Il contrasto alla penetrazione delle mafie nel sistema economico e gli strumenti di tutela delle imprese: Emergenza socio-economica e pericolo mafioso / La tutela delle imprese dal pericolo mafioso
Nei saggi di Piergiorgio Morosini e di Costantino Visconti vengono analizzati, in sequenza, i rischi di penetrazione della criminalità organizzata nella società e nell’economia messe a dura prova dall’emergenza sanitaria ed economica, le forme di contrasto alle possibili infiltrazioni e gli strumenti di tutela delle imprese dal pericolo mafioso.
Emergenza socio-economica e pericolo mafioso
di Piergiorgio Morosini
1. Oltre i timori e i pregiudizi / 2. Emergenza sociale e welfare mafioso / 3. La “caccia” alle aziende in difficoltà / 4. La difesa del sostegno pubblico all’economia sana
1. Oltre i timori e i pregiudizi
«Dovrebbe essere chiaro che in Italia – dove la mafia è forte e adesso sta aspettando i nuovi finanziamenti a pioggia di Bruxelles – i fondi dovrebbero essere versati soltanto per il sistema sanitario e non per il sistema sociale e fiscale». E «naturalmente gli italiani devono essere controllati da Bruxelles e usare i fondi in modo conforme alle regole». Così si esprime Christoph B. Schiltz in un editoriale molto controverso, apparso il 9 aprile scorso sulla testata tedesca Die Welt.
A livello europeo, il radicamento in Italia di una criminalità mafiosa feroce e finanziariamente molto dinamica ha causato, nel tempo, danni gravissimi alla “reputazione” del nostro Paese.
E non vi è dubbio che il blocco di tante attività voluto dalle misure anticontagio, nel determinare una maggiore vulnerabilità di famiglie e aziende, venga a creare condizioni favorevoli per il rilancio di quei clan fortemente ridimensionati dalle energiche iniziative giudiziarie degli ultimi anni.
Secondo i primi dati raccolti dalle forze dell’ordine e in base alle analisi di alcuni esperti, sarebbero quattro i versanti su cui il crimine organizzato starebbe per investire l’enorme liquidità derivante soprattutto dal traffico di stupefacenti: il sostegno a giovani bisognosi che hanno perso il lavoro in realtà già depresse, in vista di un loro reclutamento nei ranghi dell’organizzazione; la “caccia”, non solo nelle aree a tradizionale presenza mafiosa, alle aziende in “Stato di necessità”; i nuovi investimenti in settori in crescita (come quello del materiale sanitario monouso); l’indebita acquisizione delle somme stanziate dallo Stato per il soccorso alle imprese in crisi.
Ma i pregiudizi e i timori che una parte della stampa europea nutre nei riguardi del nostro Paese scontano analisi lacunose e ataviche sottovalutazioni. L’Italia non è “impreparata” davanti ai suddetti fenomeni, a differenza di altre realtà continentali che pure, in questo momento, corrono rischi molto simili. Infatti, secondo i rapporti di Europol più aggiornati, da anni, non pochi boss investono oltre i confini nazionali (Spagna, Olanda, Romania, Bulgaria, per citare solo alcuni casi) nei settori finanziario e immobiliare[1]. Tuttavia, quei Paesi non dispongono di risorse normative e istituzionali paragonabili a quelle italiane nel contrasto alle associazioni mafiose. Le differenze si spiegano con la biografia del nostro Paese che, segnato negli anni da una miriade di eventi traumatici di matrice criminale, ha costruito un argine investendo nelle sue migliori risorse istituzionali, culturali e professionali.
L’ordinamento italiano è dotato di leggi ad hoc per una efficace prevenzione dei meccanismi di infiltrazione mafiosa nell’economia. Il codice penale e la legislazione speciale (in particolare il decreto legislativo n. 159 del 2011, come riformato dalla legge n. 161 del 2017) prevedono disposizioni per la protezione delle imprese in crisi e per porre un freno a usura, intestazioni fittizie, riciclaggio e indebita percezione di finanziamenti pubblici. Quelle risorse normative, da tempo, sono affidate a strutture amministrative e investigative “dedicate”, la cui “formazione sul campo” è alla base della difesa dell’economia sana.
La situazione che stiamo vivendo consiglierebbe, quindi, di far funzionare meglio il “tanto” che abbiamo. Semmai, dovremmo approfittare delle nuove circostanze per vagliarne potenzialità inespresse. Possibilmente, senza iniziare la solita “corsa” verso l’ennesima riforma per fronteggiare l’“emergenza”, più sull’onda della ricerca di una risposta rassicurante per l’opinione pubblica che all’insegna di meditati disegni politico-criminali.
