Pubbliche amministrazioni e imprese italiane nella crisi pandemica: tra vizi antichi e possibile resilienza
Il saggio analizza la crisi in corso con riguardo alle sue specificità di genesi ed effetti determinati dalla pandemia. Si confronta con i provvedimenti contingenti assunti per fronteggiarla e con le possibili strategie di ripartenza e di più lungo respiro degli attori istituzionali, delle imprese, del lavoro e delle parti sociali. Come sempre avvenuto nella storia del nostro Paese, si confrontano due possibili opzioni: partire dalla crisi per innestare un profondo processo di cambiamento sociale governato dalle istituzioni pubbliche, ma che attraversi l’intero corpo sociale; ovvero l’ennesima occasione perduta, magari all’insegna di un gattopardismo di ritorno. La vicenda si gioca soprattutto sul fronte del lavoro.
«Il capitale è la linfa vitale che scorre nel corpo politico
di tutte le società che definiamo capitalistiche, diffondendosi,
talvolta a goccia a goccia e talvolta come una inondazione, in ogni recesso del mondo abitato.
È grazie a questo flusso che noi viviamo sotto il capitalismo,
comperiamo il nostro pane quotidiano, così come le nostre case,
le nostre automobili, i telefoni cellulari,
le camicie, le scarpe e tutti i beni di cui
abbiamo bisogno per vivere.
Tassando questo flusso gli Stati accrescono il proprio potere,
la propria forza militare e la propria capacità di garantire
un tenore di vita adeguato ai propri cittadini.
Se il flusso si interrompe,
rallenta o, peggio ancora, viene sospeso,
si va incontro a una crisi del capitalismo
in cui la vita quotidiana non può più proseguire nella maniera
in cui eravamo abituati»
David Harvey, L’enigma del capitale
1. Distonie e atipicità della crisi in corso: effetti sul mercato del lavoro / 2. Lo Stato e la crisi: rileggendo Weber con gli occhi di Mariana Mazzucato / 3. L’impresa e la crisi: gli imprenditori italiani tra Schumpeter e pulsioni predatorie / 3.1. Finanziamenti alle imprese e garanzia di livelli occupazionali mediante accordi sindacali nel decreto “Liquidità”: vincolo alla libertà di impresa o relazioni cooperative per legge. Un inutile dibattito / 4. Il lavoro e la crisi: A) lavoro congelato, B) lavoro incentivato, C) lavoro attivato / 4.1. Polvere di stelle e polvere vera sullo smart working / 5. Le organizzazioni di interessi e la crisi: tra dialogo – e intelligenza – sociale e vuoto ritualismo / 6. Conclusioni
1. Distonie e atipicità della crisi in corso: effetti sul mercato del lavoro
Il saggio prende le mosse dalla crisi sistemica generata dalla pandemia. Gli effetti sanitari della crisi incominciano a essere contabilizzati; contemporaneamente, vengono messe a punto proposte di interventi e investimenti sul sistema sanitario mirati a non vanificare l’effetto di recovery, in caso di una nuova ondata del virus. L’obiettivo di queste misure sanitarie è di non rendere inutile la ingente immissione di liquidità sul sistema delle imprese e sulle famiglie che gli Stati, la Bce e l’Europa si accingono a fare. Il perdurare, o il riproporsi, delle paure e delle incertezze del lockdown farebbero confluire tali risorse su risparmi e non su consumi e investimenti, con ulteriore avvitamento recessivo se non addirittura depressivo[1].
Anche l’analisi dettagliata dei costi economici e soprattutto sociali della crisi, a oggi, è ancora in itinere[2]. Allo stato è impossibile fare previsioni di grandezze certe: quel che è sicuro, è l’entità senza precedenti dei danni economici già prodottisi, anche se i primi dati occupazionali dicono di riduzioni meno pesanti del previsto, ma concentrati su segmenti già occupazionalmente a rischio: giovani, precari, donne con ulteriori probabili incidenze demografiche nei Paesi, come l’Italia, già attraversati da tale crisi[3]. Gli effetti occupazionali ancora ritardati possono, tuttavia, produrre il tipico effetto “Fata Morgana”, almeno in Italia, in ragione del blocco dei licenziamenti e dell’uso massivo della cassa integrazione.
È possibile, tuttavia, evidenziare la profonda differenza, di dinamiche e di conseguenze, della crisi da Covid-19 rispetto alla crisi scoppiata nel 2008-2009[4]. In quest’ultimo caso, gli effetti della crisi finanziaria sull’economia reale si manifestarono progressivamente colpendo, selettivamente, soprattutto gli Stati con i debiti sovrani più esposti, in ragione delle misure di austerità imposte dalle autorità monetarie; il che ha prodotto un indebolimento dei sistemi di welfare e dei diritti sociali nazionali dei Paesi più colpiti perché finanziariamente più fragili, alla fine ripercuotendosi e generando evidenti fibrillazioni dello stesso modello sociale europeo la cui identificazione e affermazione ha subito, in ragione delle dominanti politiche monetarie e di austerità, una stasi se non un regresso[5].
Nel caso della crisi generata dal Covid-19 due sono, almeno, gli elementi che la rendono, quanto a genesi e conseguenze, non paragonabile non solo a quella finanziaria del 2008, ma ad altre epocali: quella del 1929, ma certamente anche la crisi petrolifera dei primi anni settanta del secolo scorso[6]. Si tratta di tratti distintivi di difficile interpretazione unitaria, nella chiave, prospettica, del riassetto degli equilibri non solo nazionali, ma soprattutto globali: è in gioco, se non il futuro, certamente l’assetto della globalizzazione realizzata negli ultimi tre decenni[7].
Il primo tratto distintivo è il suo carattere realmente e intensamente mondiale. Si è parlato di una prima, vera e traumatica, crisi della globalizzazione post-moderna, peraltro non innescata da fattori politici né economici: i risorgenti protezionismi nazionali dell’ultimo decennio, veicolati da politiche e ideologie sovraniste[8], letti come sinistri scricchiolii della governance economica globale, costituiscono, al confronto, solo pallidi epifenomeni[9].
Si è di fronte a una recessione globale non soltanto in ragione del suo incedere al passo, e a braccetto quasi, con la pandemia, di cui ha mutuato la violenza virale: si è passati dal ciclo economico ordinario al blocco quasi totale della produzione, e della circolazione di mezzi e della mobilità delle persone a essa servente, in pochi giorni, senza alcun progressivo rallentamento e senza il tempo neppure di metabolizzare la portata di quel che stava avvenendo[10]: un’impennata di processi recessivi – è il caso di dire “virulenta” – senza precedenti. Onde l’immagine della “V” o – meno ottimisticamente come nel rapporto Ocse[11] –, della “U” come ipotesi grafica, descrittiva della possibile ripresa, salvo ricadute.
Se gli effetti sui sistemi sanitari sono stati diversificati e a macchia di leopardo, anche all’interno dei singoli Stati nazionali[12], gli effetti economici e occupazionali sono globali con misure omogenee nelle conseguenze ma differenziate negli strumenti di contrasto[13]. Sono state, peraltro, colpite quasi chirurgicamente le connessioni, le filiere e le catene di produzione globale[14], con un peculiare effetto distonico: mentre le catene di produzione e scambio materiali (e i settori dipendenti da esse) venivano destrutturate o paralizzate, si è rafforzata contemporaneamente la rete di connessione virtuale, che non solo ha retto ma si è fortemente potenziata: l’economia della rete, in tutte le sue manifestazioni (produzione e distribuzione di servizi e beni finali e strumentali) si è così definitivamente proposta non solo come integrazione innovativa dei settori tradizionali, ma essa stessa come generatrice autonoma di valore e ricchezza; con accentuazione dei problemi dell’ineguale distribuzione dell’immenso valore da essa, e/o per mezzo di essa, prodotto[15]. Onde il neologismo di «digi-demia»[16].
Accanto a questo fenomeno, si è contemporaneamente rafforzata anche l’economia e la produzione materiale di prossimità, con una riproposizione innovativa, tutta da interpretare nelle sue conseguenze prospettiche, della dialettica locale/globale[17].
Un secondo tratto di peculiarità, altrettanto distonico rispetto ad altre crisi anche non convenzionali, è la asimmetricità degli effetti prodotti. Tutte le analisi di autorevoli enti e agenzie di ricerca segnalano questo dato, fornendo i primi dati aggregati[18]. È quel che è stato descritto come l’«effetto gruviera»[19]: la destrutturazione sociale ed economica da Covid-19 ha colpito, e continua a colpire, molto più selettivamente e differenziatamente di come facevano le crisi del passato, concentrate soprattutto sui settori della manifattura e di produzione di beni di consumo, da dove si irradiava all’intero sistema economico e sociale, manifestandosi tradizionalmente come crisi di domanda o di sovrapproduzione[20].
Poiché si tratta di crisi in primo luogo sanitaria, poi di offerta durante il lockdown e ora di domanda in ragione dell’incertezza dei consumatori, essa ha trasferito la logica di incidenza random del contagio (per fasce di età, genere, malattie pregresse, addirittura gruppo sanguigno) al sistema produttivo, modellando frattalmente la morfologia della crisi economica[21]. Si è cioè strutturata come crisi “bio-economica”, colpendo di più i settori esposti ai meccanismi di trasmissione biologica del contagio: tutto ciò che produttivamente dipende, direttamente o indirettamente, da trasporti (conduzione) e assembramenti (contagio); in ciò consegnandoci un quadro sinottico di settori di crisi a diversa intensità di rischio finanziario e occupazionale; l’intensità degli effetti prodotti dipende, infatti, dalla variabile difficoltà di riorganizzazione, dal blocco più o meno temporaneo, dal rallentamento della ripresa: tutti elementi dipendenti dalle movenze del veicolo biologico. Con una intersezione tra ambiente ed economia mai così evidente nella storia dell’umanità: la velocità del contagio è direttamente dipendente dalla velocità di comunicazione e di spostamento del suo veicolo (l’essere umano), a sua volta dipendente dal tasso di integrazione globale delle attività economiche, che ben si combina con le caratteristiche biologiche e opportunistiche del virus, anch’esso, a detta dei virologi, vero e proprio campione di velocità trasmissiva. Una tempesta perfetta.
Ne viene fuori, come le migliori analisi della crisi incominciano a descrivere, un quadro fortemente diadico: di luce e di lutti, per mutuare il barocchismo elegante di un grande scrittore siciliano[22], la cui percezione di ambivalenza oppositiva può estendersi oggi dalla sua isola allo sguardo su una intera nazione, se non sul mondo intero.
Una descrizione articolata nelle varie fasi di riapertura viene da un illuminante rapporto di McKinsey: vengono descritti l’evolversi del contagio, la mappatura dei rischi e delle opportunità del post-Covid, i suoi variegati effetti sulle economie nazionali, oltre che le differenziate modalità di contenimento[23]. L’incertezza, legata all’evolversi della pandemia, sarà elemento comune ai vari contesti, e dominante nelle fasi che si succederanno[24].
Alcune evidenze e tendenze di cambiamento, secondo il citato rapporto McKinsey, sono però individuabili:
a) con riguardo alla metamorfosi della struttura della domanda: con un incremento dei consumi online, con un orientamento verso i grandi marchi e una maggiore domanda di beni e attività locali (schede nn. 34-35);
b) con riguardo a un’alterazione della morfologia del lavoro, attraverso l’affermazione di un modello ibrido (in sede e a distanza), lascito della pandemia, che non evita, però, l’accentuazione della vulnerabilità (di circa un terzo) delle occupazioni tradizionali concentrate tra le forze lavoro più deboli[25];
c) con riguardo all’accentuazione dell’incertezza regolativa dovuta a un’ulteriore perdita di fiducia – già declinante nella fase pre-Covid – nei meccanismi autoregolatori del mercato e con rinnovata fiducia in strumenti regolatori pubblici e statali in particolare, collegati soprattutto agli stimulus packages, differenziati tra gli Stati, mirati ad alleviare l’impatto sociale ed economico del contagio (schede nn. 36-37)[26];
d) con riguardo ai risultati, predittivamente più positivi, laddove le leadership e i governi nazionali saranno in grado di agire con vigore decisionale e velocità e non attraverso rituale e lenta pianificazione – «return is a muscle, not a plan» – (schede nn. 39-40)[27].
In questo scenario, è possibile evidenziare alcune specificità nazionali riferite alle condizioni di rilancio di una efficace azione dello Stato e della pubblica amministrazione che viene, quasi unanimemente, ritenuta conditio sine qua non di ogni plausibile ipotesi di recovery (vds. infra, § 2); alle possibili strategie, vincenti, di impresa, anche in considerazione di vincoli e opportunità contenuti nella legislazione di sostegno all’economia (§ 3); alle diverse opzioni a disposizione di decisori politici, attori sociali e organizzazioni di interessi, in bilico tra neo-assistenzialismo e sviluppo sostenibile (§ 4); e infine alle prospettive, con riguardo all’agenda sociale, del rafforzamento di metodi di democrazia negoziale riflessiva, ma non autoreferenziale o ritualistica (§ 5).
2. Lo Stato e la crisi: rileggendo Weber con gli occhi di Mariana Mazzucato
Il ritorno dello Stato, quale agente centrale delle strategie di recovery post-pandemiche, è riconosciuto anche da sponde e settori non certamente sospettabili di ideologie neo-stataliste. Il flusso di denaro pubblico che sarà immesso nell’economia reale e l’esigenza di stabilizzazione di alcuni settori privati particolarmente colpiti, saranno di tale rilievo che è impossibile prescindere da una rinnovata stagione di protagonismo dello Stato rispetto al mercato. Tale tendenza è di piena evidenza. Si tratta di una raffica di provvedimenti, alcuni di emergenza, altri che si proiettano nel futuro come veri e propri cambiamenti di policy, ma che hanno tutti un comune denominatore: la rinnovata centralità dell’azione dello Stato[28].
Quel che si discute è se si tratti di un mutamento contingente, emergenziale o se esso preluda a un vero cambio di paradigma nel rapporto Stato-mercato. In tal caso, il riferimento a Kuhn sarebbe quanto mai pertinente e adeguato alla sua teorizzazione.
Che la percezione della relazione tra Stato e mercato stesse cambiando già prima della pandemia era elemento largamente avvertito. E tuttavia non si può sfuggire alla sensazione che, nell’arco di pochi mesi, l’inversione della relazione di gerarchia tra i contermini appare non solo più o meno duratura, ma anche prospettica: i lunghi decenni di egemonia dell’ideologia del Washington Consensus sembrano, per ora almeno, accantonati.
Quel che tuttavia appare ancora confutabile riguarda la modalità della rinnovata stagione di intervento pubblico nell’economia, soprattutto con riguardo alla sua caratura. I dubbi non riguardo l’an o il quomodo dell’intervento pubblico, quanto, soprattutto, la sua qualità.
È ampiamente riconosciuto che tale qualità si correla alle diverse caratteristiche degli Stati nazionali e ai relativi modelli, più o meno funzionali, di amministrazione e organizzazione pubblica.
Non si scopre nulla dicendo che l’effettività e l’efficacia delle innumerevoli policy pubbliche di contrasto agli effetti della crisi Covid, in atto o in cantiere, dipendono, per intero, dai terminali operativi delle amministrazioni pubbliche e dai relativi caratteri nazionali; si tratta, a ben vedere, del tormentone del dibattito pubblico italiano sulle iniziative del Governo in carica in bilico tra messaggi di immagine e scarsa effettività delle misure già prese e programmate[29].
Detto altrimenti, la qualità di dispositivi pubblici in grado di canalizzare, sulla creazione di valore pubblico, le ingenti risorse messe a disposizione degli operatori privati, delle famiglie e dei consumatori finali[30] dipende direttamente dalla organizzazione dello Stato nazionale e dall’efficienza finale della sua azione.
Peraltro, il dibattito teorico sulla nuova centralità dello Stato e delle politiche pubbliche si proietta oltre l’emergenza da Covid-19, riguardando le linee strategiche di uno sviluppo equilibrato, equo e ambientalmente sostenibile che deve centrarsi su strategie cooperative degli Stati nazionali attraverso la loro partecipazione in organismi di governance necessariamente multilateral[31]. Pare evidente in tal senso, con riguardo all’efficacia dell’azione degli Stati dell’Ue, l’esigenza di valorizzare istituzioni, metodo e politiche comunitarie su quelle intergovernative[32].
In questa prospettiva, certamente consolidata dalla crisi Covid-19, lo Stato e le politiche pubbliche riacquistano una funzione strategica non solo nella redistribuzione della ricchezza prodotta attraverso la leva fiscale[33], ma anche e soprattutto nell’attività di creazione di valore pubblico[34].
Si tratta ovviamente di un cambiamento di passo e di prospettiva antitetica al pensiero neoliberale, dominante nell’ultimo trentennio, di riduzione “al minimo” della funzione dello Stato; onde la rivalutazione della cooperazione proattiva e del partenariato pubblico/privato.
Scrive, a tal proposito, Mariana Mazzucato, in un passaggio che appare una tra le critiche più corrosive che sono state di recente proposte alla teoria della subalternità dello Stato nei confronti del mercato:
«Agli impiegati statali viene detto di tirarsi indietro, di minimizzare i costi, di pensare come il settore privato e di aver paura di sbagliare. Ai dipartimenti statali viene ordinato di tagliare i costi, diminuendo anche inevitabilmente le competenze e la capacità delle strutture pubbliche (dipartimenti, agenzie, ecc.). Quando lo stato smette d’investire nella propria capacità, diventa meno sicuro di sé stesso, meno abile, e aumenta la probabilità di un fallimento. Diventa più difficile giustificare l’esistenza di una particolare funzione statale, e si perviene a ulteriori tagli o infine alla privatizzazione. Questa mancanza di fede nello stato diventa quindi una profezia che si autoavvera: quando non crediamo nella capacità dello stato di creare valore, alla fine non può crearlo. E, quando, in effetti, crea valore, viene trattato come un successo del settore privato o passa inosservato»[35].
Una tale proposta mette però al centro non l’azione dello Stato tout court, ma una sua caratterizzazione specificamente qualitativa e selettiva, con una chiara percezione di cosa sia il valore pubblico in concreto, e quale sia la strategia di ottimale perseguimento, il metodo e gli attori in grado di interpretare al meglio il management change (i manager pubblici)[36]. Non può nascondersi il dubbio che l’economista, soprattutto quando descrive le dinamiche effettive dello Stato innovatore[37], abbia come retro-pensiero l’imponente programma di riforma della pubblica amministrazione americana, realizzato dal vicepresidente Al Gore («National Partnership for Reinventing Government»)[38] piuttosto che l’inane sequenza delle riforme italiane, quasi tutte ispirate al modello di cambiamento “ordinamentale” e non certamente osmotico o processuale[39].
E la qualità di tale azione dipende, secondo la non dimenticata lezione weberiana, dai caratteri della sua burocrazia e della classe politica professionale che, periodicamente, indirizza e governa. Ed è proprio con riguardo alla peculiarità della situazione italiana che il cerchio proposto da Mariana Mazzucato potrebbe non chiudersi.
Scrive, infatti, Max Weber a proposito dell’importante concetto di “intensità dell’amministrazione”:
«Più che l’espansione estensiva e quantitativa, è però motivo della burocratizzazione l’espansione intensiva e qualitativa e lo svolgimento interno dell’ambito dei compiti amministrativi. La direzione nella quale si realizza tale sviluppo e la sua occasione possono essere assai diversi»[40].
Altrettanto importante, oltre che simmetrica a quella del funzionario burocratico, è la concezione weberiana del funzionario politico:
«Il vero funzionario (…) per l’essenza stessa della sua specifica professione non deve fare politica bensì “amministrare” tenendosi soprattutto al di sopra delle parti. Egli deve svolgere le sue funzioni sine ira et studio “senza ira né pregiudizi”. E infatti lo spirito di parte, la lotta, la passione – ira et studium – sono l’elemento del capo politico», ma non dell’amministratore politico[41].
Orbene, già le weberiane precondizioni dell’azione qualitativa dello Stato, sembrano assenti in Italia per ragioni sulle quali non è possibile indugiare in questa sede. Basti solo ricordare che Sabino Cassese definisce addirittura pre-tayloristica, e quindi pre-weberiana, l’amministrazione italiana[42]. Indagini anche recenti[43] ci dicono che l’amministrazione pubblica italiana, storicamente, rappresenta quasi un esperimento in vitro della teoria della scelta pubblica e dei fallimenti dello Stato da essa sostenuta[44].
Di fronte al persistere di tale modello negativo, si è tentato di rimediare con le riforme all’insegna della trasparenza e dell’anticorruzione, tra il primo e il secondo decennio del secolo, con impronta moralistica più che di etica pubblica e valoriale[45]; con il grande equivoco giusto il quale quel che è una precondizione della funzionalità dello Stato (il comportamento onesto dei pubblici funzionari e dei manager) possa finire per costituire un obiettivo pervasivo e la soluzione di ogni problema di buon andamento; precondizione peraltro realizzata tramite la legge[46].
Quel che rimane di tale produzione normativa alluvionale è un surplus di controlli formali e burocratici: una “produzione di carta a mezzo di carta”, per mutuare Piero Sraffa, che ha finito per riproporre il modello di amministrazione per processi e non per risultati (il modello “ordinamentale”, come lo definisce Butera), che rallenta e distrae dai compiti di gestione reale: un vero e proprio virus di inefficienza inoculato dallo stesso legislatore.
Il tutto accompagnato da una capillare rete di controlli giudiziali a vario livello (penale e amministrativo/contabile, per non parlare di quelli per mimesi dell’Anac) e di diffusa imputazione di responsabilità; il che ha inibito ogni atteggiamento creativo, coraggioso e intraprendente (il manager pubblico come esploratore)[47] e ha prodotto, invece, il fenomeno della cd. amministrazione difensiva all’insegna del motto “meglio fermi che imputati”[48].
È il grande tema della riforma dello Stato e della pubblica amministrazione italiana, funzionale anche al miglior funzionamento del mercato[49], sul quale non occorre tornare in questa sede , ma che certo non può essere affrontato con faciloneria o con l’entusiasmo da neofita di chi vede in uno strumento particolare (il lavoro a distanza sperimentato durante il lockdown) la panacea di tutti i suoi mali atavici[50]; ma neppure affidandosi alla metafisica semplificatrice di un ennesimo decreto che di semplificazione sembrerebbe avere solo il nome[51].
Rimane comunque il fatto che ogni plausibile ipotesi di ripresa post-crisi Covid passa attraverso un rilancio di politiche pubbliche che implichino sia visione strategica (cosa è il valore pubblico)[52], sia capacità implementativa: quest’ultima opzione è affidata non tanto all’ennesima riforma amministrativa, ma a un cambiamento osmotico e culturale dell’amministrazione, qui ed ora, affidato magari a una nuova generazione di manager pubblici (non necessariamente tale per età, ma per formazione e spirito), in grado di costituire un corpo organico e coeso, socializzato alla cultura della produzione di valore pubblico; pertanto, in grado di contribuire alla costituzione di quella comunità epistemica della pubblica amministrazione di cui parla Sabino Cassese[53], conditio sine qua non di ogni possibile strategia di ripresa e di sviluppo: l’amministrazione motore di sviluppo e cambiamento come substrato materiale e operativo dello Stato innovatore.
Ben più articolate e degne di riflessioni distese, che non possono essere contenute in questa sede, sembrano le proposte della Commissione Colao, proprio perché tali, forse, presto accantonate nel dibattito pubblico[54]; ad esse fa da pendant il Piano nazionale di Riforma, che acquisisce nuova centralità e importanza perché ad esso si agganciano gli aiuti europei del Recovery Plan[55].
