Il dovere di cooperazione istruttoria nei procedimenti di protezione internazionale: un difficile inquadramento sistematico
Il contributo analizza le incertezze giurisprudenziali emerse dall’applicazione del dovere di cooperazione istruttoria nei procedimenti di protezione internazionale, incertezze ricondotte alla inadeguatezza di alcuni principi processuali tradizionali, non facilmente adattabili alle caratteristiche peculiari di tali controversie. In una prospettiva «tecnica», il dovere di assumere informazioni sui Paesi d’origine (Country of origin information), viene distinto dal dovere di cooperazione istruttoria con il richiedente. Sempre in questa prospettiva, viene esclusa la subordinazione dell’esercizio di tali doveri al preventivo vaglio di credibilità della dichiarazione del richiedente.
1. Un monito inascoltato: Mauro Cappelletti, la testimonianza del richiedente protezione e l’inadeguatezza delle categorie tradizionali a reggere le “scosse” dei procedimenti di protezione internazionale / 2. L’intrinseca ambivalenza del dovere di cooperazione istruttoria / 3. Il dovere di cooperazione istruttoria in prospettiva «tecnica» / 4. «Aver perso tutto» e «non aver nulla da perdere»: l’incerto (e discutibile) presupposto delle misure di protezione internazionale
1. Un monito inascoltato: Mauro Cappelletti, la testimonianza del richiedente protezione e l’inadeguatezza delle categorie tradizionali a reggere le “scosse” dei procedimenti di protezione internazionale
«Non c’è né può esserci piena e conseguente valorizzazione della prova orale-rappresentativa in quegli ordinamenti che aprioristicamente escludano come fonti di prova, alle quali possa ricorrere il giudice per la formazione del suo libero convincimento, le parti ossia proprio quei soggetti, che normalmente saranno stati i più diretti protagonisti dei fatti e spesso i soli possibili testimoni, le sole possibili fonti di prova dei fatti medesimi»[1].
Con queste parole, all’inizio degli anni sessanta e in una delle sue opere più innovative e originali (giustamente definita come «la prima opera di grande respiro che utilizza organicamente l’analisi comparatistica» nella dottrina processualcivilistica italiana)[2], Mauro Cappelletti segnalava la totale inadeguatezza di quegli ordinamenti processuali – prima di tutto quello italiano – che ancora escludevano rilevanza probatoria alla testimonianza della parte o, comunque, alle conoscenze di parte.
Si può certamente dire che, a distanza di quasi sessant’anni, l’attualità e l’urgenza di tale monito, purtroppo rimasto inascoltato dal legislatore italiano, siano rese ancor più evidenti dalla vera e propria emergenza processuale connessa ai procedimenti di protezione internazionale (in cui, come si dirà meglio nel seguito, è centrale proprio l’audizione della parte richiedente, audizione che altro non è se non una testimonianza di parte). In effetti, non servono statistiche – essendo sufficiente consultare rapidamente una qualsiasi banca dati giurisprudenziale – per rendersi conto dell’aumento esponenziale del numero di tali procedimenti, aumento, come ovvio, direttamente proporzionale all’aumento del numero di migranti in arrivo in Italia[3].
Si può dire che l’impatto dei procedimenti in tema di protezione internazionale sia sostanzialmente duplice; anzitutto – e ovviamente – sulla tenuta organizzativa del sistema giudiziario[4]. Meno appariscente, ma forse addirittura più dirompente, invece, è l’impatto sui principi generali del processo civile. In effetti, come è stato segnalato, probabilmente la dottrina processualcivilistica inizialmente non ha dedicato la dovuta attenzione ai procedimenti di protezione internazionale. Si può dire, però, che ora la lacuna è stata ampiamente e autorevolmente colmata[5].
Tuttavia, non pare che colmare la lacuna scientifica sia sufficiente, come invece sperato da molti operatori del settore, per ovviare alle incertezze emerse dall’applicazione delle norme processuali in tema di protezione internazionale. In effetti, tali incertezze, più che frutto di una insufficiente elaborazione dottrinale, sembrano dovute all’inadeguatezza dei principi tradizionali su cui si poggia il processo civile italiano ad adattarsi alle specifiche peculiarità di tali controversie. E ciò non riguarda solo il problema della testimonianza della parte; si tratta, infatti, di problemi più generali e strutturali.