In ogni caso, è auspicabile che proprio la crisi sia occasione per condividere il nostro know how e, se del caso, perfezionarlo, nell’ambito di una cooperazione giudiziaria tra Paesi membri dell’Unione finalizzata a prevenire quegli appetiti criminali suscettibili di condizionare la qualità delle nostre democrazie. In tale prospettiva, non va trascurata l’importanza dell’avvio della operatività a partire dal prossimo anno della Procura europea, ossia di un organo di cooperazione investigativa e giudiziaria di nuovo conio, destinato anche al contrasto dei reati della mafia “mercatista” che attentano agli interessi finanziari dell’Unione[2].
2. Emergenza sociale e welfare mafioso
Nei primi giorni di aprile di quest’anno, allo Zen di Palermo, il fratello di un pregiudicato per reati maturati in “contesto mafioso” distribuiva generi alimentari agli abitanti più indigenti del quartiere. Per accreditarsi come benefattore, pubblicizzava la sua iniziativa sui social network. A riferirlo è un cronista siciliano di una importante testata giornalistica[3]. Fatti analoghi si sono registrati anche nei rioni popolari di Napoli[4].
Sono vicende che si prestano a diverse chiavi di lettura. La storia di certe realtà della Sicilia, della Campania e della Calabria è ricca di frangenti nei quali i clan hanno trasformato periodi di crisi (ad esempio, dopo eventi sismici o bellici, oppure in seguito a crac finanziari di dimensioni planetarie) in grandi opportunità di rafforzamento ed espansione. Come ricorda uno dei massimi esperti delle dinamiche del crimine organizzato nelle diverse regioni italiane, Rocco Sciarrone[5], «quando c’è una sospensione dell’ordine sociale le mafie sono in grado di inserirsi in queste situazioni e di trarne profitto». Sono situazioni in cui i gruppi mafiosi cercano di conquistare quel consenso sociale suscettibile di tradursi in nuove forme di reclutamento di “soggetti bisognosi” o nella individuazione di futuri fiancheggiatori.
D’altro canto, sono anni che i clan, in zone depresse del Paese, si fanno carico di trovare una occupazione a giovani senza prospettive. In taluni casi anche nel circuito legale dell’economia, imponendo a imprese vittime di estorsione l’assunzione di soggetti indicati dal boss di turno, che in questo modo aumenta il suo prestigio agli occhi della popolazione locale.
In realtà, già in epoca precedente all’emergenza sanitaria, diverse pagine giudiziarie hanno ricostruito le forme di manifestazione del welfare mafioso.
Si tratta di iniziative in grado di mettere concretamente in campo forme di “assistenza interessata”, attraverso una rete collaudata di complici. Ad esempio, in una recente indagine palermitana[6], è emerso come i gestori di un supermercato, fiancheggiatori della famiglia mafiosa del quartiere, si siano prestati a sovvenzionare la consorteria attraverso la vendita a credito di prodotti di consumo a persone segnalate dal sodalizio, per poi essere pagati con fondi provenienti da una società cooperativa operante presso i cantieri navali del capoluogo siciliano sotto il pieno controllo dei boss (attraverso la rappresentanza legale di un soggetto stabilmente inserito nella cosca), così riversando ai componenti di vertice dell’associazione l’importo dell’Iva relativa alle fittizie fatturazioni.
La situazione attuale è particolarmente propizia per realizzare certi progetti. Le misure di distanziamento sociale e il lockdown su tutto il territorio nazionale, imposti nei mesi scorsi dai provvedimenti governativi per il contenimento dell’epidemia, hanno portato alla totale interruzione di moltissime attività produttive. E le aziende e gli esercizi commerciali che ora stanno riaprendo, sono destinati a scontare una modalità di ripresa del lavoro comunque stentata e faticosa, se non altro per le molteplici precauzioni sanitarie da adottare nei luoghi di produzione.
I riflessi di tale situazione, che secondo le cronache quotidiane riguardano naturalmente anche molti centri del meridione d’Italia, hanno eroso ulteriormente i livelli di occupazione. Al Sud alle già consistenti percentuali di giovani disoccupati, ora si aggiungono quelli che hanno perso il lavoro a causa del blocco quasi totale delle attività produttive o che ne avevano uno nell’ “economia sommersa” e ora, quindi, non solo sono senza fonti di reddito da mesi ma sono pure difficilmente raggiungibili da ogni forma di sostegno alternativo da parte dello Stato (ad esempio, buoni alimentari)[7].
