della polizia giudiziaria»[7].
Sulla stampa viene immediatamente colta la venatura polemica rivolta da Poggi verso l’azione del procuratore generale di Roma Luigi Giannantonio, ormai vicino alla pensione, contro cui si erano alzate molte voci per la gestione ritenuta discutibile di una serie di processi per reati contro la pubblica amministrazione, lasciando franchi da indagine alcuni personaggi politici di speciale rilievo come il ministro Emilio Colombo (1920–2013; in quel momento al dicastero del Tesoro).
Come di prassi, dopo qualche giorno le cerimonie di inaugurazione si svolgono anche nelle diverse sedi di distretto, e Giannantonio per primo sembra reagire e rivendicare il ruolo e l’autonomia della pubblica accusa.
Nello Ajello (1930-2013), una delle firme di punta del giornalismo italiano, dà conto sulle pagine de L’Espresso, di quelle che lui individua come le «due voci della giustizia». Per la prima volta – annota - si sta manifestando in modo esplicito una frattura interna alla magistratura, una frattura che appare non più, o non solo, “generazionale”. «Da una parte qualche cauta apertura verso sistemi più moderni e democratici, dall’altra la difesa piuttosto immobile della lettera della legge e l’estensione del concetto di “indipendenza della magistratura” fino a fare di essa un corpo estraneo al paese, indifferente alle esigenze di ciò che Luigi Giannantonio definisce l’“era moderna” e intoccabile da critiche di qualsiasi tipo e provenienza»[8].
A Milano il Procuratore Pietro Trombi, ancora una volta in polemica con Poggi, a propria volta auspica riforme “prudenti”, rivendicando il ruolo del PM nella sua configurazione attuale e la sua asserita indipendenza dal potere esecutivo. L’autorità richiamata a proprio suffragio – in realtà nel contesto cerimoniale, sarebbe stato sufficiente un breve cenno - è un’evidente mossa di contrattacco alle spinte progressive espresse da Poggi: «Palmiro Togliatti è stato un ottimo ministro della Giustizia: io non lo ricordo come ex capo del Partito comunista, non per l’ideologia di lui, non per il metodo con cui intendeva attuarla. Dalle mie parole deve ovviamente esulare ogni considerazione di carattere politico. Io lo ricordo come ministro, come colui che ci ha dato la legge sulle guarentigie, che ha ripristinato il Consiglio superiore della magistratura con una formazione, badate che composta unicamente di magistrati ha funzionato egregiamente, anche prima che venisse sostituita dall’organo collegiale misto composto di elementi laici e togati. Ma alla memoria di Palmiro Togliatti è rivolta la mia gratitudine anche e soprattutto per l’assoluto rispetto e ossequio ch’egli sempre serbò per l’indipendenza dei PM»[9].
Il 23 aprile 1965 il Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat interviene al CSM (è la seconda volta dalla sua elezione) con un discorso «in ordine al problema della così detta “crisi della giustizia”» di inconsueta durezza[10].
Va subito notato come ci si richiamasse a quella «sensazione di una crisi incombente» che proprio con la seconda metà degli anni Sessanta ha il suo esordio; si tratta di un dato che si sarebbe rafforzato in letteratura nei decenni successivi, tanto da identificare una sorta di «storiografia della crisi»[11]. La “crisi della giustizia” – la cui ricorrenza come tema, e come argomento retorico, è stata già sottolineata- ne è un fattore interpretativo non secondario.
Il tema specifico della crisi della giustizia, si sottolineava dunque nelle parole di Saragat, non poteva essere ristretto a profili relativi all’ordinamento giudiziario e al funzionamento del CSM, come avveniva normalmente nei «qualificati dibattiti», ma andava invece più ampiamente riferito all’esigenza di giustizia che i cittadini esprimevano in base alla Costituzione. Anzi, «ogni altro obiettivo dovendosi reputare subordinato e, ripeto, strumentale rispetto a questo, non già prevalere su di esso né tanto meno porsi come mèta a sé stante». Il problema non stava allora nella spesso evocata carenza di organico: «in altri paesi (…) i giudici sono, a parità di situazione demografica, molto meno numerosi che da noi» ma casomai di equilibrata organizzazione dei diversi uffici giudiziari del Paese. Il Consiglio doveva dunque sviluppare «una visione globale, e non settoriale, del problema», e nello stesso tempo gli altri «poteri ed organi» dello Stato la cui azione incide sull’amministrazione della giustizia, sarebbero stati stimolati ad agire con celerità ed efficacia.