3. L’impresa e la crisi: gli imprenditori italiani tra Schumpeter e pulsioni predatorie
Discorso analogo a quello sulle pubbliche amministrazioni può essere riferito al sistema delle imprese e degli imprenditori italiani. Anche in questo caso la cifra del capitalismo italiano[56], della storia della sua industria e dei suoi capitani[57] è fotografata dalla istantanea bufaliniana: la luce e il lutto. Non sono mancati i grandi pionieri e gli innovatori schumpeteriani, tali da tenere il confronto con gli imprenditori che hanno costituito l’imprinting della grande cultura di impresa del capitalismo moderno, europeo e americano[58]; ma non mancano neppure storie imprenditoriali che ci dicono di una forte componente di familismo d’impresa (amorale) e di spirito predatorio ed estrattivo nei confronti dello Stato[59]. Se, inoltre, la cultura del lavoro, o del non lavoro, assistito è ampiamente diffusa in vari settori della società, della politica e del sindacato italiano, anche quella dell’impresa assistita non è da meno. Il rischio è proprio che l’attesa di aiuti pubblici, provenienti dal Next generation EU Fund, mediati pur sempre dalle autorità pubbliche statali e regionali, lungi dal promuovere una dinamica e resiliente cultura e pratica della ripartenza, finisca per promuovere un atteggiamento non di anticipo, ma di attesa e di rassegnazione a una sorta di «Corona socialism»[60]: tutti fermi ad aspettare il Godot dell’aiuto europeo. Quella del “prendi i soldi e scappa”[61], del resto, anche per l’assenza di adeguata programmazione e progettazione pubblica, è stata spesso diffusa filosofia e pratica di imprese (italiane prima ancora che delle multinazionali straniere) di fronte alle risorse del fondo sociale europeo; il che ha prodotto l’incremento della farraginosità dei controlli imposti dalle autorità europee e il pernicioso circuito: fondi a disposizione, mancanza di progettazione e capacità implementativa e di spesa, fondi congelati e, infine, restituiti. Si tratta di un rischio concreto che, secondo molti osservatori, potrebbe riproporsi nella nuova stagione di gestione degli aiuti nella post-emergenza (la cd. “fase 3” o “4”).
Occorre, peraltro, ricordare che le dinamiche dei primi trasferimenti dello Stato italiano alle imprese hanno raccontato di contraddizioni e vischiosità di sistema, più che di soggettivi comportamenti degli attori, che vanno oltre le difficoltà comprensibilmente registratesi anche in altri contesti e giustificate dalla eccezionalità simmetrica, one shot e improvvisa, della crisi pandemica. Così come hanno detto pure – ma la prudenza è d’obbligo in attesa di effettivi e analitici riscontri – di veri e propri comportamenti opportunistici da parte di imprese nel ricorso agli ammortizzatori sociali[62].
Gli aiuti finanziari a breve termine alle imprese, all’insegna della riparazione dei danni da blocco improvviso del ciclo produttivo[63], hanno giustificato, un po’ ovunque, il carattere non selettivo e universale (a pioggia) del sostegno, certamente importante nell’immediato, ma che rischia di produrre l’atrofizzazione del sistema economico e imprenditoriale se procrastinato oltre un certo limite[64]. Analisi accreditate dicono di trasferimenti finanziari, nella fase di emergenza, anche a chi non ha avuto effettivo bisogno[65]: sia a imprese (per esempio, in Italia, manovra sull’Irap generalizzata e ammortizzatori che si presumono indebiti), ma anche a lavoratori che hanno visto addirittura incrementare i propri redditi pre-Covid o, nel caso del settore pubblico, con esenzioni lavorative generalizzate a reddito invariato (vds. infra, § 4.1.). Si tratta di una logica che va ovviamente invertita nella fase 3[66], in cui gli aiuti devono essere funzionali a investimenti mirati e coerenti con strategie di sviluppo che la stessa Ue delinea, se non come condizionalità tecniche, come condizionalità politiche[67]: investimenti sul settore sanitario/nuovo Mes; green economy, reti digitali e altre grandi infrastrutture/Recovery Fund; nuovi armonizzatori finanziati dall’Ue/fondi SURE («Support to mitigate Unemployment Risk in a Emergency»)[68]; oltre al sostegno agli scostamenti di bilancio per la gestione dell’emergenza sociale consentiti e di fatto finanziati dall’acquisto di titoli di stato da parte della Bce[69].
Si tratta non solo di premiare, ma di incentivare le imprese più disponibili a rischiare e a innovarsi, canalizzando in questo settore le ingenti risorse provenienti dal Next Generation EU, riprendendo la strada interrotta del «Piano Nazionale Impresa 4.0» del ministro Calenda nel 2018, che ha costituito una vera best practice di politica industriale di incentivo all’innovazione[70]. In Italia, la Commissione Colao[71] ha individuato l’high road di un possibile piano di ripresa che metta al centro una riscoperta cultura di impresa, magari corroborata da una positiva relazione di partenariato pubblico-privato; essa assume un ruolo particolarmente importante nella misura in cui cresce notevolmente il peso dello Stato nell’economia reale, secondo modalità di cui si discute non solo in Italia, non escludendosi più come un tabù la stessa partecipazione pubblica diretta nel capitale delle imprese private[72]. Molte delle misure proposte dal piano Colao sono transitate e incardinate nel Piano nazionale di Riforma 2020. Altre incominciano a fare capolino, anche se in maniera rapsodica e a-sistematica nei decreti meno legati all’emergenza[73].
Pure in tal caso viene, tuttavia, in rilievo una peculiarità storico-culturale, non proprio positiva, del modello di capitalismo italiano: l’assenza di un automatismo fiduciario tra attori pubblici, privati e privati-collettivi o di norme sociali spontaneamente rispettate secondo la costruzione di teorici dell’economia istituzionalista; esso è notoriamente una riconosciuta precondizione di funzionamento di sistema proprio per le prassi virtuose (non regolabili dal diritto) che aiuta a diffondere in termini di senso civico e di accumulo di capitale sociale[74]. In diversi contesti di capitalismo evoluto (europeo continentale[75], per non parlare di esempi culturalmente eccentrici e ibridi anche per la forte e positiva influenza religiosa, come il Giappone)[76] è l’automatismo fiduciario che produce, come effetto sociale e istituzionale virtuoso, fluidificazione dei meccanismi relazionali nei rapporti tra Stato e imprese. Sia nella fase dell’ausilio incondizionato, sia in quella delle scelte pubbliche strategiche della recovery, moduli virtuosi e fluidi di cooperazione pubblico/privato si realizzano meglio, quasi in automatico, quanto più sono rodati i funzionamenti delle istituzioni dell’economia, e coese e fiduciarie le relazioni interistituzionali e tra le istituzioni e i privati. Del resto, alla base di ogni processo di riforma e cambiamento reale delle società che si definiscono liberali, come spiega Adam Gopnik, si pongono le modifiche incrementali e cumulative, dal basso e quotidiane, basate su «rapporti di fiducia, simpatia, tolleranza e compassione»: è quel che l’autore definisce «il liberalismo di processo»[77].
In Italia lo Stato e i suoi terminali, già nella fase 1 della crisi, non sono stati in grado di erogare direttamente, fluidamente, rapidamente e automaticamente gli aiuti finanziari occorrenti, con tassi minimi di controllo (procedimenti diffusi di autocertificazione)[78]; non solo per una pervasiva cultura del controllo ex ante, non solo per inefficienza della sua burocrazia pubblica ma anche privata (quella degli istituti bancari); non solo per la farraginosità dei meccanismi procedurali e per la disorganizzazione dei suoi apparati, fattori che costituiscono, comunque, una componente quasi strutturale del sistema, come la vicenda dell’erogazione degli ammortizzatori sociali e dei comportamenti degli enti erogatori (Inps e Regioni) ha messo in luce[79]. Ma soprattutto perché manca una componente basica di un contratto sociale funzionante, che riguarda molto da vicino il principio di responsabilità e la cultura dei doveri civici: vale a dire la fiducia dei privati nello Stato e nella prevedibilità dei suoi comportamenti e delle obbligazioni che assume e, all’inverso, la fiducia dello Stato e dei suoi apparati nei confronti di comportamenti “normali”, e non frodatori o elusivi, degli operatori economici. È notoriamente acclarato che il tasso di pervasività di controlli formali inutili che incidono sulla produttività di sistema è direttamente proporzionale all’assenza di fiducia reciproca degli operatori nel mercato e nei rapporti con lo Stato[80].
Soprattutto il circuito stato-imprese-enti di mediazione (sistema bancario), come dimostra tutta la vicenda dell’attuazione del decreto “Liquidità”[81], è stato costruito all’insegna della reciproca e diffusa diffidenza: le banche nei confronti delle imprese e dello Stato in funzione di garante; le imprese e gli imprenditori, soprattutto minori, nei confronti delle amministrazioni pubbliche e delle banche; lo Stato nei confronti di tutti i suoi interlocutori.
È il tema del gap di fiducia sistemica (“il chi si fida di chi”), appena sfiorato e posto in controluce dalla relazione della Commissione Colao, che rinvia non certo a un momento di terapia psicanalitica collettiva della nazione, delle sue componenti intermedie e della stessa società civile, ma che certamente racconta del bisogno di un change di etica pubblica, presupposto di grandi riforme morali dal basso mai realizzate e causa del mancato accumulo di capitale sociale e non certo surrogabili dalla morale pubblica imposta per legge o da pratiche giustizialiste, o dalla ricorrente polemica contro le varie categorie di “furbetti[82].
Anche tenendo conto di questi presupposti di cambiamento politico e culturale, l’idea di “vasto programma” di sostegno alle imprese contenuto nelle articolate proposte del rapporto Colao può costituire una base reale di discussione e operatività, a ogni livello, per la ripartenza[83]. Le proposte e gli obiettivi di breve, medio e lungo periodo della recovery, e anche l’indicazione degli strumenti per perseguirli, sono ampiamente e dettagliatamente indicati in quel documento; essi rischiano di essere gravemente sottovalutati e, alla fine, triturati nella routine distruttiva e autolesionista del dibattito pubblico italiano e di un’azione di governo più attenta ai propri equilibri interni che all’attuazione di quelle indicazioni[84].
3.1. Finanziamenti alle imprese e garanzia di livelli occupazionali mediante accordi sindacali nel decreto “Liquidità”: vincolo alla libertà di impresa o relazioni cooperative per legge. Un inutile dibattito
In questo contesto un circoscritto dibattito è stato sollevato dall’art. 1, comma 2, lett. l del dl n. 23/2020[85]. Si tratta di garanzie statali (SACE) per l’accesso a forme di garanzie speciali per crediti bancari alle imprese in crisi di liquidità. Nel lungo elenco di condizioni della disposizione in commento è prevista pure l’assunzione dell’impegno, da parte dell’impresa ammessa al beneficio, di «gestire i livelli occupazionali mediante accordi sindacali».
Come è stato rilevato dai primi commentatori[86], la norma è di tenore generico: non detta alcuna indicazione in merito ai requisiti di rappresentatività dei sindacati ammessi a concludere gli «accordi sindacali»; non precisa quale debba essere l’oggetto degli accordi medesimi; non chiarisce cosa debba intendersi per gestione condivisa dei «livelli occupazionali»; non dà alcuna indicazione circa il timing dell’effetto occupazionale (prima o dopo l’agevolazione), né tantomeno specifica la dinamica quantitativa dell’effetto occupazionale conservativo: blocco totale o parziale dei licenziamenti; non chiarisce la natura e la portata del vincolo; si tratta di un “impegno” (onere) a fare accordi per l’impresa ammessa al beneficio, genericamente, con i sindacati. In sintesi, una “norma manifesto” o quasi.
Malgrado si tratti di una disposizione giuridicamente sbiadita, essa ha suscitato una breve fiammata polemica, di taglio giornalistico: da un lato, chi vi ha visto un grave attentato alla libertà di impresa, nella misura in cui la si interpreta come possibile transito, a regime, verso un potere di veto in capo al sindacato sui licenziamenti, senza alcun limite temporale, foriera di possibili interpretazioni estensive e di obblighi aggiuntivi rispetto a quelli informativi e di consultazione già contenuti nella legge n. 223/1991[87]; dall’altro, chi l’ha interpretata, invece, come meramente ricognitiva dello stato dell’arte delle relazioni cooperative tra imprese e sindacati in Italia, e comunque in linea con il metodo riflessivo che segna il diritto da emergenza Covid soprattutto in materia di prevenzione e sicurezza nei luoghi di lavoro, ma non solo, con un virtuoso rinvio circolare tra legge e accordi tra le parti sociali[88].
La polemica appare inutile in ragione del fatto che la norma, oltre a essere provvisoria, è difficilmente produttiva di effetti giuridici, certamente meno della ben più efficace e pregnante normativa sul blocco (reale) dei licenziamenti (infra, § 4). Anzi, è praticamente assorbita e resa inutile da quella: se, comunque, l’impresa non può licenziare nella fase di emergenza (nel momento in cui si scrive, fino al periodo mobile 15 novembre/31 dicembre), la richiesta di condizionare le garanzie di credito all’impegno a non licenziare è del tutto ridondante. Il vincolo è, infatti, generato aliunde, vale a dire è (ben) presente nella partizione di legislazione emergenziale dedicata direttamente al lavoro. È la disposizione sul blocco dei licenziamenti (art. 46 dl n. 18/2020) ribadita, con qualche cambiamento, anche nel decreto “Agosto” (art. 14 dl n. 104/2020), che rende inutile la norma frettolosamente inserita nella partizione di legislazione dedicata agli aiuti all’impresa; essa, se si vuol essere precisi, sino a interventi più strutturali e non solo emergenziali, si limita a derubricare a onere quello che nella legislazione del lavoro è un vero e proprio obbligo di non licenziare.
La polemica serve probabilmente ad affilare le armi ideologiche in vista del “mondo che verrà”: da un parte chi non si fida della libertà di impresa e vuole dirigerne e condizionare i comportamenti soprattutto attraverso vincoli normativi; dall’altra le imprese che temono ingerenze non tollerabili rispetto a provvedimenti, più auspicati, di aiuto non condizionato e che non si fidano di un legislatore e di una amministrazione che agiscono per ostacolare, anziché promuovere e affiancare.
Si aggirano, così, i veri nodi di fondo: in mancanza di fiducia sistemica e di meccanismi implementativi automatici, è il legislatore che si accontenta di disposti, in questo caso, inutili, con i quali si premura di colmare, con norme manifesto, il gap di capacità e di efficienza operativa nelle relazioni tra gli attori per la gestione dell’emergenza.
4. Il lavoro e la crisi: A) lavoro congelato, B) lavoro incentivato, C) lavoro attivato
Impresa e lavoro costituiscono endiadi indispensabili della recovery. Lo Stato può svolgere una funzione di facilitatore e di creatore di valore pubblico in una strategia coerente di sviluppo indirizzato. Il ruolo dell’impresa e, al suo interno, del lavoro produttivo, rimane tuttavia indeclinabile e centrale in ogni ipotesi di ripresa e di creazione di valore dopo la fase dei sussidi[89]. La scelta, nella fase dell’emergenza e del blocco produttivo, è stata di salvaguardare non solo i redditi, ma soprattutto i posti di lavoro privilegiando, in guise differenziate, strumenti di compensazione monetaria della riduzione di orario; questo non solo in Italia, ma in quasi tutti i Paesi europei, compreso il Regno Unito[90]. Negli Usa, come è noto, l’opzione è stata strutturalmente diversa, ma funzionalmente analoga: non impedire i licenziamenti, ma tutelare comunque i redditi dei lavoratori colpiti dal blocco, incrementando i sussidi diretti a imprenditori e a lavoratori (l’helicopter money) e incentivando fortemente le imprese a riassumere nella ripresa, possibilmente gli stessi lavoratori licenziati.
Sono pure note le diverse filosofie di politica del lavoro alla base degli strumenti di sussidio dei posti di lavoro in crisi (politiche passive) e di finanziamento della occupabilità e facilitazione delle transizioni (politiche attive)[91]. Tale linea di separazione di politiche e di strumenti, concettualmente e operativamente chiara in tempi ordinari[92], si è comprensibilmente sbiadita e offuscata nella straordinarietà della crisi pandemica, soprattutto nella fase acuta.
La maggioranza degli Stati europei, come detto, ha fatto ricorso iniziale più a misure di congelamento piuttosto che di facilitazione delle transizioni occupazionali. Il che è comprensibile: dalle vampate dell’incendio ci si difende mettendosi al riparo e salvando il salvabile; nella specie, l’asset patrimoniale – costituito dalle professionalità, know how cognitivo e relazioni umane fiduciarie – acquisito e consolidato dalle imprese fino allo scoppio improvviso della crisi e comunque necessario per la ripartenza.
Ovviamente, il quadro cambia negli scenari post-Covid, qualunque essi dovessero essere. Tutte le analisi delle autorevoli istituzioni citate, ancorché comprensibilmente caute e provvisorie, convergono sull’opportunità di un profondo e accelerato processo di cambiamento della morfologia produttiva e conseguentemente del lavoro; la crisi implicherà un rivolgimento del tessuto con settori perdenti e settori vincenti, con conseguenti necessari processi di mobilità e riconversione professionale[93]. Il che implica, per riprendere la metafora dell’incendio improvviso, interventi mirati a facilitare la distruzione di ruderi definitivamente compromessi e ad agevolare la ricostruzione di nuovi asset in cui la capacità di creazione e redistribuzione capillare di beni pubblici immateriali quali la conoscenza, la formazione e la riqualificazione professionale diventa fondamentale[94]. Il dibattito in corso tra politici, sindacalisti, imprenditori, economisti e giuristi, in Italia, si concentra proprio sul timing del passaggio dall’una all’altra fase e sul prevalere delle misure di conversione e di agevolazione alle transizioni su quelle di conservazione del lavoro, anche se improduttivo[95].
Le misure si articolano pertanto, utilizzando una certa dose di schematismo, lungo tre assi descrittivi: lavoro congelato, lavoro incentivato e lavoro attivato.
A) Certamente lungo il primo asse, il lavoro congelato, si attestano le proposte, in Italia, mirate a portare più avanti possibile nel tempo il mix blocco dei licenziamenti/interventi della Cig, con le dilatazioni universalistiche degli ammortizzatori realizzate prima con il decreto “Cura Italia”, poi con il decreto “Rilancio” e infine con l’art. 14 del decreto n. 104/2020. Quest’ultimo provvedimento ha introdotto un blocco selettivo e mobile che può variare tra il 15 novembre e il 31 dicembre del 2020, a seconda delle diverse modalità di utilizzo della Cig e della de-contribuzione usufruita dalle imprese[96].
Tale tipo di proposta è comprensibile, e pure efficace[97], come prima reazione di policy pubblica agli effetti occupazionali immediati della crisi: si evita, comunque, il repentino crollo dell’occupazione e i conflitti sociali che ne deriverebbero.
È un modello di risposta che, tuttavia, riflette pure l’esigenza, di più lungo periodo, di indurre e agevolare le scelte aziendali di conservazione/congelamento delle risorse umane utilizzate prima della crisi Covid e su cui le imprese hanno magari fortemente investito in formazione, conoscenza e fidelizzazione[98]. Alternativa interna a questo approccio sono le proposte più selettive e di lenta transizione dalla conservazione alla riorganizzazione: per esempio concentrare gli ammortizzatori speciali con causale Covid-19, e a carico della fiscalità generale, sui settori e imprese più durevolmente colpiti in termini di calo di fatturato, in grado di dimostrare la connessione del calo con la situazione di mercato determinata dalla crisi – ristorazione privata e collettiva, attività legate al turismo internazionale, attività legate all’arte e allo spettacolo etc. –, ma anche incentivare l’attivazione dei lavoratori in Cig, con forte decontribuzione in un arco di tempo successivo al reinserimento lavorativo, etc.[99]. Con riguardo ai licenziamenti, la mediazione raggiunta con il decreto di agosto è di continuare nel blocco, ma non fino al 31 dicembre come richiesto dalle organizzazioni sindacali, bensì secondo modalità di scadenza “mobili” e inserendo delle deroghe al blocco[100].
Sono di quattro ordini le criticità del blocco dei licenziamenti con intervento di ammortizzatori statici e delle proposte che li sorreggono.
i. Il primo ordine, di tipo contingente-finanziario: più dura il congelamento occupazionale statico, più le misure di sussidio al lavoro improduttivo, che non crea valore perché sospeso o ridotto, diventano insostenibili, soprattutto con riguardo alla dimensione del debito italiano[101].
ii. Il secondo, di efficacia/efficienza economica e di mercato delle misure economiche di congelamento del mercato interno delle imprese[102]. Analisi economiche tendono a dimostrare l’inefficacia economica degli ammortizzatori tradizionali perché molte imprese rischierebbero di emergere, comunque, in dissesto dalla crisi[103]. Altri studi sull’intervento della Cig nella grande depressione del 2011 dimostrano l’inefficienza dell’ammortizzatore tradizionale: sono stati sussidiati in larga misura rapporti di lavoro a bassa produttività, spingendo i lavoratori a rimanere vincolati a imprese poco produttive[104]; ciò invero anche in ragione del mal funzionamento in Italia del versante delle politiche attive della flexicurity, fattore non trascurabile, ma trascurato dagli economisti[105].
iii. Il terzo ordine di criticità, di tipo giuridico-costituzionale: se un blocco emergenziale dei licenziamenti è certamente compatibile con una limitazione temporanea di una libertà economica fondamentale (l’art. 41, comma primo, della Costituzione), è proprio il protrarsi nel tempo della misura, come più volte, ad altri scopi, ha stabilito la Corte costituzionale, che ne determina la incostituzionalità sopravvenuta[106]. In tal caso, la tollerabilità del blocco della libertà di impresa, in termini di durata, deve essere rapportata al segmento temporale medio in cui tale libertà, in condizioni normali, viene esercitata. Si consideri che, con riguardo alla sospensione della libertà negoziale collettiva, il parametro di riferimento utilizzato dalla Corte costituzionale, nell’operare il bilanciamento tra interessi generali tutelati dal blocco della contrattazione (le ragioni del bilancio pubblico) e sacrificio della libertà negoziale, si proietta sull’unità temporale dell’anno (Corte cost., n. 178/2015); ciò, verosimilmente, in ragione della durata del ciclo ordinario di rinnovo dei contratti collettivi nel settore pubblico misurato in anni.
Appare, allora, ragionevole ritenere che la eventuale sopravvenuta illegittimità del blocco della libertà di licenziare, in ragione della sproporzione del sacrificio imposto alla libertà di impresa ex art. 41 Cost., non potrebbe che essere valutato con l’unità temporale riferita al mese; ciò in ragione del fatto che la stessa legge ordinaria, con riguardo al licenziamento collettivo, pone un vincolo di durata della procedura calcolato in giorni, secondo quanto previsto dai commi 6, 7 e 8 dell’art. 4 l. n. 223/1991 (similmente per la procedura di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, secondo quanto previsto dall’art. 7 l. n. 604/1966 per il lavoratori soggetti al regime Fornero)[107].
iv. Il quarto di ordine di criticità è di tipo gestionale: non è del tutto vero che il blocco dei licenziamenti sia pienamente funzionale alla preservazione del bene risorsa umana e degli investimenti, pubblici e privati, in esso incorporati (marxianamente, il capitale variabile di una impresa); soprattutto se questo costituisce una scelta imposta per legge. La funzione di valorizzazione della risorsa umana è riconducibile, prima ancora che alla libertà di impresa di scegliere il proprio modello organizzativo, a scelte strategiche più ampie che coinvolgono la stessa governance societaria, come nel caso della Benefit Corporation; o anche ai modelli di corporate social responsibility, ove i lavoratori e lavoratrici sono considerati sempre più come stakeholders prima ancora che dipendenti. Rileva, in tal caso, non tanto il principio di libertà di impresa, ma le strategie più di fondo, la mission e la stessa filosofia aziendale in termini di produttività, di innovazione tecnologica e organizzativa, di rapporto con gli stakeholders, di posizionamento nel mercato anche di beni pubblici (per esempio, prodotti e consumi ecocompatibili), di politiche di valorizzazione delle capability. Con conseguente adattamento del mercato interno dell’impresa al contesto esterno: non più soltanto, coesianamente, la riduzione dei costi di transazione, ma la gestione ottimale di contratti relazionali e fiduciari. Non è un caso che un importante filone della letteratura organizzativistica sulle Human Management Resources si stia orientando a suggerire agli uffici di gestione del personale opzioni non solo strategic ma anche sustainable di sviluppo delle risorse umane, compatibili con obiettivi di sostenibilità generale e di aumento della produttività aziendale attraverso la partecipazione dal basso dei lavoratori e delle lavoratrici e la valorizzazione delle capability diffuse[108]. In tale approccio alle HR, rileva l’elemento soggettivo della persona attiva (human), piuttosto che quello oggettivo/utilitarista della risorsa. Orbene, simili strategie di gestione – comprensive anche dell’opzione “conservativa” delle risorse umane nella crisi – non possono essere imposte o governate paternalisticamente per legge; al limite, in fasi di crisi come quella attuale, possono solo essere promosse e orientate attraverso provvedimenti normativi non invasivi dell’autonomia del management aziendale, ma che si limitino a incentivare le politiche pro-occupazionali e conservative delle imprese.