Su questo segmento della società meridionale rischiano di “fare breccia” i “soccorsi interessati” del crimine organizzato, laddove ancora vanta un capillare controllo del territorio. La stessa “distribuzione di cibo” può essere finanziata da un traffico di sostanze stupefacenti che non si è interrotto neppure con il lockdown[8] o da elargizioni di aziende operanti nel settore della distribuzione alimentare, intestate a componenti dell’organizzazione criminale, a loro prestanome o a loro fiancheggiatori[9].
Le persone raggiunte dai “sussidi” dell’organizzazione criminale costituiscono, quindi, il nuovo serbatoio delle future affiliazioni o di collaborazioni di vario tipo che sarebbero il corrispettivo per l’aiuto più rapido e diretto di cui hanno beneficiato.
Tuttavia, in tale prospettiva, lo Stato potrebbe trasformare la crisi sanitaria in una occasione per costruire un nuovo “patto di fiducia” con tanti cittadini attualmente senza un futuro, e in questo modo rispondere in modo efficace ai piani delle organizzazioni mafiose. Come? Lo suggerisce una lucida analisi del sociologo partenopeo Luciano Brancaccio pubblicata recentemente[10]. Lo studioso, infatti, propone l’inserimento, in un piano di misure di sostegno alle imprese e alle famiglie che i mutati vincoli di stabilità consentono di varare, di uno «strumento universale di tutela dei lavoratori precari con contratti a termine e per i disoccupati (categoria entro cui si cela il lavoro nero di necessità), che non avranno prospettive alla ripresa delle attività».
3. La “caccia” alle aziende in difficoltà
«Non bisogna dimenticare che le mafie – e questo è uno degli elementi di maggiore rischio e pericolosità – dispongono di un’enorme liquidità che possono offrire a imprese e operatori economici in difficoltà (…) il problema non è quindi soltanto la mafia in sé, quanto il fatto che i confini tra il lecito e l’illecito sono opachi e porosi, e possono diventarlo ancora di più in una situazione di crisi e di emergenza quale quella che stiamo attraversando»[11].
La considerazione del sociologo Rocco Sciarrone si fonda sull’esame di materiale giudiziario stratificato negli anni, su numerose interviste a operatori economici, su analisi relative all’impatto nel circuito produttivo delle condotte dei clan anche con riguardo ad “alleanze nell’ombra” con imprese, professionisti, amministratori pubblici.
Sull’emergenza economico-finanziaria, le agenzie nazionali di rating e l’Unione nazionale delle imprese, in questi giorni, hanno pubblicato diversi documenti[12]. In essi si valutano la capacità delle diverse tipologie di aziende e di esercizi commerciali di “resistere” al prolungato blocco delle attività, la loro solvibilità, le chance di ottenere prestiti e le condizioni necessarie per la “ripresa”. Secondo stime ormai ampiamente condivise, i settori più colpiti dalle misure anti-contagio sarebbero le piccole e medie imprese, gli artigiani, gli esercizi commerciali, in particolare bar, ristoranti, alberghi e altre strutture ricettive. Per queste realtà, la drastica riduzione della redditività, determinata dal blocco dell’attività dei mesi scorsi, sta rendendo assai difficile ai titolari il pagamento di canoni di affitto, degli stipendi dei dipendenti, degli oneri fiscali, dal momento che il ritorno alla normalità non è prevedibile che avvenga in tempi brevi.
Con riferimento a certe realtà economiche, nei territori capillarmente controllati, le organizzazioni mafiose sono in grado di individuare in maniera rapida e selettiva le imprese e gli esercizi commerciali che, in questo frangente, sono più in difficoltà e a cui prestare quel “soccorso interessato” e tempestivo, suscettibile di trasformarsi nel primo passo per diventarne proprietari. La possibilità di disporre sin d’ora di informazioni “utili” deriva da un collaudato sistema estorsivo che ha coperto nel tempo interi quartieri cittadini. Secondo pronunce anche recenti di tribunali del Sud (Calabria, Sicilia e Campania), proprio la richiesta di “pizzo”, laddove ha riguardato somme limitate, non solo ha evitato di indurre la vittima a denunciare il reato ma, non di rado, ha consentito di instaurare un “rapporto” in grado di evolvere pure in forme di dialogo e collaborazione reciproca[13].