In proposito, si può certamente partire dall’assunto che i procedimenti di protezione internazionale hanno ad oggetto diritti assoluti («in considerazione della natura di accertamento giudiziale relativo allo status della persona»)[6], anzi veri e propri diritti fondamentali[7]. Come espressamente riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità, «il diritto alla protezione umanitaria ha, al pari del diritto allo status di rifugiato e al diritto costituzionale di asilo, consistenza di diritto soggettivo, da annoverare tra i diritti umani fondamentali, come tali dotati di un grado di tutela assoluta»[8].
Volendo riferirci a categorie processualistiche più tradizionali, i procedimenti in tema di protezione internazionale hanno ad oggetto dei diritti indisponibili, ossia diritti, per citare la Relazione Grandi al codice di procedura civile, «attinenti all’ordine pubblico»[9]; del resto, come correttamente rilevato, lo status di rifugiato si acquista immediatamente, in conseguenza del sorgere dei relativi presupposti, ancor prima del suo riconoscimento formale[10]. In altri termini, si può dire – seppur con una certa genericità – che tali controversie concernono rapporti giuridici che, pur non rientrando direttamente nella sfera di applicazione del diritto pubblico, coinvolgono diritti che sono riconducibili alla titolarità di un singolo individuo, ma che, in considerazione della loro particolare importanza sociale, non possono essere oggetto di atto dispositivo da parte del titolare stesso[11].
Proprio sotto questo profilo la disciplina processuale italiana appare del tutto inadeguata per affrontare efficacemente i procedimenti di protezione internazionale. È certamente nota la scelta del legislatore del 1940 di non disciplinare in modo autonomo i processi su diritti indisponibili, pur nella consapevolezza della necessità, in tali controversie, di «un diverso atteggiamento delle relazioni tra l’attività del giudice e l’attività delle parti, nel senso di dare una prevalenza più accentuata ai poteri del giudice»[12]. Come ha osservato lo stesso Calamandrei, le norme specificamente destinate al processo su diritti indisponibili sono messe in rilievo nel corso del codice, «con disposizioni distribuite nei vari punti dove se ne è sentita l’opportunità»; e ciò nella convinzione che il processo, «congegno elastico a capacità variabile», rimanesse «aperto a tutte le esigenze dell’avvenire, pronto a seguire senza scosse l’evoluzione del diritto privato»[13].
Per quanto autorevole, la fiducia nell’adattabilità del codice di procedura civile ai nuovi diritti emersi con l’evoluzione sociale, soprattutto a partire dalla seconda metà del Novecento, si è rivelata effettivamente mal riposta. Specialmente negli anni sessanta e settanta, come già accennato all’inizio di questo paragrafo, la più accorta dottrina aveva ampiamente segnalato l’inadeguatezza sia della complessiva strutturazione del processo civile, ancora troppo ancorato al modello tradizionale della lite bilaterale, sia di diverse categorie tradizionali, del tutto inidonee a garantire un’efficace tutela alle nuove situazioni giuridiche oggetto di tutela[14].
Tutte queste inadeguatezze (e le conseguenti incertezze applicative) si ripresentano puntualmente nei procedimenti di protezione internazionale, caratterizzati da notevoli peculiarità[15]. La necessaria struttura bilaterale del processo determina la presenza, più simbolica che effettiva, di un convenuto seriale (il Ministero degli interni) spesso inerte. La mancanza di una norma generale che individui le deroghe al principio dispositivo nei procedimenti su diritti indisponibili rende dubbia l’estensione dei poteri del giudice, non essendo chiaro, ad esempio, se il giudice sia (o non) vincolato alle allegazioni del richiedente[16].