Anche dalle parole del Presidente della Repubblica emerge un quadro della magistratura italiana, a vent’anni dall’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, autoreferenziale, tradizionale nella sua conformazione sociale e tradizionalista nelle impostazioni ideologiche, incupita sotto una pesante coltre vagamente polverosa.
Prendendo spunto proprio dalla «requisitoria così severa [di Saragat] sul funzionamento della giustizia in Italia», Nello Ajello riprende nuovamente il tema su L’Espresso con una lunga inchiesta che troverà spazio lungo i tre numeri di maggio. Il titolo di avvio è emblematico: Toghe di piombo[12]. Un «insaziabile bisogno di rispettabilità», e «il grigiore come caposaldo dell’etica professionale», paiono gli elementi sociologici prevalenti, che poggiano su alcune ossessioni, tipicamente quella riguardante i costumi sessuali degli italiani che regolarmente vengono evocati nei discorsi inaugurali, per una sorta di scollamento dalla evoluzione morale del paese: «in una città come Milano, per esempio, l’isolamento psicologico del giudice rispetto al mondo che lo circonda può dirsi totale. Ed è forse così che si spiega la presenza, proprio a Milano, di magistrati conservatori e noti per il loro ossessivo moralismo, come Trombi e Spagnuolo»[13].
Angelo Pagani, direttore dell’Istituto lombardo di Studi economici e sociali, rispondeva alle domande di Ajello proprio prendendo le mosse dalla situazione nel capoluogo lombardo e con ciò fornendo un quadro a tinte nette, che il giornalista riportava testualmente: «A Milano noi possiamo seguire meglio che altrove l’itinerario psicologico del giudice quando egli viene a contatto col mondo moderno. Tanto per cominciare, egli proviene da città o da paesi nei quali la professione del magistrato è circondata da un alone di prestigio. Qui, invece, comincia a sentirsi un uomo qualsiasi, a cui si chiede soltanto di fare presto il suo lavoro per non ritardare il lavoro degli altri. Ma questa è una richiesta che non rientra nei suoi schemi mentali. Oltretutto, egli non ha gli strumenti per soddisfarla. Tutto questo crea un’istintiva animosità dei magistrati nei riguardi della società industriale. La società industriale è per la liberalizzazione dei costumi sessuali, e loro sono sessuofobi. La società industriale tende a sdrammatizzare certi legami patriarcali, e loro si ergono a difensori della santità della famiglia. Vedono intorno a loro sfiorire decine di vecchi miti travolti dalla libertà di critica, e s’aggrappano con maggior forza al concetto di vilipendio. Sono, in genere, pessimisti, proclivi alle diagnosi apocalittiche». L’acuta – e impietosa - analisi di Pagani prenderà poi forma definitiva nella sua monografia di qualche anno dopo dedicata appunto ad un esame socio-antropologico della professione del giudice in una cruciale fase di passaggio, con i dati tipici di un approccio empirico[14].
Ad Ajello le stesse battaglie per l’indipendenza dell’immediato dopoguerra sembravano incongrue per una categoria che aveva subìto ben altre costrizioni durante il fascismo, e adesso si riacutizzavano proprio in corrispondenza di governi maggiormente “progressisti”. Ecco, dunque, che la reale funzione delle rivendicazioni espresse pareva ridursi alla volontà di «difendere i diritti della casta da cui proviene la verità», e il riferimento era in particolare ai consiglieri di Cassazione[15].