In altri termini, certe pregresse interlocuzioni ora possono aiutare i clan a individuare più agevolmente le potenziali “prede”. Dando fondo ai capitali illecitamente accumulati, le organizzazioni criminali potrebbero, attraverso prestiti con interessi usurari, preparare il terreno per poi rilevare beni e aziende (anche in seguito a manovre estorsive), in tal modo alterando ulteriormente la libera concorrenza tra operatori economici sul territorio e indebolendo i meccanismi di protezione dei lavoratori-dipendenti.
Se è vero che le autorità centrali hanno deciso di stanziare ingenti risorse per il salvataggio di imprese ed esercizi commerciali, con un piano che prevede ammortizzatori sociali e forme di soccorso finanziario e fiscale, va tuttavia considerato che l’effettività di quel sostegno passa per procedure amministrative che difficilmente consentono nell’immediato di far fronte alla crisi e che, quindi, potrebbe in molti casi rivelarsi tardivo o, comunque, di complessa attuazione per tante piccole realtà commerciali che già operavano in una situazione di non piena regolarità se non proprio di “circuito sommerso”.
Senza contare che la bontà dell’intervento pubblico passa anche per una sintonia tra enti locali, rappresentanze di categoria e istituti di credito che è tutta da sperimentare nei territori maggiormente esposti a forme di illegalità nei circuiti della pubblica amministrazione ed economico finanziario, anche per via di un sicuro fattore di inquinamento rappresentato proprio dalla risalente presenza di gruppi mafiosi.
Dunque, dei ritardi nel soccorso o delle difficoltà tecniche di avvalersi del sostegno dello Stato per tanti piccoli operatori economici, potrebbe approfittare il crimine organizzato, in grado di assicurare interventi rapidi e concreti, suscettibili di tradursi in forme di riciclaggio o reimpiego di capitali illeciti per l’appropriazione delle attività in crisi, ancorché con lo schermo di intestazioni fittizie.
Tuttavia, se in certe realtà dell’Italia meridionale le fragilità del sistema economico-produttivo possono favorire il rilancio dei clan, in questa fase emergenziale anche le altre parti del Paese non possono sottovalutare il pericolo del “contagio mafioso”.
Secondo gli esperti più accreditati, i riflessi negativi delle misure atte a contenere la pandemia non hanno risparmiato neppure le realtà economiche apparentemente più robuste e attrezzate che operano nell’Italia centro-settentrionale, a loro volta esposte alla penetrazione di logiche e capitali mafiosi, come dimostra anche la cronaca veneta degli ultimi giorni[14].
D’altronde, dalle indagini svolte negli ultimi anni dalle procure del Centro-Nord, è emerso che, laddove i gruppi mafiosi annoverano insediamenti stabili, con la compiacenza di alcuni professionisti, segmenti delle istituzioni e imprenditori indigeni, riescono a investire in realtà aziendali che soffrono i frangenti in cui si manifestano le crisi di liquidità.
In passato i settori tradizionalmente colpiti al Centro-Nord dal “contagio mafioso” sono stati il ciclo dell’edilizia e del cemento, nonché lo smaltimento dei rifiuti e la filiera del turismo. Tuttavia, la crisi determinata dal coronavirus potrebbe portare certi gruppi criminali particolarmente duttili a esplorare anche comparti meno battuti che possono ora diventare molto redditizi, quali ad esempio la sanità, peraltro già interessata in Lombardia da indagini giudiziarie.
Si aggiunga che gli stessi imprenditori del Nord – come già accaduto in altri momenti di crisi – potrebbero essere portati, per puro calcolo di convenienza, ad assumere essi stessi l’iniziativa di mettersi in contatto con gruppi mafiosi in grado di offrire quei servizi che rappresentano l’ultima chance per abbattere i costi e rimanere sul mercato, accettando una contaminazione silente, ma non meno insidiosa per il tessuto connettivo dell’economia nazionale.
Così, gli effetti delle misure anti-pandemia potrebbero propiziare la costituzione di quei “comitati d’affari” in cui imprenditori spregiudicati si affiancano a esponenti di gruppi criminali, liberi professionisti a libro paga e amministratori pubblici corrotti, secondo uno “schema” sovente dimostrato negli ultimi anni dalle autorità giudiziarie di diversi distretti del Nord[15]. Si pensi a vicende relative ai settori della produzione manifatturiera e dello smaltimento illegale dei rifiuti, in cui gli imprenditori locali si occupavano della gestione dell’accesso al mercato, i politici gestivano le autorizzazioni amministrative e i mafiosi riciclavano capitali, partecipando all’affare e mettendo a disposizione la forza materiale per rimuovere gli ostacoli che non era possibile rimuovere con metodi legali.