Infine, ed è ciò da cui siamo partiti, la perdurante esclusione delle dichiarazioni di parte dagli elementi del convincimento del giudice rende estremamente complesso l’accertamento dei fatti in un procedimento, come quello di protezione internazionale, in cui spesso l’unica prova è proprio la dichiarazione del richiedente e in cui i tradizionali meccanismi di integrazione delle conoscenze del giudice (come il principio di non contestazione, i fatti notori e le massime di esperienza) non funzionano[17].
In altri termini, si può dire che i procedimenti di protezione internazionale, contrariamente all’ottimismo di Calamandrei, rappresentino l’ennesima “scossa” che l’evoluzione (della società e conseguentemente) del diritto dà ai principi tradizionali del processo civile italiano.
2. L’intrinseca ambivalenza del dovere di cooperazione istruttoria
Una delle principali incertezze applicative delle norme in tema di protezione internazionale, anch’essa connessa alla già segnalata inadeguatezza delle norme generali sul processo civile a regolare i processi così peculiari, è rappresentata dalla difficile definizione dei presupposti di applicazione del dovere di cooperazione istruttoria. In proposito, ricordiamo che l’art. 3 del d.lgs n. 251 del 2007, al primo comma, prevede esplicitamente (ma anche in termini alquanto generici) che l’esame della domanda di protezione internazionale «è svolto in cooperazione con il richiedente e riguarda tutti gli elementi significativi della domanda»[18].
Nonostante la formulazione meno incisiva rispetto a quella contenuta nella direttiva[19], è pacifico che la predetta norma ponga a carico del giudice – per usare una terminologia più tradizionale in ambito processuale – un vero e proprio potere istruttorio, svincolato da preclusioni o decadenze[20].
La norma, però, non chiarisce la portata di tale potere e, soprattutto, non ne specifica né i presupposti né l’ambito di applicabilità. Dal primo punto di vista, vi sono opinioni radicalmente contrastanti; secondo una parte della giurisprudenza, infatti, il dovere di cooperazione istruttoria sarebbe «disancorato dal principio dispositivo e libero da preclusioni e impedimenti processuali» e, quindi, scatterebbe semplicemente a seguito della presentazione della domanda e della allegazione dei fatti costitutivi posti a fondamento della domanda di protezione internazionale[21]. Secondo altra parte della giurisprudenza, invece, l’esercizio dei poteri istruttori sarebbe subordinato al preventivo vaglio di credibilità delle dichiarazioni del richiedente, salvo che la mancanza di credibilità derivi dall’impossibilità di fornire riscontri probatori[22]. Un orientamento intermedio, infine, opta per quest’ultima interpretazione restrittiva, ma solo ai fini dell’accertamento dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato o di quelli per il riconoscimento della protezione sussidiaria di cui all’art. 14, lett. a e b d.lgs n. 251/2007, non invece nell’ipotesi di cui all’art. 14, lett. c[23].
Ma mettiamo per il momento da parte il problema dei presupposti di applicazione del dovere di cooperazione istruttoria e analizziamo, invece, l’ambito oggettivo di applicazione di tale dovere. In effetti, come già detto, l’art. 3 d.lgs n. 251/2007 non specifica quali mezzi di prova possano essere disposti d’ufficio dal giudice della protezione internazionale. Sul punto, è stato autorevolmente sottolineato che, pur in assenza di specifica indicazione normativa, le regole generali applicabili al rito della protezione internazionale (e, più specificamente, quelle del rito camerale) attribuiscono al giudice il potere-dovere di assumere anche d’ufficio «tutti i mezzi di prova necessari»[24].
Tuttavia, da quest’ultimo punto di vista, il dovere di cooperazione istruttorio risulta intrinsecamente ambivalente, soprattutto dopo l’introduzione dell’art. 8, comma 3, d.lgs n. 25/2008, in base al quale la domanda di protezione deve necessariamente essere esaminata alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo, ossia le cosiddette «Country of origin information» (COI, secondo l’acronimo più ricorrente)[25].