B) Qui si innesta il secondo asse delle misure normative di crisi riguardanti il lavoro: quello del lavoro incentivato. Intorno a tale asse si possono aggregare proposte normative di vario contenuto, ma convergenti sull’obiettivo di incentivare la conservazione del lavoro o la sua creazione, anche con contratti flessibili e a tempo determinato.
Con riguardo agli ammortizzatori sociali circolano proposte di una razionalizzazione nel segno della semplificazione burocratica e dell’universalità, che rilancino la funzione di strumenti di politica attiva e non solo passiva; di aggiustamento, dunque, del Jobs Act con l’obiettivo di fluidificare le transizioni e con un forte rilancio della “formazione di qualità” in azienda durante la sospensione. Altre proposte indicano la possibilità di un’autorizzazione trasparente di momenti di lavoro attivo extraziendale durante la sospensione del rapporto principale; altre ancora rivalutano le procedure di ricollocazione per garantire transizioni governate[109]; mentre unanime è il consenso su investimenti finanziari per aumentare la qualità dell’azione e la produttività dei centri per l’impiego deputati alle politiche attive. Di segno diverso, le proposte di incentivo a preservare il lavoro in azienda, in attesa del rilancio, con interventi non di riduzione dell’orario di lavoro, ma mirati a una forte riduzione di costo a parità o quasi di orario; ciò agevolerebbe processi di coinvolgimento e di mantenimento dei lavoratori in attività, in attesa del pieno ripristino della normalità produttiva, e renderebbe più fluidi i processi di riorganizzazione e del rilancio aziendale.
Va pure inserita in quest’ordine di misure di incentivazione del lavoro la riduzione dei vincoli a rinnovi e proroghe dei contratti di lavoro a tempo determinato, con l’eliminazione delle causali introdotte dal decreto “Dignità”[110]. L’alternativa in campo è se considerare l’allentamento di tali vincoli, in quanto foriero di precarietà occupazionale, limitato al periodo di emergenza in senso stretto come già previsto; ovvero se prendere atto del fatto che l’incertezza strutturale determinata dalla crisi debba consentire un ripristino della possibilità delle imprese di programmare, anche a breve, la propria provvista di manodopera in un arco temporale che non coincida necessariamente con l’emergenza. La creazione di occupazione appare prioritaria, soprattutto in una fase in cui è prevedibile un profondo ridisegno della morfologia del lavoro per l’effetto combinato della crisi epidemica e dell’accelerazione ulteriore dell’innovazione tecnologica e della digitalizzazione[111]. Sembrano allora più ragionevoli le proposte mirate a incentivare, contemporaneamente, assunzioni a termine e successive conversioni: puntare, cioè, anziché su vincoli e divieti, su forti incentivi di ordine normativo ed economico alla conversione del contratto originariamente a termine.
C) Molto più strategico è il terzo asse (il lavoro attivato), di cui poco si discute in generale in Italia, se non nel limitato circolo delle imprese di industria 4.0 e in quelle che hanno in programmazione, o in via di realizzazione, modelli organizzativi e gestionali ispirati alla prassi e alla filosofia delle risorse umane sostenibili e allo sviluppo dinamico delle capability[112]. Va da sé che le politiche industriali di forte incentivazione all’innovazione, di cui si è detto al paragrafo precedente, costituiscano soltanto uno dei due bright sides della luna del cambiamento: mai come nella quarta rivoluzione industriale che si sta vivendo, l’innovazione della tecnica si è accompagnata a un incremento del lavoro di qualità, basato sulla conoscenza e sulla valorizzazione di capability individuali; talché politiche industriali avanzate e politiche di attivazione del lavoro di qualità (il lavoro appagante e non solo decente) finiscono per costituire una strategia olistica.
Non è questa la sede per descrivere in dettaglio tali modelli di attivazione delle risorse umane; si tratta di strategie di human management autonomamente perseguite dalle imprese e solo limitatamente o indirettamente attivabili dai decisori politici e dai legislatori[113]; esse sono considerate in grado di coniugare alti tassi di produttività e qualità del lavoro, soddisfazione con riguardo alle politiche remunerative e rilevanti outcome di benessere organizzativo: aziende, secondo indagini diffuse, fortemente ambite dagli stessi lavoratori[114].
4.1. Polvere di stelle e polvere vera sullo smart working
È probabile che il lavoro da remoto, in modalità più o meno agile, rimanga il lascito più duraturo, ma anche il più conteso della crisi pandemica[115]; ciò proprio per le luci e le ombre che evoca[116]. Qualora si dovessero, anche solo in parte, consolidare i dati di diffusione incrementale di tale modalità organizzativa della prestazione di lavoro, le ricadute sarebbero ad ampio spettro[117]. Si avrebbe un impatto, innanzitutto, sull’organizzazione del lavoro delle imprese e delle pubbliche amministrazioni; ma pure sul modo di concepire il lavoro nell’esperienza esistenziale dei singoli individui; non sarebbero da escludersi ricadute con riguardo al contenitore giuridico-formale, l’art. 2094 cc, nella nuova dimensione spazio-temporale e nella interconnessione permanente che le tecnologie digitali consentono; posto che andrebbe ripensata anche la qualificazione giuridico-concettuale di tale fattispecie: il lavoro cd. agile, se confermato nell’attuale estensione, potrebbe difficilmente essere considerato soltanto una modalità della subordinazione tradizionale.
Gli effetti della diffusione, stabile e strutturale, del lavoro a distanza, nella modalità smart, consentita dalle tecnologie digitali e dal consolidamento strutturale della rete (il 5G)[118], si estenderebbero, peraltro, oltre l’organizzazione del lavoro sino a toccare anche l’organizzazione sociale delle città; ciò con riguardo ai tempi di vita e di lavoro, alla possibile separazione residenziale tra luoghi di vita e di lavoro e sede di lavoro, con quel che ne segue in termini di possibile ripensamento degli spazi urbani e con futuribili implicazioni sociali, di mobilità geografica e persino di ripensamento culturale (il south working o il workation)[119]; con effetti persino sulle architetture interne dei luoghi abitativi privati, che incominciano a essere riprogettati per tener conto anche dell’home working stabilizzato[120].
Una pluridimensionalità di effetti, quindi, in grado di interrogare, contemporaneamente, le scienze del lavoro, dell’economia, dell’organizzazione, dell’amministrazione, dell’urbanistica, dell’architettura, della psicologia; un impatto sul paradigma del lavoro sociale, come sinora lo si è conosciuto e studiato.
Si tratterebbe (il condizionale è d’obbligo, a processo aperto e in divenire) di un cambiamento di tipo strutturale che non va né esaltato né demonizzato, ma soltanto osservato e declinato nelle sue conseguenze; per ciò che concerne gli studiosi di diritto del lavoro, anche giuridiche e regolative.
In Italia il dibattito su questa significativa prospettiva di cambiamento organizzativo e culturale, innescato dalla crisi Covid, rischia di essere mortificato e ridotto a polemica politica bagatellare. La polvere sul lavoro agile viene sollevata, ricadendovi, soprattutto, dove c’era da aspettarselo: nell’esperienza della pubblica amministrazione. Qui il cambiamento, potenzialmente sperimentale e innovativo (un vero e proprio shock riorganizzativo imposto dai provvedimenti di ordine pubblico e sanitario legati all’emergenza)[121], rischia di essere sepolto sotto la coltre di comportamenti di moral hazard dei soliti noti: frange minoritarie di dipendenti infedeli e non socializzati all’etica del lavoro, ma a quella del lavoro assistito, che vedono nel lavoro da remoto una grande opportunità di “non lavoro” autorizzato[122]; sindacalisti proni ad assecondare gli interessi micro-corporativi in qualunque modo si manifestino; responsabili degli uffici non in grado di gestire la oggettiva difficoltà di ripensare l’organizzazione dell’ufficio in termini di risultati e obiettivi e non di procedure standard, peraltro, solo parzialmente taylorizzate, e che, invece, vi sarebbero obbligati per dare senso al lavoro a distanza; il Governo che, con provvedimenti improvvidi, ha quasi senza volerlo preso atto di tale situazione[123] e che, come sembra pensare la Ministra per la pubblica amministrazione, scambia una norma di contingentamento obbligato del lavoro a distanza (il 50% dei dipendenti) affidato a un acronimo dal vago sapore di piano e di progettualità (il cd. “Pola”), con l’ennesima e decisiva (solo annunciata) rivoluzione organizzativa dell’amministrazione pubblica, che non tiene conto dei vincoli e delle inefficienze micro-organizzative[124].
Nelle imprese private il cambiamento è stato ben più di sostanza: in questo caso, pur in mancanza ancora di oggettive e incontrovertibili rilevazioni di dati e di evidenze empiriche, la sensazione è stata di uno sforzo di cambiamento organizzativo e produttivo reale, innescato dalla crisi, ma con effetti che si tende a rendere sistematici e durevoli.
Si si volesse operare una sintesi concettuale del fenomeno emergente, estrapolando da una realtà ibrida, magmatica e in divenire, è come se si fossero stabilizzati nella prassi tre diversi modelli/sottotipi sociali; in disparte va considerato il lavoro agile emergenziale regolato dalla normativa Covid, di origine unilaterale e semplificato negli adempimenti formali, di cui si è già detto e di cui non si dirà in specifico in questa sede.
I tre sottotipi sociali tendenziali sono così definibili: lo smart working innovativo; lo smart working normalizzato e lo smart working conciliativo in senso stretto.
Il modello più “luccicante”, su cui si è depositata la polvere di stelle, è quello innovativo; la sua profilazione smart annovera un accordo individuale, geneticamente proposto dall’azienda, o dal lavoratore stesso, e funzionalmente arrangiato-organizzato bilateralmente, sovente nella cornice (non necessaria) di accordi aziendali; esso riguarda soprattutto professionalità medio-alte, con intensità di formazione e know-how cognitivo, capacità di apprendimento continuo e di uso e controllo delle nuove tecnologie digitali[125]. È un modello che implica prestazioni con ampia autonomia e forti responsabilità, a prescindere dal ruolo e dall’inquadramento formale. Per le prestazioni di queste figure di smart workers (le uniche per cui, in effetti, l’aggettivo smart è adeguato) risultano poco funzionali gli istituti tradizionali del rapporto di lavoro subordinato: retribuzione collegata all’orario, assoggettamento al potere direttivo, inquadramento gerarchico, etc.; si tratta, peraltro, di lavoratori generalmente meglio remunerati per la stretta interconnessione della retribuzione, e della prestazione, con obiettivi, progetti, e con coinvolgimento nei risultati e nelle strategie aziendali. È l’idealtipo o, se si vuole, l’archetipo, che in qualche modo si intravede, a mo’ di inchiostro simpatico, nel capo II della l. n. 81/2017, già anticipato dalla contrattazione aziendale in imprese con politiche avanzate di HRM. In questo caso, se si volesse problematizzare il quadro normativo, varrebbe la “provocazione della fattispecie”: a un simile sottotipo sociale di lavoro agile non sta in qualche modo stretto il contenitore tradizionale del 2094 cc? La risposta non può essere neppure abbozzata in questa sede; vale però accennare all’indubbia resilienza della fattispecie tradizionale che è stata in grado di adattarsi financo alla figura dell’alter ego del datore di lavoro: il dirigente anche con ruoli manageriali elevati[126]. In tale ipotesi, come si è avuto modo di sostenere, verrebbe esaltato, da un lato, il profilo collaborativo della fattispecie; dall’altro, come pendant, una visione più istituzionale, partecipativa e a-conflittuale dell’impresa[127].
Il secondo modello, che si è definito normalizzato, è meno luccicante del primo, ma non per questo opaco; è il socialtipo che probabilmente più si affermerà nella immediata fase post-pandemia, strutturandosi come standard, soprattutto nella pubblica amministrazione: una modalità di lavoro ordinariamente subordinata, più diffusa rispetto alla fase pre-Covid, la quale ibrida[128] e alterna la prestazione normale in presenza con la modalità agile a distanza per periodi predeterminati e con modalità (controlli, verifiche, tempi di collegamento, etc.) concordate prevalentemente dalla contrattazione collettiva – meglio quella aziendale, ma pure quella nazionale, come rivendicato dalle organizzazioni sindacali[129]. Su questo sottotipo sociale si annunciano, però, pericolose incursioni legislative di tipo regolativo per bilanciare l’unilateralità gestionale dell’emergenza: accentuazione del diritto alla disconnessione, maggiori limiti alla flessibilità di orario, regolamentazione delle fasce di reperibilità, maggiori controlli, estensione delle misure di sicurezza del lavoro in presenza; si opererebbe, così, un appiattimento regolativo del lavoro agile sul telelavoro, una sussunzione del primo nel secondo[130]. Sul versante della regolamentazione, soprattutto se dovesse prevalere l’opzione legislativa, si tratterebbe in tal caso di un déjà vu: più spazi regolativi alle fonti tradizionali inderogabili, più legge che contratto collettivo, riducendo proporzionalmente, o azzerando, lo spazio che la legge attuale riserva all’autonomia individuale. Si finirebbe, così, per considerare il lavoro agile non tanto una scelta e un progetto organizzativo bilaterale e condiviso, con al centro l’autonomia individuale che regola il traffico del rapporto (l’accordo come fonte e come regolamento contrattuale). Si darebbe luogo, invero, a una soluzione regolativa che richiamerebbe da presso quella del part-time: l’autonomia individuale ridotta soltanto, o quasi, al momento genetico; su tale accordo si inserirebbero vincoli e limiti funzionali, di natura inderogabile o quasi, a pretesa garanzia del lavoratore. In effetti, questo modello normalizzato dall’irrigidimento legislativo (che presuppone il conflitto di interessi e non la collaborazione paritaria) non giustificherebbe, in astratto, neppure l’accordo originario: il lavoro agile a distanza, regolato e vincolato per legge, potrebbe considerarsi a quel punto, secondo lo schema ordinario, rientrante nell’ambito del potere direttivo del datore di lavoro, funzionale a una sua scelta organizzativa che il lavoratore dovrebbe solo subire, fatto salvo il rispetto dei vincoli normativi di legge e di contratto collettivo. Le dinamiche concrete, di rilievo giudiziario (non a caso nella pubblica amministrazione), di questo modello normalizzato sono state evidenziate dalla vicenda della rivendicazione dei buoni pasto anche per il lavoro a distanza, già approdata nelle aule dei tribunali[131].
Il terzo modello è quello conciliativo in senso stretto[132]; in esso, come avvenuto nella regolamentazione transitoria pandemica[133], si prefigurano “frammenti” di diritto soggettivo al lavoro agile per fasce limitate di lavoratori/lavoratrici fragili[134], ovvero con a carico soggetti fragili o figli minori. Questo socialtipo rinvia a uno schema regolativo anche in tal caso tradizionale e ricorsivo, ancorché di maggiore attualità del precedente, soprattutto nella misura in cui si intravedono “fili” di collegamento con il diritto antidiscriminatorio: una condizione soggettiva che fa scattare il diritto, o la preferenza nella scelta, in caso di offerta datoriale, alla modalità agile conciliativa; non un diritto pieno e assoluto, tuttavia, perché a sua volta da conciliare o, meglio, da mediare con le esigenze organizzative dell’impresa. Si tratta di un modello che può generare, come già avvenuto nella fase della pandemia, contenzioso e fisiologici conflitti di interesse tra impresa e lavoratore[135]. Appare evidente l’autonomia socialtipica di tale modello, che trova certamente più spazio nella legislazione ad hoc sulla conciliazione (vds. la direttiva Ue 2019/1158)[136] piuttosto che nella legge sul lavoro agile.
Questi tre modelli sono separabili con chiarezza solo concettualmente: si tratta di socialtipi, nella prassi ibridati e compresenti, in dipendenza di fattori diversi: politiche aziendali pregresse e di ripartenza, fattori organizzativi, produttivi e tecnologici, contesto ambientale e sociale, maggiore diffusione della cultura dell’innovazione, etc.
È evidente che l’attuale modello di regolamentazione pre-Covid, di tipo minimale e che promuove l’autonomia privata e favorisce soluzioni flessibili e individualizzate, consentirebbe la convivenza e la copertura integrale dei tre modelli indicati (solo soluzioni di irrigidimento legislativo sarebbero in contrasto con la funzione dell’istituto); soprattutto se il modello conciliativo in senso stretto[137], da transitorio, divenisse normativamente stabile.
Nulla osta, infatti, nell’attuale regolamentazione pre-Covid, a che l’accordo individuale, necessario ex art. 19 l. n. 81/2017, possa inserirsi nella cornice (una sorta di rete di protezione) del contratto collettivo anche di livello nazionale, meglio aziendale, ancorché non previsto da espliciti rinvii della legge: specificazione del diritto alla disconnessione, maggiore regolazione della flessibilità in ragione delle diverse professionalità, ibridazione e organizzazione della prestazione a distanza e in presenza, etc. Le due fonti, contratto individuale e contratto collettivo, potrebbero integrarsi, secondo moduli anche innovativi, per soluzioni virtuose di tipo aziendale, addirittura sartoriale per gruppi o singoli lavoratori.
Ben diversa la prospettiva qualora dovesse prevalere, nel post-Covid, la soluzione dell’intervento regolativo forte, vincolante, di stampo paternalistico/garantista; tale modello è caldeggiato dai cultori della regolamentazione statalistica dell’epoca del “Corona sozialismus”, ampiamente presenti nella compagine governativa, anche nella veste di consulenti, e nel Parlamento attuale. In tal caso, il lavoro agile andrebbe messo nella soffitta degli esperimenti abortiti e si tornerebbe al telelavoro regolato per legge, normalizzato nel settore privato, e adattato nel settore pubblico, generando nel contesto dell’amministrazione pubblica, secondo uno schema consueto, l’ennesima regolazione separata, fonte generatrice di privilegi micro-corporativi.
5. Le organizzazioni di interessi e la crisi: tra dialogo – e intelligenza – sociale e vuoto ritualismo
La crisi sanitaria ed economica in atto ha messo in evidenza un positivo ruolo delle parti sociali, rinsaldando il dialogo proattivo e producendo soluzioni regolative sulla emergenza sanitaria (i protocolli di sicurezza Covid), surrogatorie e integrative della regolamentazione legale, di indubbia qualità[138]. Si è riconosciuto l’impatto e il ruolo positivo dell’azione delle parti sociali e dell’intelligenza sociale da esse espressa e praticata nella drammatica vicenda ancora in atto. Si sono apprestate misure concertate di contrasto all’emergenza epidemiologica, anche minute e adattate alle peculiarità organizzative e di esposizione al contagio nei diversi luoghi di produzione e lavoro. Una prova reale di democrazia negoziale e partecipata dal basso, che ha esitato risposte efficienti e calibrate di contrasto alla diffusione del virus.
Tutto ciò ha finito per costituire la più efficace delle confutazioni possibili dell’ideologia e della pratica della disintermediazione, nella misura in cui si è ribadita la crucialità della funzione di rappresentanza e di intermediazione sociale e politica delle grandi organizzazioni storiche, di rilievo nazionale. Queste ultime sono state in grado di produrre concertazione negoziale diffusa, ma centralmente organizzata, ad alta salienza politica, in un contesto di emergenza sanitaria drammatica[139]: ne sono emersi protocolli sanitari che dal centro, o da alcune realtà che hanno funzionato da modello e da best practice, si sono espansi a macchia d’olio sin nelle articolazioni periferiche del sistema produttivo e nelle amministrazioni pubbliche. I protocolli sono stati adattati sinuosamente alle diverse realtà, utilizzando intelligentemente e dinamicamente le acquisizioni che gli scienziati, progressivamente, andavano consolidando; con tutte le inevitabili incertezze di un virus originariamente sconosciuto negli effetti e nella propagazione.
Si è così istaurato un rapporto dinamico e interattivo con la scienza medica e i suoi chierici che ha ricordato, mutatis mutandis, le progressive e, forse irripetute, esperienze di medicina democratica, collegata al movimento sindacale degli anni settanta e ottanta del secolo scorso.
È del resto nel DNA delle grandi organizzazioni di interessi italiane (sin dai tempi di Guido Carli e Luciano Lama, per non dire di Giuseppe Di Vittorio) di farsi carico di interessi pubblici e generali e mettere in disparte, in simili snodi storici, interessi sezionali e di organizzazione.
Si è inoltre confermata l’efficacia e la bontà del metodo e della fonte negoziale perché, per sua natura, flessibile e resiliente, e non tale eccezionalmente e/o artificiosamente, come la fonte legale dell’emergenza. Col metodo negoziale si sono governate financo scelte necessariamente tragiche e interessi in potenziale e reale conflitto (salute pubblica e continuità produttiva), in condizioni di emergenza del tutto nuove e inedite.
Lo stesso prodotto del metodo negoziale o dell’autonomia collettiva, l’accordo collettivo, secondo l’insegnamento giugniano[140], ne è uscito esaltato.
In sintesi: il ruolo basilare delle organizzazioni sindacali per azioni differenziate di innovazione sociale e come contenitori/canalizzatori e diffusori dell’intelligenza del lavoro in differenti loci, come sostenuto di recente da Pietro Ichino[141], viene confermato dalla crisi. Così come fondamentale si appalesa il ruolo delle associazioni datoriali nel senso di stimolo e di interlocuzione, anche fortemente critica, nei confronti del Governo; ciò affinché si varino politiche industriali innovative, di rilancio imprenditoriale e di forte incentivo alla riconversione produttiva e non di mero congelamento di lavoro e di stabilizzazione di imprese senza prospettiva produttive e/o di mercato[142].
E tuttavia non è stato tutto oro quello che ha luccicato: la partecipazione ritualistica e la contrattazione notarile sono state pure rivendicate dalle organizzazioni sindacali e hanno trovato supporto nel legislatore, soprattutto della prima fase del lockdown.
Non è chiaro, per esempio, a cosa sia servito il passaggio della consultazione sindacale, ridotto a scambio di mail, quasi un timbro notarile e burocratico, nella fase in cui l’unico problema era trasferire, con gli ammortizzatori sociali, il più rapidamente possibile, risorse alle imprese o direttamente ai lavoratori in situazione di blocco produttivo e non di crisi (da calo di fatturato o di liquidità).
Non si comprendono, poi, disposizioni come quelle già criticate (vds. supra, § 3.1.), che in maniera peraltro poco chiara e per nulla perspicua collegano alle intese sindacali sull’occupazione i trasferimenti di crediti garantiti SACE alle imprese in crisi di liquidità.
Non si comprende, infine, se non per un formale rispetto della negoziazione come rito e non come esercizio di intelligenza collettiva del lavoro, la norma inserita nella l. n. 77/2020 di conversione del decreto “Rilancio”[143], che ha esteso a 45 giorni il termine della consultazione sindacale nel trasferimento di azienda[144].
Il confine tra concertazione intelligente e coinvolgimento ritualistico e burocratico, nella difficile gestione di interessi pubblici e generali in un contesto di crisi epocale, non è facile da tracciare con precisione, e sicuramente i concitati provvedimenti emergenziali non aiutano a discernere con chiarezza.