Per impedire che l’economia sana sia inquinata da quella criminale occorre una diffusa consapevolezza circa la possibilità di certi scenari. Sul piano della risposta repressiva, poi, non bastano le illusioni degli slogan né gli inasprimenti di pena per certi reati. Questa nuova frontiera del contrasto alle mafie, piuttosto, suggerisce in prima battuta una distribuzione “mirata” delle eccellenze investigative su criminalità economica e nelle pubbliche amministrazioni anche in aree di non tradizionale radicamento mafioso.
4. La difesa del sostegno pubblico all’economia sana
Di fronte agli annunci della maggioranza di governo, è prevedibile che coloro i quali hanno il compito di prevenire e reprimere ogni forma di illegalità propiziata dalla crisi, dovranno confrontarsi anche con un ulteriore scenario che attiene alla scelta di far fronte alle profonde sofferenze dell’economia privata con forme di “helicopter money” (che verrebbero ad attingere a fondi europei)[16].
Si tratta della distribuzione veloce e generalizzata di aiuti, sussidi e crediti per imprenditori e operatori del commercio, destinata a caratterizzarsi come stimolo di natura eccezionale per favorire la ripresa economica e che, per essere tale, deve limitare “all’osso” i controlli preventivi delle amministrazioni pubbliche e degli istituti di credito sui potenziali beneficiari.
La velocizzazione dell’accesso alle misure di sostegno creditizio, affidata soprattutto al senso di responsabilità e alla correttezza dei richiedenti, potrebbe invogliare i componenti della organizzazione mafiosa a manovre spregiudicate dando fondo a reti relazionali collaudate, con imprenditori (sovente “prestanome”, non solo in aree di tradizionale radicamento), funzionari pubblici e agenti degli istituti di credito compiacenti, per attivare manovre opache e truffaldine in grado di intercettare indebitamente denaro pubblico. Proprio in questa prospettiva, meritano particolare attenzione i suggerimenti dei procuratori della Repubblica di Milano e Napoli[17] sulla necessaria adozione di strumenti di controllo e tracciabilità dei finanziamenti e degli impieghi di capitale. Tali accorgimenti sarebbero pure suscettibili di trasformare una potenziale minaccia in un’occasione per intercettare movimenti anomali e favorire l’intervento repressivo delle agenzie di contrasto.
Sotto questo profilo, sulle somme che lo Stato erogherà per fronteggiare debiti o a ristoro di danni (pagamento fornitori, stipendi, affitti, tasse), dovrebbe risultare più agevole l’applicazione di metodi per “tracciare” l’utilizzo dei fondi ponendo al centro delle operazioni l’intermediatore finanziario (istituto bancario), attraverso “conti dedicati” o deleghe alla stessa banca per effettuare i pagamenti. Mentre più complesso appare il controllo sulle somme erogate per progetti di investimento, in relazione al quale occorrerà valorizzare l’esperienza degli ultimi anni relativa alla segnalazione di operazioni sospette in materia di riciclaggio e di misure interdittive antimafia di competenza dei prefetti. La valutazione sulla “congruità” degli importi richiesti e sulla “affidabilità antimafia” dell’impresa richiedente dovrebbe spettare sempre all’intermediatore finanziario, ma l’istruttoria da svolgere prevedibilmente si mostrerà molto più laboriosa. Certamente non ci si potrà limitare alla presentazione di un certificato penale (o di carichi pendenti) e si dovranno necessariamente attivare meccanismi pubblici che consentano di ottenere, in tempi ragionevolmente brevi, informazioni sulla “storia” dell’impresa richiedente (ad esempio, su caratteristiche dei suoi fornitori, modalità di assunzione dei dipendenti, tipologia di clientela, soggetti con cui si sono fatte associazioni temporanee di impresa) e sull’adozione di formule organizzative per la prevenzione delle infiltrazioni mafiose.
Tuttavia, anche in questa delicata congiuntura, per combattere il virus mafioso non basta la delega a forze dell’ordine e magistratura. E non sono sufficienti neppure i pur importanti meccanismi di segnalazione delle operazioni sospette che, per legge, già coinvolgono liberi professionisti, rappresentanti di categoria e autorità locali.