La “guerra delle sentenze” evocata da Ajello era poi lo scontro tra Corte costituzionale e Corte di cassazione che da un decennio le opponeva e che sulla stampa è presentato come il confronto tra due visioni della giustizia, di quella penale in specie, una “moderna” e una “tradizionale” (secondo la quale, ad esempio, in base a «una definizione dovuta a Mario Paggi, un illustre avvocato milanese scomparso di recente “ogni imputato è un colpevole e ogni difensore un guastafeste”»)[16]. E la sintesi del ragionamento, in linea con le affermazioni del Presidente Saragat, è che per affrontare la “crisi della giustizia” non sia necessario aumentare il numero dei magistrati, salvo modificarne la distribuzione geografica, i criteri e le procedure di selezione, ma soprattutto «dovrebbe essere abolita o trasformata “la carriera”, questa divinità imperiosa e soffocante cui viene sacrificata ogni altra esigenza. Ciò equivale a dire che per prima cosa bisogna riformare la Cassazione, limitare i suoi poteri, correggere la sua mentalità, sottrarla all’orgoglioso isolamento nel quale vive in cima alla piramide giudiziaria. (…) Secondo la maggior parte dei giudici non esiste altra strada»[17].
Le ultime parole dell’inchiesta – Ajello ne era certo - davano eco all’opinione della «stragrande maggioranza dei giudici italiani (quelli che si raccolgono intorno all’associazione nazionale magistrati, dietro un piccolo gruppo di leaders in continua polemica tra loro ma concordi sulla necessità di ampie riforme)»[18].
È dunque interessante, come anche un’analisi prospettica dall’esterno della categoria rinviasse, con sentimento di attesa, a prese di posizione esplicite della magistratura associata. In effetti si trattava di attendere solo qualche mese ancora: per una prima sortita fuori dalla tradizionale cappa di piombo, momento nodale sarebbe stato il XII congresso dell’Associazione nazionale magistrati fissato per il 25-28 settembre del medesimo 1965 a Gardone[19].
[1] S. Pappalardo, Gli iconoclasti. Magistratura democratica nel quadro della Associazione nazionale magistrati, Milano, Franco Angeli, pp. 111 ss.; E. Bruti Liberati, Magistratura: la “radicale svolta” della metà degli anni Sessanta del Novecento, in Il Politico, 2019, anno LXXXIV, n. 2, pp. 77 – 79. Per la ricostruzione delle diverse fasi della storia delle correnti, si rinvia, una volta per tutte, a G. Melis, Le correnti nella magistratura. Origini, ragioni ideali, degenerazioni, 2020, http://www.questionegiustizia.it/articolo/le-correnti-nella-magistratura-origini-ragioni-ideali-degenerazioni_10-01-2020.php e Id., Storia della magistratura e storia dell’associazionismo giudiziario: una complementarità necessaria, 2022, https://www.questionegiustizia.it/articolo/storia-magistratura. Su questa fase in specie la bibliografia è ampia, ad esempio il bilancio retrospettivo di G. Palombarini, Giudici a sinistra. I 36 anni della storia di magistratura democratica: una proposta per una nuova politica della giustizia, Napoli, ESI, 2020. In precedenza, la suggestiva testimonianza di G. Borré, Le scelte di Magistratura democratica, in Giudici e democrazia. La magistratura progressista nel mutamento istituzionale, a cura di N. Rossi, Milano, Franco Angeli, 1994, pp. 41 ss: il rifiuto del formalismo giuridico e del conformismo magistratuale (in sintesi la “demistificazione”), e poi la scelta del garantismo e della giurisprudenza alternativa (in campo gius-lavoristico e penale in specie) fino all’attenzione speciale ai soggetti “sottoprotetti”, sono identificati come i motivi ispiratori primigeni. Nello stesso volume, cfr. al riguardo L. Ferrajoli, Per una storia delle idee di Magistratura democratica, in Giudici e democrazia, cit., pp. 55 ss. dove per il periodo immediatamente successivo a quello che qui interessa, tra il 1969 e il 1977, Ferrajoli identifica sul piano della storia della cultura giuridica l’incontro tra giuspositivismo critico e marxismo.
[2] S. Pappalardo, Gli iconoclasti, cit. p. 125.
[3] E. Poggi, Discorso per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 1965 (pronunciato il 9 gennaio 1965 nell’Assemblea generale della Corte di cassazione), Roma, Arte della Stampa, 1965, https://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/1965_Poggi_BCG.pdf
[4] E. Poggi, Discorso per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 1964 (pronunciato il 8 gennaio 1964 nell’Assemblea generale della Corte di cassazione), Roma, Arte della Stampa, 1964, https://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/1964_Poggi_BCG.pdf, p. 18.