La fase dell’emergenza Covid, tra i pochi legati positivi, lascia pure intravedere una prospettiva di coinvolgimento positivo e proattivo degli attori sociali nelle strategie sociali, produttive ed economiche di recovery post-pandemico, soprattutto nella dimensione positiva di sforzo solidaristico, sovranazionale e comunitario promosso dall’Unione europea.
Se tale coinvolgimento attivo degli attori sociali non poté realizzarsi nella ricostruzione post-bellica, in un contesto storico-politico di debolezza del dialogo sociale, di divisione ideologica e politica tra le organizzazioni sindacali e con le associazioni datoriali, in ragione della guerra fredda tra i blocchi e per la pregiudiziale anticomunista operante non solo a livello di governo ma anche nei luoghi di lavoro che ne derivava, le condizioni politiche e ideologiche appaiono ben diverse oggi; le prospettive di coinvolgimento attivo e non ritualistico-burocratico sembrano potersi sviluppare nella ricostruzione post-pandemica con maggiore fluidità storica e politica.
Il pericolo anche nei confronti di una tale prospettiva non proviene, oggi, dalla rotta di collisione tra capitalismo e comunismo definitivamente risolta nel 1989; o tra ideologie neoliberiste e ideologie vetero-socialiste e neo-stataliste; ovvero tra globalizzazione intelligente all’insegna dello sviluppo equo sostenibile e di contrasto alle disuguaglianze planetarie che ineluttabilmente dovrà riprendere, da un lato, e seguaci dell’antiglobalizzazione e della decrescita felice, dall’altro.
I pericoli provengono dagli emergenti movimenti e ideologie populiste e neo-sovraniste che ispirano e danno linfa a modelli di democrazia totalitaria e antiliberale in cui non c’è neppure spazio per la concertazione sociale e per il metodo negoziale genuino. Ideologie che dalle prassi della disintermediazione traggono linfa vitale. Tali prassi e tali modelli si collocano agli antipodi di politiche illuminate dal pensiero liberal-riformista entro cui si situa, come insegnava Gino Giugni, il metodo intelligente della concertazione sociale, come avvenne con il protocollo Ciampi.
Pare, tuttavia, chiaro che pratiche virtuose di concertazione istituzionale, nell’implementazione delle strategie di riforma e di rilancio produttivo, alle quali gli aiuti europei hanno dato la stura, impongano un ripensamento organizzativo e ideale del sindacato e della sua azione: se il sindacato, ma anche associazioni datoriali, 2.0[145] costituivano prima della crisi Covid un auspicio, oggi diventano condizione sine qua non di ogni effettiva ed efficace strategia di recovery per uscire dalla crisi sociale ed economica che si delinea nei mesi e, forse, negli anni a venire.
6. Conclusioni
La struttura aperta di questo contributo, in bilico tra attualità e prospettiva, esime da sistematiche conclusioni. È sufficiente, pertanto, richiamare i passaggi salienti che possono costituire elementi di contesto offerti alla riflessione dei giuslavoristi, ma non solo, e a proposte regolative di campo riformista. La novità della crisi non consente né facili e palingenetici ottimismi né, al contrario, catastrofismi da decrescita più o meno felice (“nulla sarà come prima”); ma neppure l’affidarsi al tranquillizzante refrain della capacità di riassorbimento, da parte delle economie di mercato, delle stesse faglie e rotture che esse stesse producono[146].
La novità della crisi rende sfuocate e spiazzate vecchie ricette e impone profondi ripensamenti di metodi, tecniche e obiettivi. La crisi, come si è avuto modo di sostenere, ha avuto effetti trasversali e rizomatici sullo Stato, sull’impresa, sul lavoro e sulle parti sociali; ha già lasciato sul campo, e lascerà ancora, molti vinti se non verranno adottate dalle istituzioni pubbliche, ai diversi livelli, adeguate contro-misure al suo incedere naturale. Tra i possibili vinti certamente la società del «Quinto Stato» per mutuare Maurizio Ferrera[147], ma anche la tradizionale classe media, comprensiva dei blue collars[148], già ampiamente “stressata” dalla precedente crisi, ma i cui effetti dell’attuale, ancor più della precedente, vanno estendendosi sul quintile, una volta più agiato: artigiani, liberi professionisti, ristoratori e commercianti dei centri storici, etc.
La crisi sta già lasciando intravedere, naturalmente, anche qualche vincitore: gli ormai soliti noti “giganti del web”, ma anche chi sull’economia digitale della conoscenza e sulla capacità di anticipare l’innovazione e il cambiamento ha inteso scommettere.
Con questo scenario di complessità, tanto terribile quanto ambizioso da governare, devono vedersela anche quegli speciali ingegneri sociali, costruttori di ponti tra passato, presente e futuro, come amava definirli Massimo D’Antona, che sono i giuristi del lavoro.
Come si è cercato di mettere altrove in evidenza[149], gli scopi e le tecniche del diritto del lavoro e i contenuti delle stesse politiche sociali si sono tremendamente allargati nell’ultimo trentennio: non solo non lasciare indietro gli ultimi, siano essi segmenti deboli del mercato del lavoro, portatori di vecchie e nuove fragilità, territori; non solo contrastare le diseguaglianze e, quindi, affiancare e governare una società che possa essere coesa socialmente e ambientalmente sostenibile; ma anche coadiuvare innovazione sociale e tecnologica, collocando però al centro di ogni processo politico, sociale, economico e istituzionale, la persona: un soggetto non genericamente inteso, bensì individualizzato con una sua ritrovata libertà, resa concreta e situata mediante processi, pubblicamente orientati, di trasformazione di funzionamenti in capacità personali.
Un vasto programma, certo, avrebbe detto qualcuno, ma da rendere in tal caso davvero politicamente e quotidianamente concreto: è il compito, da sempre, dei riformisti.
1. Vds. la lucida analisi di L. Bini Smaghi, Investimenti nella sanità per rilanciare la fiducia, in Corriere della sera, 7 giugno 2020. Vds. pure C. Padoan, L’uscita dal Covid come motore della modernizzazione italiana, in Il Foglio, 8 agosto 2020, che parla di doppia crisi con impatto sulla salute e sull’economia.
2. Ad agosto 2020 i dati Istat dicono, per l’Italia, di un calo del Pil del 12,4% per il secondo trimestre; di un 23% di caduta del Pil, nel momento più buio del lockdown; del 9% di riduzione nel 2020 secondo la stima più ottimistica. Si tratta comunque di dati migliori di quelli previsti da autorità internazionali, che hanno invece stimato la caduta del Pil italiano in -12,8% (Fmi); -11,3% (Ocse); -11,2% (Commissione europea); vds. C. Cottarelli, La crescita ancora schiacciata dall’incertezza, in La Stampa, 2 agosto 2020. Tali dati col segno meno attraversano tutte le principali economie mondiali con differenze significative tra grandi aree globali e singoli sistemi che gli economisti stanno incominciando a interpretare. Le principali agenzie si mostrano, tuttavia, prudenti nelle stime in ragione degli scenari di incertezza, da cui inedite difficoltà predittive. Secondo l’Ocse (Economic Outlook – The world economy on a tightrope, giugno 2020, www.oecd.org/economic-outlook/#:~:text=Global%20economic%20activity%20falls%206,across%20the%20economy%20by%202021.), si tratta, comunque, della peggiore crisi dalla «seconda guerra mondiale capace di portare devastazione per la salute, il benessere e il lavoro delle persone, e di creare una incertezza senza precedenti. Uno sconvolgimento che ha portato a conseguenze economiche “tragiche” ovunque, con una ripresa che “sarà lenta” e una crisi che avrà effetti duraturi». Si vedano pure i seguenti report: Oil, ILO Monitor, Covid-19 and the world of work, 30 giugno 2020, www.ilo.org/wcmsp5/groups/public/---dgreports/---dcomm/documents/briefingnote/wcms_749399.pdf; Eurofound, Covid-19: Policy responses across Europe, 24 giugno 2020, www.eurofound.europa.eu/publications/report/2020/covid-19-policy-responses-across-europe; Commissione europea, JRC Technical Reports – The Covid confinement Measure and EU Labour market, a cura del Covid & Empl Working Group (M. Fana - S. Tolan - S. Torrejón - C. Urzi Brancati - E. Fernández-Macías), 2020, https://publications.jrc.ec.europa.eu/repository/bitstream/JRC120578/jrc120578_report_covid_confinement_measures_final_updated_good.pdf; poi T. Müller e T. Schulten, Ensuring fair short-time work. A European overview, Istituto sindacale europeo (ETUI), policy brief n. 7/2020, https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3604092#. Vds., inoltre, McKinsey & Company, Covid-19: Briefing Materials, Global Health and Crisis Response, giugno 2020, www.mckinsey.com/~/media/McKinsey/Business%20Functions/Risk/Our%20Insights/COVID%2019%20Implications%20for%20business/COVID%2019%20May%2027/COVID-19-Facts-and-Insights-June-1-vF.pdf, e la Briefing Note n. 25. Infine, Banca d’Italia, Considerazioni finali del Governatore, relazione annuale, Roma, 29 maggio 2020, www.bancaditalia.it/media/notizia/considerazioni-finali-del-governatore/ e K. Pouliakas e J. Branka, Eu Jobs at Highest Risk of Covid-19 Social Distancing. Is the pandemic exacerbating the labour market divide?, Centro europeo per lo sviluppo della formazione professionale (Cedefop), Cedefop WP series, n. 1/2020.
3. Secondo dati Istat, nei primi tre mesi di pandemia, malgrado il blocco dei licenziamenti, i disoccupati ufficiali in Italia sono aumentati di 381.000 unità. I dati riguardanti la disoccupazione sono certamente maggiori negli Usa, dove si sono lasciate libere le imprese di licenziare, incentivandole fortemente alla riassunzione. Se comunque sui valori assoluti ci sono ancora incertezze (Allarme Bce: per l’autunno spariranno 5 milioni di posti nell’eurozona, La Stampa, 2 luglio 2020), le prime ricerche dicono che gli effetti occupazionali più consistenti hanno riguardato i segmenti occupazionali deboli. La crisi starebbe, quindi, incidendo fortemente sulle ineguaglianze già in atto nel mercato del lavoro. Oltre ai report indicati nella nota precedente, vds. il rapporto Istat 2020 – per un resoconto: Giovani e donne, più colpiti, Corriere della sera, 4 luglio 2020; Lavoro, il conto del virus lo pagano i più giovani, La Repubblica, 3 luglio 2020. Si aggiunga l’editoriale di T. Boeri, Salvare il lavoro dei giovani, in La Repubblica, 3 luglio 2020. Con riguardo alle prime analisi internazionali, vds. Eurofound, Economic downturns expose the vulnerability of a growing number of precarious workers, 21 aprile 2020; D. Furceri - P. Loungani - J. D. Ostry - P. Pizzuto, COVID-19 will raise inequality if past pandemics are a guide, in Vox, 8 maggio 2020; G.M. Cortes ed E. Forsythe, The Heterogeneous Labor Market Impacts of the Covid-19 Pandemic, Upjohn Institute, working paper, 28 maggio 2020 (con riguardo al mercato del lavoro canadese); A. Adams-Prassl - T. Boneva - M. Golin - C. Rauh, The large and unequal impact of COVID-19 on workers, in Vox, 6 aprile 2020. Sugli scenari possibili, l’Ocse, Economic Outlook, op. cit., p. 80, a conferma della assoluta instabilità delle previsioni economiche, si premura di delineare più scenari possibili: «a prolonged confinement scenario; a single hit scenario, a double hit scenario», che detterebbero strategie di intervento pubblico e ricadute sui comportamenti delle imprese assolutamente diverse.
4. Come ha scritto il New York Times nell’editoriale dell’Editorial board del 26 marzo 2020, «Why Is America Choosing Mass Unemployment?»: «this downturn is not an example of the kind of periodic free-market “creative destruction” that those who embrace this theory tend to celebrate – it’s a public-health crisis. The nation has taken ill, and it needs to go to bed for a while. But there’s no obvious reason to think the economy would benefit from the kinds of big economic shifts facilitated by mass unemployment. This economic contraction was not caused by too much housing construction or too much gambling on Wall Street. It was caused by the arrival of a virus, and preserving ties between companies and workers could help to accelerate the eventual economic recovery once the pandemic passes. Companies could keep trained and experienced employees, averting the need for people to look for jobs and for companies to look for workers».
5. Si rinvia per tutti al volume curato da B. Caruso e G. Fontana, Lavoro e diritti sociali nella crisi europea, Il Mulino, Bologna, 2015, e ai saggi ivi contenuti.
6. Per uno studio comparato della grande depressione del 1929 e della grande recessione del 2008, cfr. P. Krugman, Il ritorno dell’economia della depressione e la crisi del 2008, Garzanti, Milano, 2009; un’analisi fortemente critica del modello di capitalismo finanziario, a partire dalla ricostruzione della crisi del 2008, è di D. Harvey, L’enigma del capitale, Feltrinelli, Milano, 2010.
7. Sugli esiti della crisi in termini di regionalizzazione della globalizzazione insistono molto gli economisti, ma anche le grandi agenzie di analisi: vds. gli interventi di R. Prodi, Antiche e nuove pestilenze, in Aa.Vv., Il mondo che verrà, in Quaderni del Cnel, speciale maggio 2020; di «primato della prossimità» parlano pure G. De Rita, Verticalizzazione di poteri, e T. Treu, La pandemia: un’occasione per pensare al “mondo che verrà”, nello stesso volume. Vds. P. Khanna, Dopo il virus nascerà una globalizzazione regionale, intervista a cura di A. Lombardi, in La Repubblica, 20 aprile 2020. Gli studi più efficacemente critici della globalizzazione storicamente realizzatasi, senza alcun cedimento a ideologie e prospettive “anti-global”, di taglio neo-sovranista, sono quelli di D. Rodrik, La globalizzazione intelligente, Laterza, Roma-Bari, 2015, e soprattutto il più recente, Dirla tutta sul mercato globale, Einaudi, Torino, 2019.
8. La letteratura su identità, populismi, neo-nazionalismi, sovranismi, concetti politologicamente, storicamente e sociologicamente diversi, ha invaso gli scaffali delle librerie anche private: tra i tanti da segnalare, per l’efficacia dell’analisi e l’uso sapiente di dati multifattoriali, Y. Mounk, Popolo vs. Democrazia, Feltrinelli, Milano, 2018. Senza per questo trascurare i lavori sul tema di C. Crouch, Identità perdute, globalizzazione e nazionalismo, Laterza, Bari-Roma, 2019; D. Sassoon, Sintomi morbosi, Garzanti, Milano, 2019; F. Fukuyama, Identità. La ricerca della dignità e i nuovi populismi, Utet, Milano, 2018; I. Diamanti e M. Lazar, Popolocrazia, Laterza, Bari-Roma, 2018; M. Revelli, Populismo 2.0, Einaudi, Torino, per citare il filone di analisi critica dei fenomeni. Sul populismo di cd. di sinistra, vds. l’analisi di C. Mouffe, Per un populismo di sinistra, Laterza, Bari-Roma, 2018; T. Piketty utilizza invece una categoria diversa: parla di «social-nativismo» per contrapporre i movimenti populisti emergenti ai blocchi sociali sinora vincenti, all’origine delle attuali asimmetrie nella distribuzione di reddito all’interno delle democrazie occidentali: la «sinistra intellettuale benestante» e la «destra mercantile» – vds. il più recente Capitale e ideologia, La nave di Teseo, Milano, 2020. Si tratta di ricerche che si collegano all’altrettanto importante filone di studi sulla crisi della democrazia, tra cui scritti sempre di M. Revelli, La politica senza politica, Einaudi, Torino, 2019, ove riprende la sua analisi sul populismo; J. Brennan, Contro la democrazia, Luiss University Press, Roma, 2019; G. Orsina, La democrazia del narcisismo, Marsilio, Venezia, 2018.
9. Per questo aspetto, basta aver seguito i “leaders” e gli approfondimenti del settimanale The Economist per avere un quadro non solo dell’evolversi settimanale della pandemia e dei suoi effetti di crisi, ma anche della consapevolezza del suo carattere di crisi umanitaria dell’intero pianeta: vds. per tutti il fondo che ha dato il titolo al numero del 27 giugno 2020 della rivista: The next catastrophe (and how to survive it). Sul versante degli effetti economici e sulle misure di risposta nei vari contesti planetari, è da segnalare Tapering without the tantrum. A guide to when and how to pare back stimulus, edizione dell’11 luglio 2020.
10. Per dati in progress si rinvia all’analisi delle fonti indicata nella nota 2.
11. L’Ocse, nel suo Economic Outlook, op. cit., p. 23, prevede una slow recovery già nello scenario più ottimista dell’assenza di una seconda ondata.
12. Analisi empiriche sulla capacità di tenuta e risposta dei sistemi sanitari sono ancora premature; vds., comunque, Ocse, Beyond containment: Health systems responses to COVID-19 in the OECD, 16 aprile 2020, www.oecd.org/coronavirus/policy-responses/beyond-containment-health-systems-responses-to-covid-19-in-the-oecd-6ab740c0/.
13. Vds. la rapida carrellata di misure nazionali riguardanti l’emergenza lavoro contenuta in Aa. Vv., Covid-19 and Labour Law. A Global Review, in Italian Labour Law e-Journal, n. 1/2020 (speciale). Limitamente ai paesi Europei, l’interessante analisi di T. Müller e T. Schulten, Ensuring fair short-time work, op. cit.
14. Oil, Covid-19 and global supply chains: How the jobs crisis propagates across borders, policy brief, 29 giugno 2020, www.ilo.org/global/research/policy-briefs/WCMS_749368/lang--en/index.htm.
15. Il che rende ancor più urgente il tema della redistribuzione e, quindi, dell’utilizzo della leva fiscale. Per proposte in chiave di realismo politico, vds. F. Gallo, Quali interventi post pandemia attuare in materia fiscale e di riparto di competenze fra stato e regioni?, in Aa. Vv., Il mondo che verrà, op. cit.; per proposte più assertive che realistiche, ancorché supportate da un impianto analitico potente – l’attuazione del principio di proprietà temporanea del capitale, per mezzo di un’imposta fortemente progressiva sui grandi patrimoni (oltre che sul reddito e sulle successioni, ndA) che permetta di finanziare una dotazione universale di capitale e la circolazione permanente della proprietà –, vds. T. Piketty, Capitale e ideologia, op. cit., pp. 22175 e 22241 ss. (ed. Kindle).
16. Il termine «digi-demia» è stato coniato da A. Giddens. Vds. l’intervista rilasciata a La Repubblica del 25 maggio 2020: La mia “quarta via” tra green revolution e giustizia sociale, sul tema della green revolution e del cambiamento climatico. Si rinvia al volume dello stesso Autore, La politica del cambiamento climatico, Il Saggiatore, Milano, 2015.
17. Sulla dimensione di prossimità della recovery e delle misure di contrasto alla pandemia insistono le periodiche note informative di McKinsey & Company, COVID-19: Briefing note, op. cit.; vds. pure l’intervento di G. De Rita, Verticalizzazione di poteri, op. cit.
18. Anche le Considerazioni finali del Governatore della Banca d’Italia, op. cit., p. 10, evidenziano questo dato asimmetrico degli effetti della crisi generata dalla pandemia sui diversi settori, alcuni dei quali escono addirittura vincenti, altri a rischio di crisi strutturale e duratura. Vds. J.M. Barrero - N. Bloom - S.J. Davis, Covid-19 Is Also a Reallocation Shock, Becker Friedman Institute, working paper, maggio 2020. Ocse, Economic Outlook, op. cit., p. 11. Del resto, leggendo le cronache economiche dei quotidiani italiani, questo dato risulta di immediata percezione. Per il settore delle mense, vds. l’articolo Lo smart working mette in crisi il settore delle mense, Il Sole 24 ore, 25 luglio 2020; per quello del turismo, Turismo: il rischio reale è un’ecatombe d’imprese, intervista al presidente di Federterme, Il Sole 24 ore, 1° agosto 2020; per i settori collegati, vds. I perdenti del telelavoro. Aeroporti, compagnie aeree, bar, catering, hotel e città, Milano finanza, 27 giugno 2020; per le micro-imprese, Il conto del lockdown, 4 mini-aziende su dieci a un passo dal crack, Il Giornale, 2 agosto 2020.
19. Tale meccanismo è stato concettualizzato da M. Ferrera, Dopo l’incertezza: un futuro da ri-costruire, in Aa. Vv., Il mondo che verrà, op. cit.
20. Sotto questo profilo, la crisi da Covid-19 non è ricollegabile all’ordinario ciclo economico come descritto da Karl Marx e ripreso nel filone di studi neo-marxisti sulla crisi: vds. T. Rockmore, Marx e la crisi dell’economia capitalista, in M. Ponzi (a cura di), Karl Marx e la crisi, Quodlibet, Macerata, 2017; vds. pure D. Harvey, L’enigma del capitale, op. cit.; Id., Capitalismo, Einaudi, Torino, 2008, pp. 13 ss.; G. Cesarale, Il capitale, o della critica dell’economia politica, in S. Petrucciani (a cura di), Il pensiero di Karl Marx, Carocci, Roma, 2019, pp. 292 ss. La situazione attuale somiglia a una crisi dettata da eventi fuori dal controllo umano (terremoto o eventi meteorologici che incidono sui raccolti). E tuttavia è abbastanza riscontrabile nella crisi in corso, a detta degli scienziati, la mano dell’uomo con riguardo alla sua genesi e alla sua diffusione, nel suo rapporto con l’ambiente e il suo sfruttamento intensivo.
21. Un grafico molto incisivo dell’effetto gruviera è contenuto nella Briefing Note di McKinsey & Company del 25 giugno 2020, op. cit., p. 3, allegato 1.
22. G. Bufalino, La luce e il lutto, Sellerio, Palermo, 1996.
23. McKinsey & Company, Covid-19: Briefing materials, op. cit., schede nn. 2-31.
24. L’Ocse (Economic Outlook, op. cit.) collega l’incertezza al doppio scenario: controllo della pandemia o ri-esplosione autunnale con nuove modalità di confinamento di massa.
25. Vds. la tabella riportata alla scheda n. 36 di McKinsey & Company, Covid-19: Briefing materials, op. cit.
26. Vds. pure Ocse, Economic Outlook, 2020, pp. 60 ss.
27. Gli orizzonti dell’azione di una leadership adeguata individuati nel rapporto sono le “5 R”: resolve, resilience, return, reimagination, reform (vds. scheda n. 42). Sui gravi problemi della adeguatezza delle classi dirigenti in Italia, vds. il condivisibile lungo articolo di M. Bentivogli, La bolla dell’antipopulismo. Un recovery delle competenze, in Il Foglio, 27 luglio 2020.
28. Per un quadro sinottico delle varie misure pubbliche di sostegno alla recovery, vds. Ocse, Economic Outlook, op. cit., p. 47, box 1.2.: «Government responses to the pandemic crisis». È sufficiente scorrere la tipologia di interventi di emergenza e di medio e lungo periodo che i governi nazionali hanno messo a punto: aumento della spesa corrente a favore del sistema sanitario; sussidi salariali per le contrazioni di orario mediamente sull’80%, short-time work e politiche di job retention; estensioni di sussidi oltre il perimetro dei lavori protetti con un primo abbozzo di misure di welfare universale; interventi sulla liquidità delle imprese attraverso prestiti agevolati, garantiti, ricapitalizzazioni e contributi a fondo perduto; misure di agevolazione fiscale per acquisti mirati di beni e servizi; riduzione dell’Iva; moratoria delle scadenze fiscali e contributive; moratoria di pagamenti di affitti e bollette; blocco del decorso degli interessi sui debiti e moratoria dei pagamenti dei mutui; anticipazione dei pagamenti governativi; detassazione e decontribuzione; modifiche dei sistemi fiscali; interventi finanziari mirati ai settori più colpiti (ristorazione, auto, ricezione alberghiera, trasporto aereo, turismo), etc.