La protezione dell’economia legale e, quindi, dell’occupazione di migliaia di lavoratori richiede una reazione compatta delle “comunità” territoriali. Senza dubbio il governo centrale dovrà fare la sua parte. Garantendo ammortizzatori sociali e forme di soccorso finanziario e fiscale alle imprese; possibilmente con una semplificazione delle procedure amministrative che non rinunci alla trasparenza. Ma un ruolo da protagonisti, sul territorio, lo dovranno assumere enti locali, rappresentanze di categoria, sindacati e istituti di credito. In nome di un interesse superiore, sono chiamati a vincere egoismi, autoreferenzialità e diffidenze reciproche. Solo così si potrà avere una ripartizione equa dei sacrifici, fondamentale per la ripresa. Si pensi, ad esempio, alle questioni della rinegoziazione dei contratti di affitto stipulati prima della crisi (che coinvolgono tante aziende), alla costituzione di un fondo per l’abbassamento dell’Imu; o alla disposizione di linee di credito agevolate a chi vuole investire.
Senza un’alleanza tra i diversi attori del circuito produttivo e istituzionale, le tradizioni anche delle nostre comunità più sane sarebbero esposte ai rischi di una trasformazione profonda. Il dilagare di povertà, prepotenze e illegalità finirebbe per erodere la qualità della convivenza civile. Sta nel “senso di comunità”, dunque, la vera risorsa per una ripresa improntata alla tutela del lavoro, alla lealtà dei commerci e alla trasparenza della vita pubblica.
1. Per una ricognizione delle questioni salienti sul piano socio-criminologico e delle misure di contrasto, cfr. A.M. Maugeri (a cura di), Stati generali della lotta alle mafie. Tavolo XV – “Mafie e Europa” (2016-2017; relazioni conclusive: gennaio 2018), in Dir. pen. cont., 5 aprile 2019, https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/upload/8056-tavolo-xv-mafie-europa.pdf.
2. Sul tema della “mafia mercatista”, vds. R. Scarpinato, I clan invadono l’Europa, in L’Espresso, 21 luglio 2017.
3. S. Palazzolo, Palermo, il fratello del boss della droga fa la spesa per lo Zen, in La Repubblica, 8 aprile 2020.
4. V. Del Tufo, Il falso welfare che porta ai clan il vero consenso, in Il Mattino, 1° aprile 2020.
5. Intervista sul tema: Fase 2, gli interessi delle mafie nella ricostruzione, in Unito news, 12 maggio 2020, http://unitonews.it/index.php/it/news_detail/fase-2-gli-interessi-delle-mafie-nella-ricostruzione.
6. Ordinanza cautelare del Gip presso il Tribunale di Palermo, 27 aprile 2020, procedimento penale n. 3275/2018 RGNR a carico di 105 indagati, inedita.
7. Sul punto vds. L. Vicinanza, Tutelare gli sfruttati del lavoro nero, in La Repubblica (Napoli), 30 marzo 2020.
8. In relazione al territorio partenopeo, cfr. G. Grimaldi, I clan non vanno in quarantena, pusher padroni della notte, in Il Mattino, 1° aprile 2020.
9. Vds. P. Severino, Lo Stato aiuti subito le famiglie più povere. La mafia lo sta facendo già in tutta Italia, in La Stampa, 6 aprile 2020; A. Turrisi, Palermo, la “zona grigia” e le tentazioni della mafia, in L’Avvenire, 31 marzo 2020.
10. L. Brancaccio e V. Mete, Se nemmeno il covid ferma le mafie, in il Mulino (Rivista), 27 aprile 2020, www.rivistailmulino.it/news/newsitem/index/Item/News:NEWS_ITEM:5194.
11. Intervista a R. Sciarrone, Fase 2, op. cit.
12. L’impatto del Covid-19 sui settori: il Cerved Industry Forecast, in Cerved know, maggio 2020, https://know.cerved.com/wp-content/uploads/2020/05/Cerved-Industry-Forecast_reloaded-2-2.pdf.
13. Sulle forme di manifestazione in alcune aree territoriali del rapporto tra gruppi mafiosi e soggetti estorti, vds. F. Cuttitta, La finanza mafiosa. Una brutta storia di usura e di estorsione, Saladino, Palermo, 2020.
14. U. Dinello, False fatturazioni e minacce. Così i clan “aiutano” le imprese nel Nord-est piegato dall’usura, in La Stampa, 15 giugno 2020.