[5] E. Poggi, Discorso… 1965, cit., p. 16.
[6] Ivi, p. 22. E ancora: «È indubbio, d’altra parte, che accanto alla differenziazione funzionale rispetto alla Magistratura giudicante, il P.M. è caratterizzato anche da uno stato giuridico differenziato, sia pure marginalmente, dal punto di vista delle guarentigie. La differenza è segnata innanzi tutto dall’art. 107 della Costituzione che, mentre per i giudici sancisce espressamente l’inamovibilità di funzione e di sede, rinvia per quanto riguarda le guarentigie a pro del Pubblico Ministero alla legge ordinaria: ma già si ritrova sia pure marginalmente nell’art. 2, secondo comma della legge sulle guarentigie che, a proposito della inamovibilità di sede, ne consente la deroga a determinate condizioni e previo parere del Consiglio Superiore, che è vincolante per i magistrati giudicanti e non per quelli del P. M.».
[8] N. Ajello, Le due voci della giustizia. Apertura polemica dell’anno giudiziario, in l’Espresso, 17 gennaio 1965, anno XI n. 3, p. 2.; sulla stessa linea, sul numero successivo del settimanale, P. Barile, Il codice di Giannantonio. Respinge le critiche, giustifica Colombo, rimpiange Segni, non perdona Trabucchi, in L’Espresso, 24 gennaio 1965, anno XI n. 4, p. 5.
[9] Gli stralci del discorso di Trombi, come di quello di Giannantonio, con un quadro abbastanza completo dei diversi interventi dei Procuratori generali, è in l’Unità, 12 gennaio 1965, p. 3. Le parole di Trombi su Togliatti sono stigmatizzate come “strumentali”.
[10] Il verbale dattiloscritto è disponibile sul portale storico del Quirinale: https://archivio.quirinale.it/discorsi//AL_CSM/Saragat/Saragat_23_aprile_1965.pdf. Nell’occasione il Procuratore generale di Roma Giannantonio è nominato Presidente aggiunto della Corte di cassazione.
[11] A. Giovagnoli, Introduzione, in A. Giovagnoli (cur.), Interpretazioni della Repubblica, Bologna, il Mulino, pp. 7-16; P. Scoppola, Tessuto etico, forze politiche, istituzioni, in A. Giovagnoli (cur.), Interpretazioni della Repubblica, cit. e bibliografia ivi citata.
[12] N. Ajello, Le toghe di piombo, in L’Espresso, 2 maggio 1965, anno XI n. 18, p. 3; Id., La guerra delle sentenze, in L’Espresso, 9 maggio 1965, anno XI n. 19, p. 9; Id., Sul trapezio della legge, in L’Espresso, 16 maggio 1965, anno XI n. 20, p. 15.
[13] N. Ajello, Le toghe di piombo, cit.
[14] A. Pagani, La professione di giudice, Milano, Istituto editoriale cisalpino, 1969.
[15] «Oltre tutto, crescono continuamente di numero. Trent’anni fa (quando Mussolini parlava della magistratura come dell’“esercito messicano”: molti generali e pochi soldati) erano meno numerosi di oggi. Ma aumenteranno ancora. Nel giro di pochi anni, in base ad un incremento di organico previsto da una legge del 1963, ci saranno in Italia 579 consiglieri di Cassazione in luogo dei 352 attualmente in servizio, e la nostra sarà la Suprema Corte più numerosa che esista. Tra le loro fila ci sarà certamente un ricambio, questo è invitabile. Ma l’importante è che sia graduale e controllato. Hanno già elaborato infatti una proposta per il prolungamento dei limiti d’età fino a 75 anni». N. Ajello, La guerra delle sentenze, cit.
[17] N. Ajello, Sul trapezio della legge, cit.
[19] Su questo, R. Ferrante, Tra Gardone e via Fani. Ideologie della giurisdizione tra associazionismo dei magistrati e storia politica del paese, in Questione giustizia, 25.11.2022, https://www.questionegiustizia.it/articolo/tra-gardone-e-via-fani).