29. Le iniziative più sotto i riflettori e criticate sono state quelle della Commissione Colao e della convocazione dei cd. Stati generali per dieci giorni a Villa Pamphilj, nel giugno 2020, da parte del premier Giuseppe Conte.
30. Per quel che riguarda i Paesi dell’Ue, le misure finanziarie varate vanno dal congelamento del patto di stabilità alla creazione di liquidità da parte della Bce, dal fondo SURE per la creazione di un ammortizzatore sociale europeo fino al «Next Generation Recovery Fund» varato dopo tribolate trattative con i cd. “Paesi frugali”. Sull’accordo e il suo funzionamento, vds. S. Merler, Next Generation: chi ci guadagna e chi ci perde, in Lavoce.info, 23 luglio 2020, www.lavoce.info/archives/68692/next-generation-chi-ci-guadagna-e-chi-ci-perde/.
31. Vds. ILO, Transforming Our World: The 2030 Agenda for Sustainable Development; in ottica più nazionale, vds. F. Barca e P. Longo (a cura di), Un futuro più giusto, Il Mulino, Bologna, 2020.
32. Si rinvia all’elaborazione di S. Fabbrini, Sdoppiamento, Laterza, Bari-Roma, 2017 e ai suoi editoriali domenicali su Il Sole 24 ore.
33. Si rinvia a F. Gallo, Quali interventi, op. cit.
34. Il riferimento è al volume di M. Mazzucato, Il valore di tutto, Laterza, Bari-Roma, 2018; sul rapporto tra Stato e creazione del valore in prospettiva sociologica, vds. D. De Masi, Lo Stato necessario, Rizzoli, Milano, 2020; nella prospettiva di scienza dell’amministrazione, il volume di M.H. Moore, La creazione di valore pubblico, Guerini & Associati, Milano, 2003, e il suo più recente, Recognizing Public Value, Harvard University Press, Harvard (MA), 2013.
35. M. Mazzucato, Il valore di tutto, op. cit., ed. Kindle (pos. 7283). L’economista italo-britannica, consigliera economica del primo ministro Conte, mette in guardia sul fatto che i limiti delle policy pubbliche possono pure derivare non da un depotenziamento dell’attore pubblico dall’esterno per via di riforme; ma anche da fattori endogeni che producono veri e propri errori strategici e gestionali: «Errori che derivano dalla ricerca della rendita possono portare interessi personali a influenzare lo stato. Come sappiamo, vi è una rendita quando viene estratto valore tramite speciali privilegi, per esempio un sussidio o un’esenzione fiscale (…). Imprese che massimizzano i profitti possono cercare di aumentarli sollecitando favori speciali connessi alla politica, e hanno spesso successo perché i politici e i legislatori sono soggetti a influenze e perfino alla corruzione. La possibilità di questa specie di cattura (dello stato da parte d’interessi personali) è un problema, ma diventa ancora più grave quando non c’è una chiara visione del valore dello stato. Se lo stato è visto come irrilevante, col tempo diventerà anche meno fiducioso e più facilmente corrotto dai cosiddetti “creatori di valore” – che possono poi convincere i legislatori a concedere favori per aumentare la loro ricchezza e il loro potere», pos. 7312.
36. Si rinvia alle nitide pagine delle opere di M.H. Moore, cfr. supra, nota 34.
37. Vds. soprattutto Lo stato innovatore, Laterza, Roma-Bari, 2013, ma anche il saggio L’innovazione e i capitali pazienti, in M. Mazzucato e M. Jacobs (a cura di), Ripensare il capitalismo, Laterza, Roma-Bari, 2016.
38. Se ne veda la riconsiderazione in F. Butera, Organizzazione e società, Marsilio, Venezia, 2020, p. 315; il riferimento all’esperienza realizzata negli Usa viene ripreso da D. De Masi, Lo Stato necessario, op. cit., pos. 5350, ed. Kindle. Il dispiegamento di risorse e di idee fu pari alla vastità e alla ricchezza dei risultati: oltre 800 azioni effettivamente realizzate; 137 miliardi di dollari di riduzione dei costi conseguita; 348.000 dipendenti riallocati in funzioni più produttive; 640.000 pagine di regolamenti interni e 16.000 pagine di norme federali abolite. Il tutto con il massimo accordo fra Governo e sindacati.
39. Scrive efficacemente F. Butera, Organizzazione e società, op. cit., p. 308: «il modello ordinamentale si basa sull’idea della riforma: leggi, ordinamenti di servizio, regole, organizzazione istituzionali visti come rivoluzione e come palingenesi (…). È associato all’idea che i processi reali saranno sospinti dalla forza della riforma, insomma che “l’intendenza seguirà”». Sul rapporto, squilibrato, tra necessità della riforma istituzionale come presupposto indefettibile del change management, e mancanza della cultura (se non proprio della prassi) del cambiamento osmotico e del modello processuale, oltre alle opere citate di Butera e De Masi, si veda l’ancora attuale lettura del volume di M.H. Moore, La creazione di valore pubblico, op. cit. Sull’ultimo ciclo di riforme dell’amministrazione pubblica in Italia e suoi limiti si rinvia a B. Caruso (a cura di), La quarta riforma del lavoro pubblico e oltre, in Quaderni della rivista Diritti lavori mercati, n. 7/2019, e ai saggi ivi contenuti.
40. M. Weber, Economia e società, vol. IV, Edizioni di Comunità, Milano, 1981, p. 73. E aggiunge: «Nell’amministrazione burocratica (...) la precisione, la rapidità, l’univocità, la pubblicità degli atti, la continuità, la discrezione, la coesione, la rigida subordinazione, la riduzione dei contrasti, le spese oggettive e personali sono recati nella misura migliore rispetto a tutte le forme collegiali o di uffici onorari o assolti come professione secondaria». Del grande sociologo tedesco ricorre nel 2020 il centenario della morte. Sono apparsi alcuni articoli celebrativi: vds. quello di G.A. Stella, Max Weber e i buromostri, in Corriere della sera, 14 giugno 2020; il rapporto tra scienza, politica e burocrazia in Weber è ora rivisitato da M. Cacciari, Il lavoro dello spirito, Adelphi, Milano, 2020 (vds. cap. III: «Nuovi centauri»).
41. M. Weber, La politica come professione, Einaudi, Torino, 2004, p. 73, ma pure pp. 63 ss. Si veda l’articolo di C. Galli, La politica come vocazione, in La Repubblica, 14 giugno 2020.
42. La mancanza dei caratteri salienti dell’amministrazione weberiana fa dire a Sabino Cassese che, nell’amministrazione italiana, non si è neppure realizzata un’efficiente organizzazione secondo il modello tayloristico: S. Cassese, Lectio magistralis. Problematiche e rimedi per un’amministrazione orientata al risultato, in L. Comper e M. Marcantoni (a cura di), Un nuovo management pubblico come leva per lo sviluppo. Atti del seminario «Istituzioni norme risultato», Franco Angeli, Milano, 2016. Secondo Sabino Cassese, il taylorismo in Occidente avrebbe avuto 15 step evolutivi che l’amministrazione pubblica italiana «si è persa in toto». Di «primitivismo organizzativo» dell’amministrazione pubblica italiana parla L. Zoppoli, Dopo la digi-demia: quale smart working per le pubbliche amministrazioni italiane?, Centre for the Study of European Labour Law (CSDLE) “Massimo D’Antona”, working paper n. 421/2020, p. 16. Il modello burocratico tayloristico è quel che De Masi definisce la «third party adiministration», che prefigura un rapporto subordinato della burocrazia alla politica e che avrebbe dovuto in teoria essere superato dal modello del New Public Management a cui si ispirava già la riforma D’Antona-Bassanini e, in parte, la riforma Brunetta, e che avrebbe dovuto preludere alle nuove concezioni della New Public Governance nelle sue varianti del New Public Governance e della Public Value Theory, che rivalutano l’azione dello Stato e della sua burocrazia come agenti attivi di creazione di valore pubblico. Il giudizio negativo sull’amministrazione pubblica italiana, reputata inadeguata agli immani compiti prefigurati dalla recovery, è ribadito da Sabino Cassese durante la pandemia: intervista di Paolo Bricco, in Il Sole 24 ore, 5 luglio 2020: Nella Pa lo smart working è stato per molti una grande vacanza; Id., Odiata burocrazia, in Il Foglio, 20 maggio 2020.
43. D. De Masi, op. cit.
44. Come ricorda M. Mazzucato, Il valore di tutto, op. cit., secondo questa teoria il fallimento dello Stato è causato da interessi privati che “catturano” i politici tramite il nepotismo, il clientelismo, la corruzione o la ricerca di rendite, l’errata allocazione delle risorse come l’investimento di denaro pubblico in nuove tecnologie senza successo (scegliere i perdenti), o la concorrenza sleale con iniziative private (“spiazzando” quelli che altrimenti sarebbero stati investimenti privati di successo). La teoria della scelta pubblica ha giustificato in qualche modo l’ondata di privatizzazioni a partire degli anni novanta del secolo scorso e l’adozione acritica e burocratica della metodologia aziendalista (il NPM) nelle pubbliche amministrazioni italiane (soprattutto con la riforma Brunetta).
45. B.G. Mattarella, Le regole dell’onestà, Il Mulino, Bologna, 2007; G. Pellegrino, Etica pubblica, Luiss University Press, Roma, 2015.
46. B. Caruso, Le riforme e il lavoro pubblico: la “legge Madia” e oltre. Miti, retoriche, nostalgie e realtà nell’ “eterno ritorno” allo statuto speciale del lavoratore pubblico, in Id. (a cura di), La quarta riforma del lavoro pubblico, op. cit., p. 9.
47. Secondo il modello ideale di manager pubblico individuato da M.H. Moore, La creazione di valore pubblico, op. cit., p 37: «i manager pubblici sono come esploratori che, con l’aiuto di altri, cercano di individuare, definire e realizzare ciò che ha valore pubblico. Anziché limitarsi a trovare i modi per eseguire il loro mandato, diventano attori imprescindibili nello scoprire e definire cosa sia importante fare. Piuttosto che sentirsi responsabili di garantire solamente una certa continuità, diventano innovatori, cambiando il modo di operare delle organizzazioni pubbliche. In sintesi, in quest’ottica i manager pubblici sono strateghi piuttosto che tecnici». Quel che è avvenuto in Italia, soprattutto negli ultimi anni, sempre seguendo Moore, è che i dirigenti pubblici sono stati scoraggiati dall’intraprendere, in ciò sottraendo «al settore pubblico quel fattore chiave sul quale il settore privato fa affidamento in maniera determinante per restare reattivo, dinamico e innovativo: vale a dire, la capacità di adattamento e l’efficienza che derivano dall’utilizzo della creatività dei manager per combinare la sensibilità nei confronti della domanda, e il controllo sulla capacità operativa con lo scopo di produrre valore».
48. Uno dei fattori che caratterizza l’amministrazione innovativa, secondo M. Mazzucato, è invece proprio la propensione al rischio dell’errore, della strada innovativa intrapresa con coraggio, ma inevitabilmente esposta alla fallacia sperimentale. Oggi, persino licenziare un dipendente davvero sfaticato espone il dirigente al rischio di pagare i danni nel caso di non raggiunta prova dell’inadempimento o della colpa, o di errore procedurale; mentre allo stesso tempo, schizofrenicamente, secondo l’attuale ordinamento, se il dirigente comunque non si attiva per promuovere il procedimento disciplinare di fronte all’evidenza dell’inadempimento, rischia di essere sottoposto, a sua volta, a sanzione.
49. Su questo insiste F. Bernabè, A conti fatti, quarant’anni di capitalismo italiano, Feltrinelli, Milano, 2020, ed. Kindle, pos. 6052: «Sono il sistema di regole e le infrastrutture pubbliche a creare le condizioni per l’innovazione. Lo Stato svolge una funzione essenziale nel promuovere gli investimenti, non solo nelle infrastrutture e nei servizi, ma anche nella ricerca, nella scuola e nell’università. In tutto questo l’Italia è carente. La pubblica amministrazione è stata nel tempo impoverita nelle professionalità, gravata di regole che ne ostacolano il funzionamento, umiliata nei suoi compiti. Per creare l’infrastruttura e le regole che consentano all’iniziativa privata di esprimersi al meglio occorre un programma di snellimento dell’amministrazione centrale e locale e di semplificazione delle procedure».
50. Non è chiaro come si sia passati, nel discorso pubblico dominante e nella conseguente regolazione – quasi senza soluzione di continuità di impianto culturale e senza alcuna seria riflessione – dal mettere al centro il mitico furbetto del cartellino (onde il potere disciplinare come strumento principale di regolamentazione e di gestione delle risorse umane), al pubblico dipendente in versione smart, autoregolato e autoresponsabile, come nuova frontiera della riforma dell’amministrazione pubblica; e ciò a prescindere da ogni riflessione sull’attuale stato della micro-organizzazione amministrativa delle amministrazioni centrali, autonome, locali e periferiche. Al punto che si discetta, nella versione convertita del decreto “Rilancio”, di favolosi contingentamenti di lavoro a distanza e di ancor più favolosi obiettivi affidati a resistibili acronimi programmatici (tipo «Pola»: «Piano organizzativo del lavoro agile», inserito dal comma 4-bis all’art. 263 dalla l. di conversione n. 77/2020).
51. Con lucidità S. Cassese, La cascata di regole per “semplificare”, in Corriere della sera, 6 luglio 2020, individua le linee di una semplificazione reale e possibile che sembrano mancare nel decreto “semplificazione” che il Governo ha appena varato (dl 16 luglio 2020, n. 20). La sua lettura in effetti non risponde in pieno alle aspettative indicate dai commentatori: vds., solo per citare alcuni interventi sulla stampa precedenti al decreto, G. Tria, L’apriscatole e l’eccesso di burocrazia, in Il Sole 24 ore, 23 maggio 2020; R. Petrini, Novantuno idee antiburocrazia. La ricetta Cottarelli, in La Repubblica, 27 giugno 2020; M. Panucci, Creare una burocrazia che decida. L’agenda delle riforme per una burocrazia che decida, in Il Sole 24 ore, 27 giugno 2020. Più in linea con proposte dei commentatori (vds. M. Clarich e S. Micossi, Ripresa, due proposte per evitare la paralisi da burocrazia, in Il Sole 24 ore, 22 maggio 2020) le norme riguardanti la responsabilità erariale. Con riguardo alla responsabilità del dirigente per dolo, la legge ha introdotto il principio più restrittivo del dolo penalistico ex art. 43 cp (volontà dell’evento dannoso, oltre che della volontarietà della condotta illecita o dannosa), correggendo in tal modo l’interpretazione maggioritaria della Corte dei conti, propensa ad applicare la nozione contrattuale o in adimplendo del dolo (comportamento che scientemente violi un obbligo, senza che sia necessaria la diretta e cosciente intenzione di nuocere o di procurare il danno: art. 21, comma 1, dl n. 76/2020). Si prevede, poi, una eliminazione soltanto transitoria della colpa grave (e per questo dubbia costituzionalmente) e solo per la responsabilità commissiva e non omissiva: art. 21, comma 2. Si è intervenuti con l’art. 23 sul reato di abuso d’ufficio, previsto dall’art. 323 cp, che, come è noto, ha letteralmente imperversato nelle aule dei tribunali penali in questi anni e con il quale sono stati perseguiti centinaia di pubblici amministratori, politici e burocrati; si è radicalmente mutata la fattispecie criminosa per porre rimedio al fenomeno dell’amministrazione difensiva. L’area penalmente rilevante non viene più ricondotta alle violazioni delle «norme di legge o di regolamento», ma viene adesso circoscritta all’inosservanza «di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge»; in tal modo si esclude che il reato in questione sia configurabile in caso di trasgressione di norme di rango secondario, regolamentare o sub-primario, ovvero finanche in ipotesi di norme di rango primario, tutte le volte che, da queste ultime, non siano ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse per il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio. In aggiunta, si richiede in ogni caso, sempre ai fini dell’integrazione del delitto in oggetto, che dalla norma violata non debbano residuare «margini di discrezionalità» in capo al soggetto agente; in tal modo si espunge dall’area del penalmente rilevante l’eccesso di potere. Tale intervento si è reso necessario per correggere l’intervento interpretativo correttivo della originaria disposizione, posto in essere dalle sez. unite della Cassazione (Cass. pen., n. 155/2012); secondo questa decisione, la violazione di legge, rilevante a norma dell’art. 323 cp, si avrebbe non solo quando la condotta del pubblico ufficiale si sarebbe svolta in contrasto con le norme che regolano l’esercizio del potere (profilo della disciplina), ma anche quando difettino le condizioni funzionali che tale esercizio legittimano (profilo dell’attribuzione): nello specifico, ciò si verifica allorquando la condotta risulta finalizzata alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è conferito; onde la giurisprudenza successiva alla pronuncia delle sez. unite ha individuato l’abuso, non solo in casi di violazione di legge in senso stretto, ma anche in tutte le situazioni in cui l’atto dell’agente integra un vizio dell’atto amministrativo (eccesso di potere), purché contrastante con disposizioni di legge o di regolamento a contenuto precettivo, tra cui anche la violazione del principio costituzionale del buon andamento o di imparzialità (art. 97 Cost.) nella parte in cui esprime il divieto di ingiustificate preferenze o di favoritismi, ovvero di intenzionali vessazioni o discriminazioni e di procurare ingiusti danni. Si è finito così con imporre al pubblico ufficiale una regola di comportamento di immediata applicazione. Onde il nuovo disposto, che effettivamente alza notevolmente il paletto della responsabilità penale con l’eliminazione del riferimento ai regolamenti e anche sancendo l’irrilevanza di principi generalissimi come quelli del buon andamento o dell’imparzialità: le norme devono fare riferimento a “regole di condotta specifiche ed espresse” che presidiano all’esercizio dei pubblici poteri. Tali regole di condotta oltretutto non devono lasciare «margini di discrezionalità» all’agente. Laddove c’è discrezionalità non ci può essere abuso di ufficio.
52. M.H. Moore, La creazione di valore pubblico, op. cit., cap. II.
53. S. Cassese, Lectio magistralis, op. cit., p. 40.
54. Vds. le schede nn. 58 ss., in particolare, per quel che qui interessa: n. 58, Superamento burocrazia difensiva; n. 68, Piano risorse umane della p.a.; n. 69, Formazione continua; n. 70, Revisione modelli lavoro; n. 71, Rafforzare la formazione del middle management pubblico; n. 72 Sostenibilità delle p.a. Si veda pure il rapporto del Comitato di esperti in materia economica e sociale, Iniziative per il rilancio “Italia 2020-2022”, 2020, pp. 12 e 30 ss.
55. COM(2020), 20 maggio 2020, 512 final, «Raccomandazione del Consiglio sul programma nazionale di riforma 2020 dell’Italia e che formula un parere del Consiglio sul programma di stabilità 2020 dell’Italia», p. 8: «L’erogazione delle prestazioni sociali, le misure a sostegno della liquidità, l’anticipazione degli investimenti, ecc. potrebbero non essere efficaci se ostacolate da impedimenti nel settore pubblico. Tra le carenze figurano la lunghezza delle procedure, tra cui quelle della giustizia civile, il basso livello di digitalizzazione e la scarsa capacità amministrativa. Le procedure e i controlli devono essere attuati rapidamente, in un contesto in cui vengono significativamente incrementate le risorse pubbliche a sostegno dell’attività economica». Vds. M. Ferrera, Efficienza, rapidità, progetti: le richieste dell’Europa, in Corriere della sera, 7 giugno 2020. Sul Pnr, vds. L. Baratta, Ecco il “Piano nazionale di riforma” per ottenere gli aiuti europei, in Linkiesta, 7 luglio 2020.
56. In generale, sul modello di capitalismo mediterraneo, in cui può essere inserito a pieno titolo il modello italiano, vds. L. Burioni, Capitalismi a confronto, Il Mulino, Bologna, 2016, p. 173: le principali caratteristiche di questo modello sono la scarsa produttività del lavoro, l’inefficienza della macchina amministrativo burocratica, la scarsa efficienza della spesa pubblica, il deficit e la scarsa qualità dell’investimento in sviluppo, istruzione e innovazione tecnologica, il carattere familiare di moltissime imprese e la prevalenza delle piccole e medie imprese, i tassi medi di disoccupazione più alti della media europea e i tassi di attivazione della forza lavoro più bassi, soprattutto per giovani e donne, l’accresciuta insicurezza nel mercato del lavoro senza competitività.
57. Le citazioni sono superflue, ma si può far riferimento alla vasta produzione scientifica di storici dell’industria del calibro di Giuseppe Berta e di Valerio Castronovo; di recente, di taglio più giornalistico e autobiografico, oltre al citato volume di F. Bernabè, A conti fatti, op. cit., il dialogo a distanza tra F. De Bortoli e S. Rossi, La ragione e il buon senso, Il Mulino, Bologna, 2020.
58. Si rinvia al bel volume di G. Berta, L’enigma dell’imprenditore, Il Mulino, Bologna, 2018.
59. La migliore descrizione in chiave storica e geopolitica delle politiche e delle strategie “estrattive” nei confronti degli Stati fino al fallimento delle nazioni è quella, ormai classica, di D. Acemoglu e J.A. Robinson, Perché le nazioni falliscono, Il Saggiatore, Milano, 2013.
60. La definizione di «Corona socialism», riferita addirittura alle imprese tedesche, è degli intervistatori M. Hesse e M. Sauga, a uno dei top economisti tedeschi attuali, Clemens Fuest: The Virus Must Be Contained Before the Economy Can Recover, in Der Spiegel (International), 10 luglio 2020. Si riportano alcuni significativi brani che danno il senso politico del concetto: Der Spiegel: «Nevertheless, many companies have accumulated gigantic losses and now have to be rescued by the state, through loans or direct equity investments. Are we facing a kind of corona socialism?»; Fuest: «I hope not. It may be right for the state to take a stake in certain companies to save them from bankruptcy. But the government should then also impose conditions – that companies temporarily can’t pay out dividends, for example. It would be wrong for the state to interfere in operational business». Interessanti pure le implicazioni di politica industriale che vengono dall’intervista. Der Spiegel: «But the state is now the new co-owner. Doesn’t it have the duty to press for environmentally friendly production methods, for example?»; Fuest: «No. If the state wants to protect the environment, it must impose conditions that apply to all companies, not just those in which the state holds shares. It is right to limit executive bonuses (Eds: As the German government has done in firms it has bailed out in the form of share purchases.) However, setting political guidelines for day-to-day operations isn’t the right course of action». Per un approccio ortodosso, da “Corona sozialismus”, con riguardo soprattutto alle politiche del lavoro (infra, § 4), alla crisi pandemica, vds. tra i giuslavoristi italiani S. Giubboni, Il diritto del lavoro dopo la pandemia: appunti per un’agenda progressista, in questo fascicolo.
61. Cultura «dell’assalto alla diligenza» è stata definita da T. Boeri e R. Perotti, Gli ultimi meritano di più, in La Repubblica, 22 maggio 2020, ove si denuncia la logica a pioggia degli interventi, spesso dettati più da spinte lobbistiche canalizzate in Parlamento che da esigenze reali.