15. Per una ricognizione dei materiali giudiziari accompagnata da analisi criminologiche, vds. S. Sciarrone, (a cura di), Mafie del Nord. Strategie criminali e contesti locali, Donzelli, Roma, 2019.
16. Sulla “operazione fiduciaria di massa” che si sta aprendo e sui suoi risvolti penalistici, vds. N. Rossi, L’emergenza economica e sociale. Le prime risposte del diritto penale, in questa Rivista online, 15 aprile 2020, www.questionegiustizia.it/articolo/l-emergenza-economica-e-sociale-le-prime-risposte-del-diritto-penale_15-04-2020.php.
17. F. Greco e G. Melillo, Ecco perché il decreto-credito è pericoloso, in La Repubblica, 10 aprile 2020, https://rep.repubblica.it/pwa/generale/2020/04/10/news/coronavirus_decreto_credito_riclaggio_liquidita_imprese_melillo_greco-253701379/.
La tutela delle imprese dal pericolo mafioso
di Costantino Visconti
In ordine alle questioni rappresentate nei precedenti paragrafi, va subito posto un interrogativo ineludibile. Quali sono gli obiettivi di fondo che dovrebbero ispirare l’attività di prevenzione antimafia negli scenari economico-sociali che si prefigurano? Non basta limitarsi ad affermare un generico scopo di “contrasto” all’influenza criminale sulle imprese, in relazione al quale disponiamo di norme penali e processuali ad hoc e di strutture investigative “dedicate”.
La frontiera principale dovrebbe essere quella che porta a incentivare la trasparenza, i controlli e la responsabilità, nel tentativo di aiutare le imprese sì condizionabili da manovre mafiose, ma ancora in grado di assicurare occupazione e produttività. Tale auspicio è stato, di recente, formulato con dovizia di argomentazioni anche dal magistrato Giuseppe Pignatone, sino a qualche mese fa procuratore della Repubblica nella capitale[1].
E in realtà dallo stesso codice antimafia si desumono linee di intervento diversificate che, dopo l’ultima riforma del 2017, esibiscono con più chiarezza due priorità: “tempestività” e “terapeuticità”.
Da un lato, la tempestività è assicurata dalla prevenzione amministrativa. In particolare, i provvedimenti interdittivi emessi dalle autorità prefettizie sono in grado di impedire alle imprese insidiate da pericoli di infiltrazione mafiosa di intrattenere rapporti con la pubblica amministrazione (artt. 84 ss., codice antimafia).
Dall’altro, la terapeuticità è garantita dalla prevenzione giurisdizionale con l’amministrazione e il controllo giudiziario (artt. 34 e 34-bis codice antimafia), applicate dal tribunale delle misure di prevenzione ove sussistano sufficienti indizi per ritenere che un’attività economica sia condizionata da interessi mafiosi o li agevoli. Si tratta di misure “a sostegno” delle imprese, in quanto appunto finalizzate alla loro “bonifica”.
Anche in questo particolare frangente, dunque, il sistema di prevenzione sarebbe in grado di funzionare a doppio regime: un primo, più rapido e sommario, messo in moto dai prefetti che rilevano, e per dir così “isolano”, il contagio mafioso; il secondo, affidato alla magistratura ordinaria, più articolato e finalizzato a “curare e guarire” le imprese coinvolte. Tanto che questi due pilastri della prevenzione antimafia, l’uno amministrativo l’altro giurisdizionale, lungi dal costituire mondi non comunicanti tra loro, risultano piuttosto collegati da due ponti principali, che dovrebbero favorirne una funzionalità integrata.
Per un verso, infatti, i prefetti hanno l’obbligo di comunicare alla magistratura requirente i loro provvedimenti interdittivi (art. 91, comma 7-bis) in modo da consentire l’eventuale adozione di adeguate misure patrimoniali nei confronti delle aziende interessate, tra cui appunto quelle diverse dalla confisca, ossia amministrazione o controllo giudiziario. Si badi, la misura interdittiva è emessa, di regola, inaudita altera parte e sulla scorta di un plafond probatorio alquanto affievolito, comunque imperniato su prognosi di pericolo ispirate al “più probabile che non”. Da tale punto di vista, si tratta indubbiamente di un istituto fortemente sbilanciato a favore della tutela dell’ordine pubblico a scapito del diritto alla libertà d’impresa e per questa ragione non certo immune da profili di incostituzionalità, vista la robusta estensione applicativa connessa anche a recenti modifiche legislative[2]. L’entrata in gioco della giurisdizione ordinaria, invece, dovrebbe comportare un maggiore approfondimento probatorio, certamente agganciato a verifiche più rigorose, da compiersi nel contradditorio tra le parti sugli elementi di fatto da cui desumere i sufficienti indizi di condizionamento o agevolazione mafiosi nei riguardi dell’impresa. Ma, soprattutto, l’eventuale applicazione delle misure giurisdizionali garantisce la prosecuzione dell’attività aziendale e una prospettiva di recupero e protezione dei valori imprenditoriali dal condizionamento mafioso.