62. I fenomeni a cui ci si riferisce confermano l’instabilità, se non addirittura la schizofrenia, del dibattito pubblico in Italia. Con riguardo agli ammortizzatori sociali, dopo la prima fase in cui i censori del neo-statalismo di ritorno hanno messo sotto accusa l’Inps e la burocrazia statale per i ritardi e la farraginosità delle sovvenzioni, il dibattito pubblico ha cambiato registro e ha preso il sopravvento il partito anti-impresa; ciò a partire da alcuni riscontri relativi a utilizzi di ammortizzatori da parte di imprese che non avrebbero subìto pregiudizi economici nella fase dell’emergenza: le denunzie, soprattutto in vari reportage del Fatto quotidiano del 1° agosto 2020, ove si parla di abusivi della Cig, e anche del 7 agosto 2020. In effetti anche testate meno partigiane citano uno studio Inps-Bankitalia, sull’utilizzo complessivo degli ammortizzatori sociali, da cui si evincerebbe che una percentuale di imprese abbia beneficiato degli ammortizzatori durante il lockdown senza significativi cali di fatturato: vds. P. Baroni, Risparmi per 1100 euro ad addetto. Così nascono i furbetti della Cig, in La Stampa, 30 luglio 2020. Di comportamenti opportunistici delle imprese con riguardo agli ammortizzatori sociali parla pure un giornalista economico serio come F. Fubini, Il disegno al di là del debito. Siamo il Paese che spende di più, in Corriere della sera, 1° agosto 2020. Al di là delle polemiche da tifo calcistico, occorre riconoscere che i censori dello Stato dimenticano che lo sforzo dell’Inps è stato davvero colossale e i disguidi, benché importanti, sono stati alla fine assorbiti anche se più per buona volontà che per ritrovata efficienza (rimane comunque l’irrazionalità del sistema plurimo degli ammortizzatori sociali e di differenziazioni procedurali per l’accesso). Il partito anti-impresa trascura che l’interruzione improvvisa della produzione implica comunque il ricorso all’ammortizzatore a prescindere dal calo di fatturato che può verificarsi, come può anche non verificarsi successivamente in ragione alla dinamica degli ordini e delle commesse, e che situazioni di “approfittamento” hanno comunque riguardato non solo un segmento delle imprese, ma anche di lavoratori che, nel breve periodo, hanno guadagnato in termini di reddito da provvidenze Covid-19 più dello standard ordinario: si veda la nota 65. Sui comportamenti opportunistici generalizzati durante la fase 1, si rinvia all’editoriale di T. Boeri e R. Perotti, Gli ultimi, op. cit.
63. Una delle analisi giornalistiche più interessanti a questo proposito è quella di U. Bertone apparsa su Il Foglio del 10 giugno 2020: Per il mercato c’è tempo, lo stato continui a intervenire nel post pandemia, dove si citano le posizioni di economisti del calibro di Jean Pisani-Ferry, Thomas Philippon e Olivier Blanchard, non certo sospettabili di ideologie anti-mercato; interessante il riferimento allo “spirito della pizzeria”; la mano pubblica dovrà intervenire per sostenere i costi extra del distanziamento sociale, che ha determinato il calo di produttività dell’azienda. Le norme sulle distanze tra i clienti, così come quelle tra i cuochi, hanno senz’altro un costo rilevante per un ristorante. «In epoca normale la risposta ai problemi non può che stare nelle regole del mercato: nel caso non quadrino i conti si licenzia il personale in eccesso che si sistemerà altrove. Ma questi non sono tempi normali». Il rischio è quello di una disoccupazione di lunga durata, ovvero di un alto “prezzo ombra” a carico della collettività. «Dal punto di vista dell’efficienza sociale – è il ragionamento – le aziende devono perciò essere messe in condizione di prendere decisioni sulla base del confronto tra il margine di valore prodotto dal lavoratore e il prezzo ombra, assai più importante del livello dello stipendio. Insomma, nelle condizioni post pandemia, il criterio del profitto aziendale deve cedere il passo al criterio del benessere sociale. E nel caso dei settori in cui non si possa comprimere i salari “saranno necessari contributi pubblici per prendere le decisioni più efficienti dal punto di vista sociale”». Regole che valgono per una pizzeria così come per una multinazionale. «Per tutti – è la tesi degli economisti – proponiamo due tipi di interventi: contributi a salari e stipendi a carico della mano pubblica per venire incontro ai dipendenti e ai settori più colpiti. E per le imprese regole più flessibili e soft per la ristrutturazione dei debiti». Tale filosofia di intervento attraversa le schede del rapporto Colao.
64. Tale fase dovrebbe cessare quanto prima, secondo l’autorevole opinione dell’Economist: As the economy recovers fiscal policy has to shift. Is it time to wind down emergency stimulus, 11 luglio 2020. Tale parziale e graduale cambiamento di prospettiva, dalle sovvenzioni a pioggia agli stimoli a selettive ed efficaci politiche industriali di ripresa, si incomincia a intravedere nel decreto “Agosto”, dove tuttavia non mancano ancora distribuzioni selettive di bonus e provvidenze: dalla proroga della Cassa integrazione (art. 1), ancorché con obblighi di contributi selettivi a carico delle imprese in ragione delle percentuali di perdita di fatturato, ad indennità per lavoratori stagionali del turismo, degli stabilimenti termali, dello spettacolo e ai lavoratori marittimi e sportivi (artt. 9, 10 e 12) e al reddito di ultima istanza (art. 13) e di emergenza, art. 23; agli immancabili aiuti per il trasporto aereo (art. 20), a improbabili fondi per le casalinghe (art. 22).
65. America’s huge stimulus is having surprising effects on the poor, The Economist, 6 luglio 2020; dall’analisi dell’autorevole settimanale sembrerebbe che gli effetti della crisi sulla povertà, negli Usa, siano contradditori: mentre è aumentata la percentuale di americani che dichiarano difficoltà a trovare di che nutrirsi giornalmente e di pagare l’affitto, con un aumento della percentuale di coloro che «are typing bankrupt into google», è vero pure che «these trends, bad as they are, do not appear to be part of a generalised rise in poverty», il cui trend tenderebbe invece a diminuire, ciò in dipendenza delle misure di stimolo; il tasso di povertà, particolarmente alto negli Usa rispetto ad altri Paesi sviluppati, è destinato tuttavia ad aumentare non appena cesseranno le misure.
66. La logica dell’emergenza economica (fase 1) e dell’avvio alla ripresa (fase 2) non può essere trasferita alla fase della recovery (fase 3 e oltre), ove i fondi dovrebbero essere canalizzati, fondamentalmente, su ricerca, formazione e innovazione, scuola e cultura, e sui settori ritenuti strategici: infrastrutture (comprensiva della rete digitale) e green new deal, riassetto del sistema sanitario: tra i tanti, l’autorevole posizione dell’Economist, As the economy recovers fiscal policy has to shift. Is it time to wind down emergency stimulus, 11 luglio 2020. Per quel che riguarda la fase del “rilancio” (praticamente la fase 2), si veda l’analisi critica dell’art. 42 del decreto “Rilancio” n. 34/2020 di M. Calderini, Non basta dare soldi. Quattro domande sull’innovazione, in La Repubblica, 23 maggio 2020. Un’analisi più in chiave di proposte di policy che di proposte operative (da cui la critica di inutilità), proiettate anche nella fase 3, proviene dal rapporto Colao e dalle relative schede; vds. pure Banca d’Italia, Considerazioni finali del Governatore, op. cit.
67. Vds. l’articolo di V. De Romanis, Le condizionalità dell’Europa sono già nel contratto di governo, in Il Foglio, 10 giugno 2020. Basta leggere le articolate conclusioni del Consiglio europeo del 17-21 luglio 2020 (EUCO, Concl. 4, www.consilium.europa.eu/media/45118/210720-euco-final-conclusions-it.pdf), che collegano le misure di sostegno alla presentazione di piani per la ripresa e la resilienza da parte degli Stati approvati dal Consiglio su proposta della Commissione; i pagamenti sono subordinati alla valutazione positiva con riguardo «al soddisfacente conseguimento di pertinenti target intermedi e finali» (A19). I capitoli di spesa riguardano il mercato unico, l’innovazione e l’agenda digitale (punti 25 ss.); coesione, resilienza e valori (punti 34 ss.); risorse naturali e ambiente (punti 84 ss.); migrazioni e gestione delle frontiere (punti 101 ss.); sicurezza e difesa (punti 109 ss.); vicinato e resto del mondo (punti 117 ss.); pubblica amministrazione europea (punti 127 ss.).
68. Proprio nel mese di agosto sono state avviate le procedure formali per utilizzare i fondi SURE nella misura di 28,5 miliardi per l’Italia; per una descrizione del funzionamento del meccanismo SURE a regime, vds. P. Baroni, ll conto sociale lo paga l’Europa, in La Stampa, 8 agosto 2020: «L’Unione europea finanzia con prestiti a tasso agevolato da concordare paese per paese tutte le spese relative alle iniziative messe in campo dai singoli stati per contrastare la disoccupazione. Funziona come una specie di salvadanaio dal quale i governi possono attingere a fronte del versamento di una quota proporzionata al rispettivo Pil». Il fondo stesso e le modalità di accesso rappresentano quasi il simbolo, più ancora del Recovery Fund, della nuova stagione dell’Unione europea determinatasi con la pandemia e varata dalla Commissione diretta da Ursula Von der Leyen, vds. l’intervista di F. Fubini al commissario P. Gentiloni, Sui fondi Ue no a 100 progetti per dare segnali a tutti. E basta europeismo riluttante, in Corriere della sera, 10 agosto 2020.
69. Il “decreto di agosto” sembrerebbe meno ispirato alla pratica dei bonus a pioggia giustificati dall’emergenza, anche se questi non mancano (per una rapida rassegna, vds. A. Orlando, Nuovo bonus di mille euro agli stagionali senza contratto, in Il Sole 24 ore, 17 agosto 2020), e più a quello degli interventi strutturali: per esempio, con la misura dello sgravio dei contributi del 30% (art. 27; vds. La Repubblica, intervista al ministro Gualtieri, Così taglieremo le tasse, 9 agosto 2020) per ora sino al 31 dicembre 2020 e, Ue permettendo, proiettati nell’intenzione per 10 anni, per le imprese che investono al Sud – voluti dal ministro per il Mezzogiorno Provenzano: vds. la sua intervista per La Repubblica, Ora basta con i bonus a pioggia. Fare scelte è di sinistra, 8 agosto 2020. Sulle misure di rilancio produttivo contenute nel decreto “Agosto”, vds. un primo intervento, costruttivamente critico, di C. Cottarelli, Pioggia di bonus inutile senza una strategia. E il taglio delle tasse al Sud non convince, in La Stampa, 8 agosto 2020. Critiche anche da F. De Bortoli, L’illusione a colpi di bonus, in Corriere della sera, 9 agosto 2020, e più radicali da F. Forte, Aiuti al Sud? Un “buco” Inps, in Il Giornale, 10 agosto 2020. Per un’analitica presentazione della misura e dei suoi effetti nel caso di stabilizzazione, vds. R. Petrini, Lavoro meno tasse al sud, in La Repubblica, 7 agosto 2020. Gli aiuti al Sud (capo II del decreto “Agosto”, artt. 27 e 28) hanno puntualmente fatto ripartire, come una reazione pavloviana, il dibattito sulla questione settentrionale: vds. i dati forniti da economisti sugli effetti della crisi, più che proporzionali nel breve al Nord e più strutturali al Sud: P. Baroni, Sos lavoro, paese diviso. Ma il virus ha fermato la corsa del settentrione. Il dossier, in La Stampa, 10 agosto 2020; l’indagine Svimez, i cui dati sono riportati da J. Orsini, Conto più salato al Sud per l’occupazione, al Nord gli aiuti maggiori, in Il Messaggero, 11 agosto 2020; l’editoriale di M. Giannini sullo stesso quotidiano del 9 agosto 2020: La doppia questione settentrionale. Da uno sguardo di insieme al decreto emerge che, su 109 articoli, 28, escluse le misure fiscali, siano destinati al sostegno all’economia e 27 al lavoro. Sugli specifici interventi di politica industriale (fondo “salva-aziende”, agevolazioni Invitalia, rifinanziamento nuova Sabatini e grandi progetti nuove tecnologie) vds. C. Fotina, Crisi e contrati di sviluppo, pacchetto da 700 milioni, in Il Sole 24 ore, 15 agosto 2020. Si veda pure l’analitica rassegna delle misure su La Stampa del 9 agosto 2020 di F. Capurso, Dall’Ue 28 miliardi per l’emergenza lavoro. Il piano per il Mezzogiorno sarà strutturale. Un intervento che appare, come al solito, equilibrato oltre che informato è quello di D. Di Vico, L’inutile duello tra Nord e Sud, in Corriere della Sera, 14 agosto 2020. Vds. pure l’intervento dell’ex ministro del Governo Letta: C. Trigilia, Mezzogiorno, un aiuto poco utile, in La Stampa, 15 agosto 2015.
70. Si vedano le schede, molto chiare, contenute nel Piano nazionale d’Impresa 4.0 del Ministero dello sviluppo economico (www.mise.gov.it/images/stories/documenti/investimenti_impresa_40_ita.pdf: iper- e super-ammortamento, nuova Sabatini, credito di imposta per R&S, credito di imposta formazione 4.0, contratti di sviluppo, accordi per l’innovazione, patent box, etc.). Com’è noto, la linea virtuosa tracciata da quel piano è stata abbandonata dai successivi governi e potrebbe essere ripresa in ragione della disponibilità dei finanziamenti del Recovery Fund.
71. Si rinvia soprattutto alle più analitiche e incisive schede predisposte dalla Commissione Colao, più volte citate.
72. Sul modello di intervento dello Stato nell’economia mediante golden share in imprese e settori strategici, ha insistito Romano Prodi in molti interventi giornalistici. Nello stesso senso pure l’economista Clemens Fuest nell’intervista citata alla nota 60. Persino Boris Johnson, erede di Margaret Thatcher, ha clamorosamente annunciato un piano di rinazionalizzazione delle ferrovie: vds. R. Palomba, Nazionalizzazione ai tempi del covid-19 e i suoi precedenti, Osservatorio CPI, 28 maggio 2020, https://osservatoriocpi.unicatt.it/cpi-Nazionalizzazione%20OCPI.pdf. Attualmente questa tipologia di intervento sta riguardando principalmente il settore del trasporto aereo, ma fondi sono stati stanziati per interventi anche in altri settori. In Italia, il decreto “Cura Italia” e il successivo decreto “Rilancio” hanno previsto la nazionalizzazione di Alitalia attraverso una società a intera o prevalente partecipazione pubblica e l’istituzione di due fondi con dotazione pari a 350 milioni e 3 miliardi di euro rispettivamente. Inoltre, nel nuovo decreto “Rilancio” è stata affidata a Cassa depositi e prestiti la gestione di un patrimonio destinato a rafforzare il capitale di medie e grandi imprese tramite concessione di prestiti obbligazionari convertibili, aumenti di capitale e acquisto di azioni (https://osservatoriocpi.unicatt.it/cpi-archivio-studi-e-analisi-nazionalizzazione-ai-tempi-del-covid-19-e-suoi-precedenti). Politiche di nazionalizzazione hanno accompagnato tutte le grandi crisi: per esempio, studi economici hanno messo in evidenza le nazionalizzazioni successive alla crisi del ’29, con il TARP e al suo interno l’AIFP, Automotive Industry Financing Program americano, con il quale la Presidenza Obama salvò il settore dell’automotive nella crisi del 2008, in particolare le multinazionali americane Chrysler e General Motors, mentre Ford scelse di non prendervi parte. I piani presentati furono considerati non sufficienti e il fallimento non fu evitato, ma il Tesoro accordò lo scambio della sua posizione di creditore per i prestiti erogati con strumenti di partecipazione nelle due compagnie, emergenti dopo che erano state avviate le procedure fallimentari. Tale operazione portò il Governo statunitense a possedere circa il 60% del capitale della GM e il 10% di quello della Chrysler, a fronte di un’iniezione di liquidità complessiva pari a circa 64 miliardi di dollari. Come è noto, il programma di uscita del Governo americano fu molto rapido (già nel 2013, con un notevole margine di guadagno per lo Stato: un profitto complessivo di 16 miliardi di dollari). Nel decreto n. 104/2020, la possibilità di interventi dello Stato nel capitale di imprese, allo scopo di risanamento, è stata estesa anche a imprese con meno di 250 addetti.
73. Una sintesi in Linkiesta del 7 luglio 2020 a cura di L. Baratta, cit.; critiche sul ritardo e sulla genericità delle proposte del Pnr italiano in T. Boeri e R. Perotti, All’Italia serve concretezza, in La Repubblica, 24 luglio 2020. Una sintesi delle misure di politica industriale contenute nel decreto “Agosto” n. 104/2020 in C. Fotina, Stato anche nelle Pmi trategiche. Sud, taglio del 30% ai contributi per 3 milioni di lavoratori, in Il Sole 24 ore, 15 agosto 2020.
74. Sull’esistenza di norme sociali diffuse spontaneamente rispettate come condizione di accumulo di capitale sociale, sulle regole del gioco e sulle relazioni che ne derivano insiste uno dei maggiori esponenti dell’economia istituzionale, il Premio Nobel D. North, Capire il processo di cambiamento economico, Il Mulino, Bologna, 2006. Non per caso, nella introduzione al Piano nazionale industria 4.0 l’allora ministro dello sviluppo economico Carlo Calenda metteva l’accento sull’esigenza di siglare un nuovo patto di fiducia: «quello che il Governo propone, impegnando risorse importanti nei prossimi anni, è un vero patto di fiducia con il mondo delle imprese che vogliono crescere e innovare. Impresa 4.0 investe tutti gli aspetti del ciclo di vita delle imprese che vogliono acquisire competitività, offrendo un supporto negli investimenti, nella digitalizzazione dei processi produttivi, nella valorizzazione della produttività dei lavoratori, nella formazione di competenze adeguate e nello sviluppo di nuovi prodotti e processi. Il successo del Piano Impresa 4.0 dipenderà dall’ampiezza con cui ogni singolo imprenditore utilizzerà le misure messe a disposizione». Secondo il sondaggio Ipsos-Comieco, il contagio avrebbe determinato un incremento del senso civico degli italiani: Il contagio del civismo, in Corriere della sera, 10 giugno 2020. Come è noto, alla base dell’arretratezza anche economica di alcuni territori italiani e della crescita senza sviluppo del nostro sistema ci sarebbe proprio il gap di senso civico, R. Putnam, La tradizione civica nelle regioni italiane, Mondadori, Milano, 1993.
75. L. Burioni, Capitalismi a confronto, op. cit., in particolare i capitoli sul capitalismo continentale e sul capitalismo del Nord-Europa.
76. Sulla cultura civica e sull’etica religiosa confuciana della società giapponese, e sui suoi riflessi sul modello sociale, giuridico e di sviluppo, vds. l’insuperato volume del più grande studioso occidentale di cultura giapponese, A. MacFarlane, Enigmatico Giappone, EDT, Torino, 2007. Nella cultura giapponese, sia il salario sia il contributo fiscale vengono considerati non fredde prestazioni, ma “doni” del datore al proprio lavoratore e del cittadino allo Stato.
77. Scrive A. Gopnik, in quella sorta di manifesto del pensiero liberale moderno che è il volume Il Manifesto del rinoceronte: l’avventura del liberalismo, Guanda, Milano, 2020, ed. Kindle, pos. 893: «le tracce sepolte delle emozioni comuni, continuano a essere le vie della riforma liberale. Se i liberali confidano nella possibilità della riforma è perché sanno, istintivamente ed empiricamente, che in larga misura gran parte del lavoro di riforma viene compiuto prima che entri in gioco la politica. In altre parole abbiamo pienamente compreso che l’esistenza di strade invisibili – aree di discussione e dibattito, aree spontanee, private e non pianificate – è una precondizione essenziale per le società liberali. Ancora una volta, l’umanesimo precede il liberalismo».
78. Lo sottolinea il Consiglio dell’Ue, Raccomandazione del Consiglio, cit., p. 7, punto 20: «i ritardi nei pagamenti approvati, siano essi da un’amministrazione a un’impresa o da un’impresa a un’altra impresa, dovrebbero essere evitati con ogni mezzo poiché riducono la liquidità di tutte le imprese, in particolare di quelle di piccole dimensioni».
79. Sul punto, oltre ai rilievi della Commissione Colao e delle stesse Considerazioni finali del Governatore della Banca d’Italia, op. cit., vds. R. Del Punta, Note sugli ammortizzatori sociali ai tempi del Covid-19, in Rivista italiana di diritto del lavoro, n. 2/2020, pp. 251 ss.
80. È sufficiente spulciare i dati del rapporto Eurispes Italia 2020 o l’ultimo rapporto del Censis 2019 (n. 53), da cui si evince che l’aumento della sfiducia è collegato alla crescente incertezza e prevedibilità dei comportamenti anche degli attori istituzionali.
81. Dl n. 23/2020, convertito in l. 3 giugno 2020, n. 40. Vds. il commento analitico di G. Amato e D. Campo, Le misure a sostegno delle imprese nel Decreto Cura Italia e nel Decreto Liquidità, in Diritto bancario, 8 maggio 2020, www.dirittobancario.it/approfondimenti/credito/le-misure-sostegno-delle-imprese-nel-decreto-cura-italia-e-nel-decreto-liquidita.
82. Nel dibattito pubblico pre- e post-pandemia si annoverano almeno cinque categorie di “furbetti”: del cartellino, dello smart working, del reddito di cittadinanza o di emergenza, della Cig e, ultima arrivata, i furbetti di Montecitorio, i parlamentari che avrebbero percepito il bonus per i lavoratori autonomi. Ovviamente, senza particolari sforzi di fantasia, la declinazione della categoria potrebbe aumentare.
83. Si vedano le dettagliate proposte sintetizzate nelle schede 4.1 ss. (incentivi alla capitalizzazione delle imprese, semplificazione delle procedure di aumento di capitale, etc.), correlate alla parte 4 del rapporto.
84. Al contrario dell’aneddotica giornalistica, non si tratta solo di un documento di policy, ma anche di prospettazione di obiettivi molto analitici con indicazione pure di strumentazione; come modularli e realizzarli, nella pratica, non spetta certo a una commissione di esperti ma alla politica, al legislatore e alle amministrazioni, ognuno per la sua parte. La sensazione di astrattezza delle proposte deriva probabilmente da una lettura separata del Piano dalle schede. In queste ultime, per ogni singola problematica, oltre all’obiettivo specifico, sono indicati i dati di contesto (punti di forza e di criticità) e anche le azioni, a volte molto specifiche, suggerite, che possono ulteriormente essere limate e adattate ai contesti, nelle sedi decisorie adeguate.
85. Il dl n. 23/2020 implementa una serie di misure di sostegno creditizio e fiscale in favore delle imprese. La prima forma di ausilio consiste nell’assicurare agli imprenditori la garanzia del credito ottenuto da istituti di credito con contratti di mutuo o di finanziamento da parte di SACE Spa; garanzia che, peraltro, viene richiesta dagli stessi istituti di credito sulla base dell’accertamento dei requisiti di cui al decreto “Liquidità”, come specificato dalla circolare Abi del 23 aprile 2020.
86. Vds. Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, Decreto Liquidità: il sostegno alle imprese subordinato all’approvazione dei sindacati, 27 aprile 2020, www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/amministrazione-del-personale/quotidiano/2020/04/28/decreto-liquidita-sostegno-imprese-subordinato-approvazione-sindacati; A. Sitzia e G. De Luca, Cosa si intende per “impegno a gestire i livelli occupazionali mediante accordi sindacali” ai fini del “decreto liquidità” (d.l. 23/2020)?, in Bollettino Adapt, 27 aprile 2020, www.bollettinoadapt.it/cosa-si-intende-per-impegno-a-gestire-i-livelli-occupazionali-mediante-accordi-sindacali-ai-fini-del-decreto-liquidita-d-l-23-2020/; Livelli occupazionali e accordi sindacali: la pesante clausola del Decreto Liquidità, https://servicematica.com/livelli-occupazionali-e-accordi-sindacali-la-pesante-clausola-del-decreto-liquidita/.
87. L. Gelmi e F. Toffoletto, L’emergenza non giustifica limiti alla libertà d’impresa, in Il Sole 24 ore, 16 aprile 2020.
88. A. Perulli, Il dialogo tra imprese e sindacati non frena l’iniziativa economica, in Il Sole 24 ore, 23 aprile 2020; Id., «Diritto riflessivo» e autonomia collettiva al tempo di Covid-19, in Rivista italiana di diritto del lavoro, n. 2/2020, pp. 299 ss.
89. Interessante, al tal proposito, la prospettiva indicata da M. Ferrera in un recente editoriale del Corriere della sera del 7 agosto 2020: Lavoro, l’eccezione italiana. Secondo l’Autore, puntare sui sussidi nella fase della ripartenza sarebbe “miope”, posto che la ripresa sarà selettiva e non tutte le attività saranno in grado di riprendersi. Gli ammortizzatori sociali dovrebbero pertanto essere utilizzati per accompagnare il cambiamento, non per congelare lo status quo: il che non è agevolato dal blocco dei licenziamenti, che l’Autore critica. Sulla base di questa posizione, condivisa da altri (infra, note 94 e 95), Ferrera introduce una proposta originale. Gli alti tassi di inattività che caratterizzano, in negativo, il mercato del lavoro italiano, dovrebbero essere contrastati creando lavoro non dove molti pensano che debba farsi, aumentando i consumi o facendo partire gli appalti per le grandi infrastrutture (quindi nell’industria); ma colmando il gap occupazionale strutturale nel settore dei servizi pubblici, dell’istruzione, della sanità e nell’assistenza sociale (settore pubblico, privato e no profit); e poi nel settore dei servizi finanziari e assicurativi, nel settore dell’informazione e della comunicazione e nelle attività professionali, tecniche e scientifiche, compreso il settore della cultura. Secondo Ferrera, l’atrofia occupazionale italiana (i “colli di bottiglia”) riguarderebbe non l’industria e la manifattura, ma proprio i servizi, tradizionali e avanzati, dove mancherebbero all’appello centinaia di migliaia di posizioni di lavoro qualificate, rispetto alle economie più avanzate e attrezzate. Il problema in Italia non sarebbe, quindi, solo di produttività ma anche di produttori. Onde la ricetta suggerita, per il Governo, non sarebbe quella di difendere, come sembra che stia facendo, i posti di lavoro esistenti, ma di promuovere la creazione di lavoro dove tutt’ora manca, nei servizi gestiti dallo Stato o da privati.
90. Riferimenti supra, note 2 e 13.
91. Si rinvia all’interessante studio di L. Casano, Contributo all’analisi giuridica dei mercati transizionali del lavoro, ADAPT University Press, Modena, specie il cap. III e i riferimenti ivi contenuti agli studi del maggiore teorico di tali mercati, Günther Schmid.
92. Per una riflessione sistematica sulla flexicurity si rinvia a B. Caruso - R. Del Punta - T. Treu, Manifesto per un diritto del lavoro sostenibile, Centre for the Study of European Labour Law (CSDLE) “Massimo D’Antona”, 2020, p. 44 ss., http://csdle.lex.unict.it/Archive/AC/Webliography/Blogs/20200521-032536_Manifesto_Caruso_Del_Punta_Treupdf.pdf; vds. pure M. Barbera, La «flexicurity» come politica e come narrazione, in B. Caruso - R. Del Punta - T. Treu (a cura di), Il diritto del lavoro e la grande trasformazione, Il Mulino, Bologna, 2020.
93. Si rinvia al rapporto Colao; agli studi delle agenzie internazionali citati alla nota 2; alle Considerazioni finali del Governatore della Banca d’Italia, op. cit.; agli interventi ospitati nel volume Aa. Vv., Il mondo che verrà, op. cit.; vds. pure R. Prodi, Le riforme per la crescita, in La Repubblica, 24 luglio 2020; A. Illy e K. Schwab, Un forum per dare vita a un «nuovo rinascimento», in Corriere della sera, 25 luglio 2020. È proprio di questi giorni la preoccupante notizia del rischio della scomparsa, in Italia, di storiche produzioni di qualità che segnano da secoli l’identità culturale ed estetica del nostro Paese: quella degli artigiani del vetro di Murano; vds. G. Visetti, Il virus chiude Murano. “Salvate mille anni di arte del vetro”, in La Repubblica, 12 agosto 2020.
94. Ovviamente gli economisti più di tendenza liberale e pro-market insistono su questa ricetta; vds. gli interventi di S. Stagnaro, dell’Istituto Bruno Leoni, Contro l’Italia degli zombie. Liberate l’economia pietrificata, in Il Foglio, 10 agosto 2020, e già durante il lockdown, Il vaccino per l’economia, ivi, 30 marzo 2020.
95. Il dibattito si è svolto, comprensibilmente per ora, soprattutto sulle colonne dei giornali: D. Di Vico, La leva della produttività e quel richiamo di Visco che non piace al palazzo, in Corriere della sera, 16 giugno 2020 (con espliciti riferimenti alle Considerazioni finali del Governatore della Banca d’Italia, op. cit.); G. Tabellini, Perché prolungare il blocco dei licenziamenti non aiuterà il mercato del lavoro, in Il Foglio, 13 giugno 2020; G. Galli, La Cassa non va, ivi, 7 agosto 2020; P. Ichino, I rischi e gli abusi del sostegno al reddito, ivi, 8 luglio 2020; T. Boeri, Perché il divieto di licenziamento non è una buona idea (oltre che incostituzionale), in La Repubblica, 4 agosto 2020; R. Del Punta, Il blocco dei licenziamenti si allunga da 2 a 5 mesi, in Il Sole 24 ore, 23 maggio 2020; A. Garnero, Cig trappola d’acciaio, in Il Foglio, 1° luglio 2020. A favore del blocco, invece, la ministra del lavoro N. Catalfo, Licenziamenti, il blocco non è un rischio, in Corriere della sera, 10 agosto 2020; e le OO. SS.: Landini: no ai licenziamenti o si rischia lo scontro sociale, intervista in La Repubblica, 4 agosto 2020, alla vigilia del decreto dello stesso mese. Radicalmente contrari al blocco dei licenziamenti invece i Consulenti del Lavoro e Confindustria: Se non si licenzia il rischio è il default, in La Stampa, 24 luglio del 2020; Le imprese non vogliono lo scontro sociale. Ma a chi ha perso il 30% serve flessibilità, intervista a Pietro Ferrari, presidente di Confindustria Emilia-Romagna, in La Stampa del 7 agosto 2020; N. Picchio, I paletti delle imprese tra riforme e misure di emergenza Covid, in Il Sole 24 ore, 28 luglio 2020; E. Carraro (presidente di Confindustria Veneto), Diamo più spazio ai contratti locali. La cassa integrazione è solo un’aspirina, in La Stampa, 2 giugno 2020. Sulle prospettive di mutamento della morfologia del lavoro nel dopo Covid-19, vds. i trend individuati dalla multinazionale Gartner: M. De Medici, Lavoro: Gartner traccia 9 trend (alla luce anche del Covid-19), 22 giugno 2020, www.digital4.biz/hr/lavoro-trend-2020-gartner-covid-19/. Vds. pure M. Bentivogli, È ora di innovare i lavori del futuro. Manifesto per ripartire, in Il Foglio, 12 maggio 2020, e l’intervista all’economista industriale P. Bianchi di L. Magna, Coronavirus ed economia di guerra: l’Italia punti su robotica, automazione e smart working, in Industria italiana, 7 marzo 2020, www.industriaitaliana.it/coronavirus-ed-economia-di-guerra-litalia-punti-su-robotica-automazione-e-smart-working/.
96. Il decreto “Cura ltalia” ha esteso la Cassa integrazione in deroga a tutti i lavoratori non coperti dalla Cig ordinaria e ha introdotto un’indennità per i lavoratori autonomi; il decreto “Rilancio” ha esteso questa indennità ai lavoratori stagionali, a quelli intermittenti e ai lavoratori domestici. Il decreto n. 104/2020 ha confermato, come si diceva, la politica dei bonus, selezionando per categorie di soggetti e settori. Il blocco dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo e la sospensione delle procedure di licenziamento collettivo sono stati stabiliti per 60 giorni dall’entrata in vigore del decreto “Cura Italia” n. 18/2020, art. 46, poi portato a 5 mesi dall’art. 80 dl n. 34/2020 (decreto “Rilancio”), convertito dalla l. n. 77/2020 e poi ulteriormente prorogato con delle eccezioni con il decreto “Agosto”, art. 14 – vds. infra, nota 100.
97. In questo senso, M. Bentivogli, Il “Teorema Tarzan”, in Il Foglio, 7 agosto 2020. I dati occupazionali forniti dall’Istat dicono di un calo dell’occupazione dei lavoratori stabili sicuramente frenato dagli interventi di congelamento; i saldi occupazionali negativi si sono concentrati sui lavoratori con contratti flessibili, malgrado gli interventi sulla proroga dei contratti a termine di cui si dirà, e sulle partite Iva. Gli economisti dicono comunque di una ciclica sfasatura tra tempi della crisi e suoi effetti occupazionali reali, che arrivano sempre dopo. Vds. l’accurata analisi dei dati di luglio 2020 forniti dall’Istat di A. Brambilla e C. Negro, La svolta green è un libro dei sogni. Meglio investire sulle infrastrutture, in La Stampa, 1° agosto 2020. Il titolo dell’articolo rende solo parzialmente il contenuto dell’analisi degli autori del Centro Studi Itinerari Previdenziali.
98. È la tesi del segretario della Cgil Landini, Avanti col blocco dei licenziamenti. E serve un nuovo contratto sociale, intervista rilasciata a La Stampa del 1° giugno 2020, secondo il quale durante il blocco dei licenziamenti le imprese potrebbero dedicarsi alla formazione dei dipendenti. Si è obiettato che tale possibilità teorica riguarda solo le imprese in possesso di ampia liquidità, mentre il tessuto produttivo italiano è costituito soprattutto di piccole imprese non in grado, proprio per ragioni di liquidità, di poter gestire a lungo il blocco dei licenziamenti, ancorché accompagnato dalla Cig: P. Garibaldi, Non si vive di sussidio, in La Stampa, 24 luglio 2020.
99. È l’ipotesi di P. Garibaldi, La ripresa e la minaccia di licenziare, in La Stampa, 13 luglio 2020.
100. Sull’originario blocco dei licenziamenti collettivi e per giustificato motivo oggettivo, di natura generalizzata, e non flessibile e mobile, ex art. 46, dl n. 18/2020, e sulle conseguenze in caso di sua violazione, vds. F. Scarpelli, Blocco dei licenziamenti e solidarietà sociale, in Rivista italiana di diritto del lavoro, n. 2/2020, pp. 313 ss.; M. De Luca, Blocco dei licenziamenti al tempo del Covid-19: alla ricerca delle tipologie di licenziamento che ne risultano investite (note minime), Centre for the Study of European Labour Law (CSDLE) “Massimo D’Antona”, working paper n. 424/2020. Secondo il Ministero del lavoro e l’Inps, l’eventuale licenziamento, comunque irrogato, in attesa della pronuncia di illegittimità del giudice, non preclude l’accesso alla NASpI. Con il decreto n. 104/2020, all’art. 14, secondo alcuni (A. Maresca, Il divieto di licenziamento per Covid è diventato flessibile (prime osservazioni sull’art. 14, DL n. 104/2020), inedito) si sarebbe operata una discontinuità con il precedente blocco generalista, introducendo un blocco mobile e flessibile. Più nel senso della continuità del nuovo intervento normativo con il precedente, F. Scarpelli, Proroga del blocco dei licenziamenti. Per favore diamone interpretazioni ragionevoli, in Comma 2, 20 agosto 2020, www.comma2.it/?view=article&id=169:proroga-del-blocco-dei-licenziamenti-per-favore-diamone-interpretazioni-ragionevoli&catid=16. Nell’art. 14, frutto di un evidente e mal riuscito compromesso politico, si ribadisce il blocco per le imprese che possono ancora usufruire della cassa integrazione Covid prorogata (art. 1) o che ne hanno già usufruito nei mesi precedenti del lockdown – praticamente quasi tutte – (art. 3), con un meccanismo farraginoso che proroga di fatto il blocco sino al 31 dicembre. Non viene inserito un termine generale eguale per tutte le imprese, ma il divieto di licenziamento varia a seconda del periodo in cui la singola azienda fruisce dell’ammortizzatore sociale o dell’esenzione contributiva; il blocco, flessibilmente, si differenzierebbe, secondo la lettura esegetica di Maresca, anche in ragione del fatto se il licenziamento sia da connettersi a una riduzione di attività o di orario integrabile o esonerabile per causale Covid, ovvero se il licenziamento (in tal caso legittimo) sia determinato da riorganizzazione (per esempio, chiusura di una unità produttiva o di un reparto autonomo). La flessibilità, pertanto, deriverebbe dalla scomposizione tra cause di licenziamento e causale Covid da integrazione o esonero, che non necessariamente coinciderebbero. Nel caso di causale Covid, si prevede l’estensione del divieto di licenziamento per ragioni economiche per tutto il periodo (continuativo o frazionato) in cui il datore di lavoro beneficerà della (ulteriore) cassa integrazione Covid o dell’esonero dal versamento dei contributi. Il dubbio circa la possibilità di intravedere gli elementi di flessibilità sostenuti da A. Maresca deriva dalla difficoltà, invero riconosciuta dallo stesso Autore, di operare simili distinzioni, che le renderebbero oltremodo rischiose. Quel che potrebbe essere possibile in astratto (distinguere la causale della Cig o dell’esonero contributivo, riduzione di attività o di orario, dalle più articolate fattispecie di licenziamento economico) appare di difficile accertamento pratico, anche sotto il profilo degli oneri probatori a carico del datore di lavoro. Oltretutto la dimensione olistica che ha assunto la crisi – non solo la riduzione di attività o di orario è comunemente riconducile al Covid, ma anche qualunque ipotesi di riorganizzazione e di ristrutturazione è comunque in qualche modo ad esso ricollegabile – rende l’ipotesi interpretativa rischiosa. Di fronte al rischio dell’impugnazione e di pronunce demolitive, ove opererebbe con ogni probabilità la sanzione, reintegratoria e non risarcitoria, delle «altre nullità previste dalla legge», molto più prudente sembrerebbe o rinviare la riorganizzazione a dopo il 31 dicembre, confidando nella resipiscenza del legislatore, ovvero procedere ai licenziamenti consensuali tramite accordo sindacale (infra), ovvero ancora saturare le possibilità di utilizzo della Cig o della decontribuzione; il che darebbe luogo, secondo una piana interpretazione della norma, alla possibilità di licenziare. La norma esclude, poi, esplicitamente dal blocco le imprese in casi di cessazione definitiva e di fallimento. Secondo una tesi, tale esclusione, che opera dal 18 agosto, era già nel sistema e non occorreva ribadirla con decreto, ma il legislatore ha inteso esplicitarla. È possibile – come si accennava –, con l’art. 14, il licenziamento con il diritto alla NASpI anche in ipotesi di accordi collettivi aziendali (non territoriali o nazionali) stipulati non da Rsa o Rsu, ma direttamente dai sindacati comparativamente più rappresentativi, con adesione dei singoli lavoratori che scelgono di accettare la risoluzione. Sotto il profilo sistemico, appare questa la novità maggiore dell’art. 14. Secondo gli osservatori, tale disposizione segnerebbe un passaggio di focus dalla Cig alla NASpI ed eviterebbe escamotage elusivi (finto licenziamento con accordo conciliativo successivo) per consentire il ricorso alla NASpI. In effetti la disposizione, che è comunque limitata a ipotesi di adesione volontaria al licenziamento in sede di accordo sindacale (secondo modalità tecniche ben descritte nel contributo di Maresca), non sembra possedere un tale effetto dirompente sul sistema; essa consente, ragionevolmente, di semplificare situazioni al margine e paradossali, dovute al perdurare del blocco, evitando il ricorso a escamotage creativi e inserendo la mediazione negoziale attiva del sindacato. Il che certamente non è poco.
101. Le critiche più radicali in tal senso provengono da economisti liberali: vds. gli interventi di Stagnaro, cit. supra alla nota 94, ma anche Tabellini e Boeri, cit. alla nota 95.
102. Vds. M. Pagano, Estendere la Cig e il blocco dei licenziamenti per tutto il 2020? Meglio di no, in Il Foglio, 3 luglio 2020.
103. Lo studio E. Carletti - T. Oliviero - M. Pagano - L. Pelizzon - M.G. Subrahmanyam, The equity shortfall of Italian firms in the COVID crisis: A first assessment, in Vox (Centre for Economic Policy Research), 19 giugno 2020, https://voxeu.org/article/equity-shortfall-italian-firms-covid-crisis, stima che, malgrado cassa e blocco, il 16,7% delle imprese che ne hanno usufruito (con circa 800 mila dipendenti) saranno insolventi a fine anno.
104. G. Giupponi e C. Landais, Subsidizing Labor Hoarding in Recessions: the Employment & Welfare effects of short time work, Centre for Economic Performance (LSE), discussion paper n. 1585 (2018), 26 maggio 2020, https://econ.lse.ac.uk/staff/clandais/cgi-bin/Articles/STW.pdf.
105. Si rinvia alle considerazioni di M. Bentivogli, Il “Teorema Tarzan”, op. cit.
106. Si rinvia alle considerazioni di R. Del Punta, Il blocco dei licenziamenti, op. cit.
107. La procedura di licenziamento collettivo deve concludersi in 45 giorni dalla comunicazione, con riguardo alla procedura in sede sindacale; si aggiungono, in caso di mancato accordo in sede sindacale, altri 30 giorni per la sede amministrativa; termini dimezzati se i lavoratori coinvolti sono meno di 10. La libertà di licenziare, quindi, in regime ordinario, può essere sospesa al più 45 giorni (più eventuali altri 30). Pare evidente la durata eccezionale di un blocco che si protrae ormai, per i licenziamenti collettivi, dal 23 febbraio e, per i licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo, dal 17 marzo 2020 (cfr. art. 46 dl n. 18/2020 e successive proroghe). Ogni successiva proroga, oltre quella ultima divisata dal decreto n. 104/2020, all’art. 14, sarebbe allora da considerarsi costituzionalmente illegittima perché la sospensione della libertà di licenziamento, in tal caso, dovrebbe considerarsi, secondo la qualificazione della Corte costituzionale, di natura strutturale.
108. Vds. R. Kramar, Beyond strategic human resource management: is sustainable human resource management the next approach?, in The International Journal of Human Resource Management, vol. 25, n. 8/2014, pp. 1069-1089.
109. Oltre a R. Del Punta, Note sugli ammortizzatori, op. cit., vds. le proposte contenute in Aa.Vv., Gli ammortizzatori sociali nel post Coronavirus, in Astrid (Rassegna), n. 7/2020 (8 maggio). Una sintesi, in C. De Vincenti e T. Treu, Un nuovo fondo più efficace per gli ammortizzatori sociali, in Il Sole 24 ore, 14 luglio 2020. Il Ministro del lavoro ha costituito una commissione di esperti da cui si attende «un disegno organico di rilancio delle politiche attive»; ne dà conto Il Sole 24 ore del 14 agosto, Lavoro: 20 miliardi fondi UE per riforma Cig, donne e giovani. Il primo segnale sarebbe il rifinanziamento biennale del fondo nuove competenze previsto dall’art. 4. Su questa disposizione, vds. il commento di S. Ciucciovino ed E. Di Fusco, Fondo nuove competenze operativo per due anni, in Il Sole 24 ore, 14 agosto 2020. La ministra del lavoro Catalfo punta molto, come rilancio delle politiche attive, sul rifinanziamento di tale fondo; vds. la sua intervista a cura di C. Tucci, Ora nuove regole per lo smart working in tempi non Covid, in Il sole 24 ore, 18 agosto 2020.
110. Art. 93 l. n. 77/2020 di conversione del dl n. 34, «Disposizioni in materia di proroga o rinnovo di contratti a termine e di proroga di contratti di apprendistato»: «in deroga all’articolo 21 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, per far fronte al riavvio delle attività in conseguenza all’emergenza epidemiologica da COVID-19, è possibile rinnovare o prorogare fino al 30 agosto 2020 i contratti di lavoro subordinato a tempo determinato in essere alla data del 23 febbraio 2020, anche in assenza delle condizioni di cui all’articolo 19, comma 1, del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81». Ora, nel decreto “Agosto”, all’art. 7 si prevede, sempre per favorire il rinnovo dei contratti a termine, l’esonero dal versamento dei contributi previdenziali per assunzioni a tempo determinato nel settore turistico e degli stabilimenti termali. Grazie all’art. 8, che modifica l’art. 93 dl n. 34/2020, è possibile, per i contratti in essere, sino al 31 dicembre 2020, la proroga o il rinnovo senza causale per un periodo massimo di 12 mesi, per una sola volta e ferma restando la durata massima complessiva del contratto di 24 mesi. In sede di conversione dell’art. 93 era stato inserito l’art. 1-bis, che imponeva la proroga automatica dei contratti a termine e di somministrazione per i periodi di sospensione. Tale disposizione di congelamento dei contratti a termine e di somministrazione, al di là di esigenze reali di proseguimento dell’attività dopo la sospensione, aveva suscitato forti critiche dal versante delle imprese: era stata considerata equivalente a una sorta di imponibile di manodopera; vds. A. Maresca, Allarme delle imprese sui contratti prorogati anche se il lavoro non c’è, in Il Sole 24 ore, 24 luglio 2020; pure G. Falasca e A. Rota Porta, Rebus sul periodo da recuperare e sulle conseguenze generali, in Il Sole 24 ore, 27 luglio 2020. La norma sembra comunque essere stata eliminata con il decreto “Agosto” con qualche problema residuo di situazioni transitorie: G. Falasca, Contratti a termine, rinnovo senza causali fino al 31 dicembre, in Il Sole 24 ore, 14 agosto 2020. Radicalmente contrario a ogni allentamento, anche transitorio e provvisorio, della disciplina del decreto “Dignità”, P.G. Alleva, Decreto dignità. Lavoro precario ultimo assalto, in Il Fatto quotidiano, 1° luglio 2020.
111. Per una completa messa a fuoco dell’innovazione digitale e delle questioni connesse nel post-Covid, il paper di A. Fuggetta, L’innovazione e il digitale per il rilancio del Paese, in Astrid (Rassegna), n. 7/2020.
112. Nella ricognizione dell’ampia letteratura sul tema di R. Kramar, Beyond strategic human resource management, op. cit. si sostiene: «This approach seeks to maintain organisational and particularly the HRs of an organisation, so that consumption and reproduction of resources enable the organisation to survive in the future. Once again, this approach is framed in terms of the open-systems framework. Organisations are therefore required to acknowledge the importance of the value and quality of people within the organisation. Institutions external to the organisation, such as education and training institutions, also influence the availability of the quantity and quality of people available to the organisation», aggiungendo, a p. 1075: «Although these terms differ in the extent to which they attempt to reconcile the goals of economic competitiveness, positive human/social outcomes and ecological outcomes, they are all concerned with acknowledging either explicitly or implicitly human and social outcomes of the organisation. They all recognise the impact HR outcomes have on the survival and success of the organisation. All of the above terms are subsumed in this paper under the broad term of sustainable HRM. In addition, some of the research which explore the relationship between HRM and broad economic, social and ecological/environmental outcomes, but does not include ‘sustainable’ as a term, particularly GHRM, will be considered within the examination of sustainable HRM». Vds. pure T. Garavan - V. Shanahanb - R. Carbery - S. Watson, Strategic human resource development: towards a conceptual framework to understand its contribution to dynamic capabilities, in Human Resource Development International, vol 19, n. 4/2016, pp. 289 ss.; M. Fortier e M. Albert, From Resource to Human Being: Toward Persons Management, in SAGE Open, n. 3/2015, pp. 1-13, https://journals.sagepub.com/doi/pdf/10.1177/2158244015604347; E. Dagnino, Dalla fisica all’algoritmo: una prospettiva di analisi giuslavoristica, ADAPT University Press, Modena, 2019. Tali idee si vanno diffondendo nelle pratiche del management; vds. M. Marchesano, Non c’è fase 2 senza grandi investimenti nel capitale umano, intervista a Massimo Antonelli, ceo di EY, in Il Foglio, 23 maggio 2020. Pure le opinioni di manager, centri studi, economisti raccolte da Il Foglio del 4 giugno: L’Italia ce la può fare. Spunti di ottimismo. Sul fronte delle organizzazioni internazionali, vds. l’importante documento dell’International Labour Office (ILO), Work for a brighter future. Global Commission on the future of Work, Ginevra, 2019, www.ilo.org/wcmsp5/groups/public/---dgreports/---cabinet/documents/publication/wcms_662410.pdf. Lo human-in-command approach va inteso come «approccio basato sulla necessità per l’essere umano di conservare un controllo su quanto svolto dalla macchina e di intervenire sulle decisioni che tramite gli algoritmi vengono adottate».