Per altro verso, la stessa azienda colpita da un’interdittiva antimafia può chiedere al tribunale delle misure di prevenzione l’applicazione “volontaria” del controllo giudiziario (art. 34-bis, comma 6). L’eventuale accoglimento della domanda privata, oltre al varo di un programma prescrizionale volto a rimuovere “terapeuticamente” le condizioni di vulnerabilità emerse, determina la sospensione degli effetti interdittivi del provvedimento prefettizio. Anche in questi casi, ma grazie all’iniziativa della stessa impresa, la giurisdizione è chiamata a svolgere un compito di salvataggio e recupero dell’azienda in qualche modo incappata in forme di contiguità criminale[3].
Nelle prime applicazioni, i tribunali hanno oscillato non poco nell’individuare i presupposti per l’accoglimento della domanda privata, troppo spesso optando per un approccio restrittivo o quantomeno diffidente. Anche se di recente le sezioni unite della Corte di cassazione hanno bene messo in luce la ratio dell’istituto, affermando che esso punta «al recupero della realtà aziendale alla libera concorrenza a seguito di un percorso emendativo», sicché nel valutare se accogliere la domanda privata i giudici devono affiancare alla diagnosi sullo «stato di condizionamento e infiltrazione» nel caso di specie, una prognosi sulle «concrete possibilità che la singola realtà aziendale ha o meno di compiere fruttuosamente il cammino verso il riallineamento con il contesto economico sano»[4].
È auspicabile che gli operatori (sia sul versante amministrativo sia su quello giudiziario e degli stessi enti imprenditoriali) abbiano chiara una visione d’insieme di tali strumenti di intervento e delle loro finalità. A maggior ragione nei contesti di crisi socio-economica che si vanno delineando, per il cui superamento sarà decisiva la ripresa produttiva del sistema delle imprese, anche al riparo dalle mire espansionistiche della criminalità mafiosa.
Il doppio regime della prevenzione antimafia – che individua “tempestivamente” la minaccia criminale e al contempo sostiene “terapeuticamente” le imprese colpite a liberarsene – ha bisogno certamente di guadagnarsi ancora il dovuto spazio nella cultura diffusa della prassi: un conto, infatti, sono le norme che lo disciplinano, altro è lo spirito che anima gli attori pubblici e privati.
1. G. Pignatone, Così l’Italia del dopo coronavirus potrà salvare le aziende a rischio infiltrazioni mafiose, in La Stampa, 17 aprile 2020, www.lastampa.it/topnews/primo-piano/2020/04/17/news/cosi-l-italia-del-dopo-coronavirus-potra-salvare-le-aziende-a-rischio-infiltrazioni-mafiose-1.38726432.
2. Per una disamina critica, vds. i contributi raccolti in G. Amarelli e S. Sticchi Damiani (a cura di), Le interdittive antimafia e le altre misure di contrasto all’infiltrazione mafiosa negli appalti pubblici, Giappichelli, Torino, 2019; di recente, tuttavia, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 57 del 2020, non ha accolto ben motivati profili di incostituzionalità.
3. Sull’istituto vds. C. Visconti, Il controllo giudiziario “volontario”: una moderna “messa alla prova” aziendale per una tutela recuperatoria contro le infiltrazioni mafiose, in Dir. pen. cont., 23 settembre 2019, https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/upload/9978-visconti2019a.pdf.
4. Cass., sez. unite, 26 settembre 2019, in Sistema penale, 28 novembre 2019, e ivi il commento di D. Albanese, Le Sezioni unite ridisegnano il volto del controllo giudiziario “volontario” (art. 34-bis, co. 6, d.lgs. 159/2011) e ne disciplinano i mezzi di impugnazione, www.sistemapenale.it/it/scheda/sezioni-unite-mezzi-impugnazione-controllo-giudiziario-volontario-34-bis-antimafia.