113. Si possono citare, come modello di legislazione di promozione, gli interventi di agevolazione delle politiche di conciliazione e di incentivazione ai modelli di welfare aziendale. Si rinvia per tutti a B. Caruso, “The bright side of the moon”: politiche del lavoro personalizzate e promozione del welfare occupazionale, in Rivista italiana di diritto del lavoro, n. 2/2016, I, pp. 177 ss.
114. Si rinvia al recente volume di P. Ichino, L’intelligenza del lavoro, Rizzoli, Milano, 2020, ed. Kindle, specie cap. II («Quando sono i lavoratori a scegliersi l’imprenditore»).
115. Si rinvia a B. Caruso, Tra lasciti e rovine della pandemia: più o meno smart working?, in Rivista italiana di diritto del lavoro, n. 2/2020, pp. 215 ss. Per un’analisi comparata del lavoro a distanza nella fase acuta della pandemia, vds. G. Pigni, Il lavoro da remoto come misura necessaria per affrontare l’emergenza Covid-19. Le scelte dei governi in Europa e negli USA, in ADAPT, working paper n. 14/2020.
116. Numerosissimi gli interventi di autorevoli columnist sulla stampa quotidiana dislocati su tre sostanziali posizioni: a favore, contro e da usare cum grano salis. Tra i più significativi e meglio argomentati, D. Di Vico, Ragioniamo senza fretta sul lavoro a distanza, in Corriere della sera, 5 luglio 2020; B. Severgnini, La casa o l’ufficio: le cinque trappole, in Corriere della sera, 5 luglio 2020; INAPP, Gli effetti indesiderabili dello smart working sulla disuguaglianza dei redditi in Italia, policy brief n. 20/2020 (luglio), e intervista al Presidente S. Fadda (https://inapp.org/it/inapp-comunica/sala-stampa/comunicati-stampa/22072020-lavoro-inapp-lo-smart-working-favorisce-i-redditi-alti-e-gli-uomini), ripreso da R. Amato, Lo Smart working premia i ricchi e pesa sulle donne, in La Repubblica, 22 luglio 2020. A favore dell’esperienza, A. Bonaccorsi - R. Iaccarino - M. Meda, I nemici dello smart working sono i nemici della produttività, in Il Foglio, 27 giugno 2020; D. De Masi, intervistato da I. Trovato sul Corriere della sera del 6 giugno 2020: Da casa siamo produttivi tanto quanto la Germania, e i vari interventi di M. Corso, sempre misurati, dell’Osservatorio del politecnico di Milano, Sono otto milioni. Ma la vera sfida comincia adesso, in La Repubblica, 25 maggio 2020; F. Amicucci - M. Bentivogli - R. Nacamulli, Smart working, il futuro passa da nuovi valori e competenze, in Il Sole 24 ore, 27 marzo 2020.
117. I dati di ricorso allo smart working in Italia durante il Covid sono “ballerini” e, ovviamente, in progress in ragione delle varie fasi di allentamento del lockdown; si è in attesa di valutazioni attendibili dei centri di ricerca per serie storico-statistiche verosimili. Gli organi di stampa riportano dati di vari sondaggi: secondo R. Amato si è passati dal 4% dei lavoratori nella fase pre-Covid al 18 % durante il lockdown: Smart working, l’Italia s’è desta ma siamo fra gli ultimi in Europa, in La Repubblica, 20 luglio 2020; L. Mazza, Smart working in calo ma resiste. Oggi il 5,3% sta lavorando da casa, in Avvenire, 23 giugno 2020. Con riguardo alla pa, circolano dati del Dipartimento della funzione pubblica, anche questi inattendibili data la notoria frammentazione delle amministrazioni in Italia: www.funzionepubblica.gov.it/articolo/ministro/09-06-2020/statali-uno-su-tre-restera-lavorare-smart-working. Si vedano comunque i dati citati da C. Casadei, Nella Pa smart working promosso grazie ai dispositivi dei lavoratori, in Il Sole 24 ore, 3 giugno 2020; R. Querzè e L. Salvia, Statali, a casa 7 su dieci, in Corriere della sera, 20 giugno 2020.
118. Presupposti strutturali della diffusione dello smart working sono la banda larga e la rete 5G. Si rinvia ad A. Fuggetta, L’innovazione e il digitale, op. cit. Onde le diffuse polemiche contro i ricorsi ai Tar e le (poche) ordinanze di sospensione dei posizionamenti dei ripetitori necessari.
119. Non è ancora chiaro se le esperienze cui si dà risalto nella cronaca giornalistica estiva siano sintomi di cambiamento reale o solo “colore”: il south working fa riferimento a esperienze di organizzazione sistematica di rientro al Sud di giovani cervelli (e non solo), impiegati in imprese o centri di ricerca del Nord o in Europa; onde la possibilità di lavorare a Milano godendosi il sole della Sicilia; ne danno conto seri reportage: J. D’Alessandro, Dallo smart working al south working. “Per lavorare a Milano vivendo a Palermo”, in La Repubblica, 26 giugno 2020; L. Baratta, Lavoro vista mare. Cosa serve davvero al centro-sud per non perdere l’occasione del southworking, in Linkiesta, 27 luglio 2020. Il workation fa riferimento al fenomeno dell’offerta turistica di case vacanze specificamente attrezzate per operare in smart working anche durante le vacanze – vds. Diversamente ufficio. Questa strana estate in “workation” al lavoro nella seconda casa al mare, La Repubblica (Affari&finanza), 27 luglio 2020. Sugli effetti anche demotivazionali (intrinseci) del blurring time, tra lavoro, vacanza e tempo libero, vds. la ricerca di L.G. Giurge e K. Woolley, Don’t Work on Vacation. Seriously, in Harvard Business Review, 22 luglio 2020, https://hbr.org/2020/07/dont-work-on-vacation-seriously.
120. Si vedano gli ampi reportage sulla situazione dei centri urbani soprattutto delle grandi città nel post-Covid, desertificati a favore delle periferie che, invece, vivono una inusitata vivacità; e ciò per le assenze nei centri dei lavoratori delle pubbliche amministrazioni remotizzati, con un effetto di crisi maggiore per alcuni settori: ristorazione privata e collettiva; da cui la polemica intervista del sindaco di Milano Sala contro lo smart working dei pubblici dipendenti nell’intervista rilasciata a La Repubblica del 19 giugno: “Basta smart working. Torniamo al lavoro”. Vds. il bell’articolo di M. Molinari, Home working, nuova frontiera del lavoro, in La Repubblica, 26 luglio 2020, e il reportage di G. De Stefani, I centri svuotati rischiano un buco di 3 miliardi l’anno, in La Stampa, 27 luglio 2020.
121. Si rinvia a L. Zoppoli, Dopo la digi-demia, op. cit.; M.D. Ferrara, Oltre l’emergenza. Lavoro, conciliazione e agilità in situazione di fragilità, Centre for the Study of European Labour Law (CSDLE) “Massimo D’Antona”, working paper n. 426/2020, pp. 16 ss. Dal 19 luglio, data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto “Rilancio”, n. 77/2020, viene superata, attraverso il meccanismo della deroga, la previsione dell’art. 87, comma 1, lett. a, dl n. 18/2020 che, in conseguenza dell’emergenza epidemiologica, ha limitato la presenza, negli uffici pubblici, alle sole attività indifferibili e urgenti. L’art. 263 consente alle amministrazioni di prevedere il rientro in servizio anche del personale fino ad oggi non adibito alle attività indifferibili e urgenti, ferma restando la necessità, per le stesse amministrazioni, di aggiornare e implementare la mappatura di quelle attività che, in base alla dimensione organizzativa e funzionale di ciascun ente, possano essere svolte in modalità agile, con l’individuazione del personale da assegnare alle stesse, anche ai fini del raggiungimento dell’obiettivo indicato nella norma di applicare il lavoro agile al 50% del personale impiegato nelle suddette attività. La stessa norma supera anche la previsione del comma 3 dell’art. 87 e, quindi, non sarà più possibile, a partire dalla data di entrata in vigore della legge di conversione, esentare dal servizio quei dipendenti pubblici le cui attività non siano organizzabili in modalità agile. Con il decreto “Rilancio” si è quindi inaugurata la fase del graduale rientro dei lavoratori della pubblica amministrazione in smart working, le cui direttive attuative sono contenute nella circolare 27 luglio 2020, n. 3, del Ministro per la pubblica amministrazione; direttiva alla quale si sono adeguate nei dettagli operativi le varie amministrazioni dello Stato: per il Ministero della salute vds. la circolare della Direzione del personale del 31 luglio 2020.
122. Il tema dell’abuso dello smart working nella pubblica amministrazione costituisce un capitolo a parte. Sull’uso nella pa, già durante il lockdown, del lavoro da casa come surrogato funzionale ed economicamente vantaggioso rispetto alla Cig dei lavoratori privati, si rinvia a B. Caruso, Tra lasciti e rovine, op. cit. La polemica sullo smart working come vacanza di fatto per i dipendenti pubblici è stata scatenata da Pietro Ichino in varie interviste; la capofila è sul Corriere della sera del 16 giugno 2020: Smart working? Per gli statali una vacanza; il tema è poi ripreso su Milano&finanza del 27 giugno 2020, dove l’Autore parla di «letargo del settore pubblico», e su La verità del 28 luglio 2020. Ichino cita esempi di rallentamenti del funzionamento di uffici, in effetti autorizzati, indirettamente, dai primi provvedimenti di emergenza che consentivano spostamenti in avanti di termini di procedimenti amministrativi. Vds. pure C. Cerasa, La differenza tra divano e smart working. La rivoluzione che manca al lavoro pubblico, in Il Foglio, 13 luglio 2020. A Ichino, a muso duro, ha risposto, su il Fatto quotidiano del 23 giugno 2020, D. De Masi: Con lo smart working ci guadagnano tutti. A soccorso della tesi di Ichino sarebbero intervenuti i dipendenti della Regione siciliana e i dipendenti del Comune di Napoli: vds. il caso del dirigente della Regione siciliana che ha denunciato il rischio di perdita di fondi da inattività dei dipendenti regionali, C’è un miliardo UE da usare. Basta ferie, tornate in ufficio, Corriere della sera, 1° agosto 2020; sui dipendenti del Comune di Napoli, invece, vds. La sfida degli impiegati, Senza smart working ad agosto tutti in ferie, Il Mattino, 30 luglio 2020. Altri casi di ritardo da lavoro a distanza hanno riguardato le sovraintendenze e il PRA: L. Salvia, Statali a casa sette su dieci, in Corriere della sera, 20 giugno 2020. Vds. pure la seria e realistica analisi “dall’interno” di F. Verbaro, Così il telelavoro divide la Pa in due: i dipendenti qualificati e gli esuberi di fatto, in Il Sole 24 ore, 22 giugno 2020, secondo il quale il telelavoro avrebbe diviso «la Pa in due: i dipendenti qualificati e gli esuberi di fatto nella distribuzione dei carichi di lavoro che rispecchia la polarizzazione di competenze. Emerge un mondo sommerso di sottoccupati, figli di una strutturale cattiva gestione del personale nella Pa e di una dirigenza immersa nell’attività funzionariale, poco capace di organizzare e programmare il lavoro. Molte attività come quelle di segreteria, ad esempio, presenti in molti processi e uffici, oggi sono scomparse o incorporate in quel processo di semplificazione prodotto dalla digitalizzazione. Data l’età media elevata dei dipendenti e la scarsa o pessima attività di riqualificazione (se non le progressioni di carriera abbondanti degli anni 1999-2009), è naturale che emerga del personale poco utilizzabile o in eccedenza (…). Arduo parlare di un incremento generalizzato della produttività. Dobbiamo infatti ricordare che il governo ha, tra le tante misure, adottato la sospensione dei termini dei procedimenti amministrativi (…). Pochi inoltre possono lavorare utilizzando piattaforme che consentono di accedere ad archivi, alla documentazione utile, di aggiornarsi, di protocollare o di lavorare in team. Con lo Smart Working è emerso anche quello che tutti sanno e che non si dice: nella Pa una parte di personale non è facilmente utilizzabile. Per almeno due motivi: per la pigrizia del datore di lavoro pubblico, per il quale il personale è una risorsa data su cui soffermarsi solo all’atto del concorso e al momento del pensionamento; e perché le attività con basse competenze si sono ridotte, assorbite in altre attività o esternalizzate».
123. I provvedimenti di sospensione dei termini in vari settori della pubblica amministrazione ex art. 103 dl n. 18/2020.
124. Vds. l’art. 263 del decreto “Rilancio”, la cui conversione ha visto l’approvazione dell’emendamento del Movimento 5 stelle sul cd. Pola, «Piano organizzativo del lavoro agile», secondo il quale le amministrazioni dovranno prevedere che in futuro, per le attività che possono essere svolte in modalità agile, almeno il 60% dei dipendenti possa avvalersene. Il Pola, sezione del piano delle performance, si aggiunge allo stesso, secondo la tecnica add-on, insieme al Piano per la digitalizzazione, al Piano per la prevenzione della corruzione e la trasparenza, ai piani triennali di fabbisogno di personale, ai piani per la formazione del personale, peraltro cancellati; in ciò consolidando il metodo dell’amministrazione per adempimenti formali. Vds. F. Verbaro, Dopo il Ptfp e il Pdp arriva il «Pola»: tanti piani, niente strategia, in Il Sole 24 ore, 13 luglio 2020.
125. Lavoratori, come li definisce l’ILO, «ad alto ingaggio cognitivo»: ILO, Work for a brighter future, op. cit.
126. Vds., amplius, B. Caruso - R. Del Punta - T. Treu, Per un diritto del lavoro sostenibile, op. cit.
127. Tale impostazione pure in P. Ichino, L’intelligenza del lavoro, op. cit., ed. Kindle, pos. 1824 ss.
128. La metafora dell’ibrido è ripresa pure dalla stampa economica: U. Torelli, Metà casa, metà ufficio. Pronti al lavoro ibrido?, in Corriere della sera (Economia), 20 luglio 2020.
129. Vds. A. Furlan, La disconnessione è un diritto. Bisogna ripensare i contratti, in La Stampa, 27 luglio 2020; P. Griseri, Landini: “Ma ora serve un contratto per il lavoro da casa”, intervista, in La Repubblica, 30 aprile 2020, proposta ribadita successivamente: vds. R. Amato, Smart working? La Cgil: “Così è lavoro fordista dentro le mura di casa. Va regolato con i contratti”, in La Repubblica, 18 maggio 2020. Il tema è stato subito ripreso da autorevoli esponenti del Governo (Smart working e contratti: dal Governo sì alle regole, La Repubblica, 3 maggio 2020). Una prima regolamentazione contrattuale proviene dal contratto nazionale del settore del freddo industriale (la notizia è apparsa su Italia oggi, 31 luglio 2020).
130. Si fa riferimento al ddl del Movimento 5 stelle, presentatrice la Senatrice Riccardi, di cui dà conto A. Gagliardi, Orari, reperibilità, riposo: cosa prevede il primo Ddl sullo smart working, in Il Sole 24 ore, 31 luglio 2020. Della necessità di un intervento normativo parla la ministra Catalfo nell’intervista del 18 agosto, cit.: Ore nuove regole per lo Smart Working.
131. Trib. Venezia, 8 luglio 2020, n. 1069, che ha stabilito, con ampia motivazione, che i buoni pasto non sono dovuti al lavoratore in smart working. Il caso riguardava i dipendenti del comune di Venezia (per il testo con la motivazione vds. www.studiocerbone.com/tribunale-di-venezia-sentenza-08-luglio-2020-n-1069-i-buoni-pasto-non-sono-dovuti-al-lavoratore-in-smart-working/). Secondo il Tribunale, poiché il buono pasto non è un elemento della retribuzione, né un trattamento comunque necessariamente conseguente alla prestazione di lavoro in quanto tale, ma piuttosto un beneficio conseguente alle modalità concrete di organizzazione dell’orario di lavoro, esso non rientra nella nozione di trattamento economico e normativo che deve essere garantito al lavoratore in smart working ex art. 20 l. n. 81/2017. Per un commento a caldo, vds. L. Olivieri, P.a., smart working senza ticket, in Italia oggi, 10 luglio 2020.
132. Il modello è ben configurato e messo a punto, storicamente e normativamente, da A. Tinti, Il lavoro agile e gli equivoci della conciliazione virtuale, Centre for the Study of European Labour Law (CSDLE) “Massimo D’Antona”, working paper n. 419/2020 e, ivi, ulteriori richiami. Vds. pp. 32 ss., ove il giusto rilievo della intima complessità dei bisogni conciliativi di cui la legge si dovrebbe far carico e che gravano forse eccessivamente sull’impianto della l. n. 81/2017. Nella stampa economica i commentatori dello smart work pandemico, in effetti, incominciano espressamente a riferirsi allo smart work conciliativo, pur senza particolare consapevolezza dell’autonomia normativa e concettuale: vds. A. Bottini, Diritto allo smart working dei genitori fino a inizio scuola, in Il Sole 24 ore, 7 agosto 2020, che non a caso si augura un rapido ritorno «allo smart working ordinario».
133. A. Tinti, Il lavoro agile e gli equivoci della conciliazione virtuale, op. cit., pp. 40 ss.
134. Vds., con riguardo soprattutto alle fragilità, M.D. Ferrara, Oltre l’emergenza, op. cit., pp. 14 ss.
135. La natura di diritto è stata confermata dai primi giudici; cfr. le ordinanze ex art. 700 cpc di Trib. Bologna, 23 aprile 2020, e Trib. Grosseto, 23 aprile 2020; nel primo caso la lavoratrice disabile, con figlia convivente disabile, era stata messa in cassa integrazione, mentre nel secondo caso il lavoratore, affetto da grave patologia, era stato posto in ferie. Nella fase successiva, la giurisprudenza ha in qualche modo derubricato la natura di diritto potestativo della legislazione di emergenza facendo vale il profilo della compatibilità con le mansioni. Così Trib. Mantova, ord. 26 giugno 2020, n. 1054, ha negato la pretesa del lavoro agile a un genitore di una ragazza minore di 14 anni, dichiarando l’incompatibilità del lavoro agile con le mansioni del ricorrente (un ingegnere con compiti di gestione e manutenzione dei parcheggi, con moglie, dipendente da un’amministrazione regionale, in modalità lavoro agile).
136. A. Tinti, Il lavoro agile e gli equivoci della conciliazione virtuale, op. cit., p. 23.
137. Dubbi in tal senso da parte di A. Tinti, op. ult. cit., anche con riguardo alla introduzione successiva della disposizione più nel senso della ratio conciliativa, l’art. 18, comma 3-bis: «I datori di lavoro pubblici e privati che stipulano accordi per l’esecuzione della prestazione di lavoro in modalità agile sono tenuti in ogni caso a riconoscere priorità alle richieste di esecuzione del rapporto di lavoro in modalità agile formulate dalle lavoratrici nei tre anni successivi alla conclusione del periodo di congedo di maternità previsto dall’articolo 16 del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, ovvero dai lavoratori con figli in condizioni di disabilità ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104».
138. Oltre A. Perulli, «Diritto riflessivo», op. cit., si rinvia a P. Pascucci, Coronavirus e sicurezza sul lavoro, tra “raccomandazioni” e protocolli. Verso una nuova dimensione del sistema di prevenzione aziendale?, in Diritto della sicurezza sul lavoro, n. 2/2019, pp. 98-121; M. Marazza, L’art. 2087 c.c. nella pandemia (Covid-19), in Rivista italiana di diritto del lavoro, n. 2/2020, pp. 267 ss.
139. Onde la necessità di un rapido rilancio della contrattazione collettiva ordinaria, che appare bloccata, anche con la riscoperta e il rilancio del livello territoriale: R. Querzè, I nuovi contratti? Serve una svolta legata ai territori, intervista a T. Treu, in Corriere della sera, 14 agosto 2020. Vds. la proposta del segretario della Cgil Landini di rilanciare la contrattazione collettiva nazionale con lo strumento della detassazione: portare al 10% la tassazione sui nuovi aumenti – Maurizio Landini: “Serve un Rinascimento del lavoro. Detassiamo gli aumenti contrattuali”, in La Stampa, 15 agosto 2020.
140. Vanno sempre rilette le pagine di Gino Giugni, di recente intelligentemente ri-assemblate da S. Sciarra (a cura di), Idee per il lavoro, Laterza, Bari-Roma, 2020, così come di altri due tra i suoi migliori epigoni: Massimo D’Antona e Gaetano Vardaro.
141. P. Ichino, L’intelligenza del lavoro, op. cit., soprattutto cap. IV, ma anche V. Si rinvia pure a B. Caruso, Il sindacato tra funzioni e valori nella ‘grande trasformazione’. L’innovazione sociale in sei tappe, in B. Caruso - R. Del Punta - T. Treu (a cura di), Il diritto del lavoro e la grande trasformazione, op. cit., già pubblicato per Centre for the Study of European Labour Law (CSDLE) “Massimo D’Antona”, working paper n. 394/2019.
142. Condivisibile l’articolo di fondo di C. Cerasa, con riferimento al volume di P. Ichino: Cosa serve ai lavoratori? Un patto diverso tra sindacati e imprese, in Il Foglio, 14 agosto 2020.
143. Comma 1-bis, aggiunto in sede di conversione dalla l. n. 77/2020 all’art. 80 del decreto n. 34/2020; così il testo dell’art. 80, comma 1-bis: «Fino al 17 agosto 2020 la procedura di cui all’articolo 47, comma 2, della legge 29 dicembre 1990, n. 428, nel caso in cui non sia stato raggiunto un accordo, non può avere una durata inferiore a quarantacinque giorni».
144. Non è chiaro, peraltro, se complessivamente riferita, come sembrerebbe, alla durata della procedura prevista dall’art. 47 della legge 29 dicembre 1990, n. 428, ovvero soltanto ai 10 giorni (che diventerebbero 45) per l’esame congiunto, per tutto il periodo della dichiarazione dello stato di emergenza, anche in caso di esito negativo dell’esame.
145. Non costituisce certo un segnale positivo l’abbandono del campo sindacale di un sindacalista, come Marco Bentivogli, che meglio ha teorizzato questa profonda trasformazione del soggetto sindacale.
146. La fiducia nella capacità inesauribile di riassorbimento della sua stessa crisi, da parte del sistema di mercato e della globalizzazione economica, è certamente idea che circola negli ambienti neo-liberali, ma fa il paio con una sorta di inconsapevole, deferente ammirazione da parte dei suoi critici neo-marxisti: vds., per esempio, S. Fiori, Oltre Marx, la nuova sfida al capitalismo, intervista a Fausto Bertinotti, in La Repubblica, 17 agosto 2020, che definisce il capitalismo «la formidabile bestia vitale». In tale visione, ogni prospettiva di riforma è considerata una strategia del capitale per salvaguardare se stesso e i propugnatori delle riforme le sue «mosche nocchiere». Nella precedente intervista sulla crisi del capitalismo e sulla fase post-Covid, sempre a cura di S. Fiori (Donald Sassoon: “Marx ha finito le risposte”, in La Repubblica, 11 agosto 2020), lo storico D. Sassoon intravede, invece, nella prospettiva della sostenibilità ambientale e sociale la possibile sfida alla crisi del capitalismo.
147. M. Ferrera, La società del Quinto Stato, Laterza, Bari-Roma, 2019.
148. La «classe operaia bianca» di cui parla P. Collier, Il futuro del capitalismo, Laterza, Bari-Roma, 2020, pp. 11 ss.
149. Si rinvia al più volte citato B. Caruso - R. Del Punta - T. Treu, Per un diritto del lavoro sostenibile.