Si ritiene diffusamente che l’acquisizione di tali informazioni rientri, appunto, fra i poteri istruttori da esercitare nell’ambito del dovere di cooperazione istruttoria. Un simile inquadramento, tuttavia, cela in sé una intrinseca ambivalenza, stante la netta peculiarità della funzione svolta dall’acquisizione delle informazioni sul Paese di provenienza rispetto agli altri poteri istruttori del giudice. In effetti, come si cercherà di illustrare fra breve, l’acquisizione delle informazioni sul Paese d’origine è essenzialmente funzionale a colmare la lacuna delle conoscenze di base del giudice, mentre gli altri poteri di cooperazione istruttoria sono funzionali a colmare le lacune probatorie del richiedente.
Come si è detto, nei procedimenti di protezione internazionale entrano in crisi nozioni tradizionali quali quelle di fatto notorio e di massime di esperienza, nozioni funzionalmente collegate alla comune matrice culturale che lega il giudice, gli avvocati e le parti. Ovviamente, un simile presupposto perde la propria validità nelle controversie in tema di protezione internazionale; è quasi banale osservare come un fatto del tutto notorio in un Paese (o una massima d’esperienza ampiamente condivisa nel medesimo Paese) può non esserlo in Italia e viceversa. Del resto, si pensi, a posizione invertite, alle difficoltà di un giudice straniero nel valutare episodi avvenuti in un contesto mafioso.
Questa asimmetria di conoscenze di base crea inevitabilmente notevoli difficoltà, soprattutto perché il richiedente ben difficilmente sentirà il bisogno di specificare circostanze o massime che per lui sono del tutto notorie e acquisite. Ebbene, il dovere di acquisire le COI o, comunque, le informazioni aggiornate sul Paese di provenienza del richiedente la protezione, più che un potere istruttorio vero e proprio, sembra rappresentare lo strumento indispensabile affinché il giudice della protezione internazionale possa colmare la propria asimmetria informativa, acquisendo quell’insieme di conoscenze (sia in termini di fatti notori sia in termini di massime di esperienza) che un giudice del Paese di provenienza possiede (o, comunque, dovrebbe possedere) nel proprio bagaglio culturale. Sembra possibile leggere in questo senso alcune recenti pronunce di legittimità, in cui infatti si afferma che tale dovere di acquisizione debba tenere «conto dei fatti salienti interessanti quel paese o area, soprattutto in relazione ad eventi di pubblico dominio, la cui mancata considerazione, in funzione della loro oggettiva notorietà»[26].
Del resto ricorrentemente si afferma che l’acquisizione delle COI è funzionale all’acquisizione delle informazioni appartenenti al bagaglio culturale medio del Paese di origine, come, ad esempio, la «situazione attuale ed aggiornata»[27], le «condizioni socio-politiche»[28] e le «condizioni generali del paese d’origine»[29], le «disposizioni legislative o regolamentari e relative modalità di applicazione»[30], il «costume sociale cogente nel paese»[31], le «condizioni carcerarie»[32] e l’eventuale presenza di «regole non scritte sub statuali, imposte con la violenza e la sopraffazione»[33].
In questo caso, quindi, sembra possibile ritenere che l’acquisizione di tali informazioni, sia di quelle ufficiali sia di quelle reperibili su altre fonti di informazioni affidabili[34], debba necessariamente prescindere dal vaglio di credibilità del richiedente, «dal momento che anteriormente all’adempimento di tale obbligo, egli non può conoscere e apprezzare correttamente la reale e attuale situazione dello stato di provenienza»[35] e, pertanto, non può neppure valutare adeguatamente la credibilità delle stesse dichiarazioni del richiedente.
Del resto, anche il giudice italiano, quando non è personalmente a conoscenza di un fatto notorio o di una massima di esperienza, può acquisire tali conoscenze autonomamente e in assenza di contraddittorio[36]. E infatti, analogamente a quanto ritenuto per il fatto notorio, la giurisprudenza afferma che la mancata sottoposizione al contradditorio delle COI non leda il diritto di difesa del richiedente, salvo il caso in cui tali informazioni depongano in senso opposto alle informazioni fornite dal richiedente[37].
In realtà, in considerazione della complessità dell’accertamento di queste conoscenze, sarebbe opportuno che le informazioni assunte dal giudice, specialmente se prese da canali non ufficiali per quanto pubblici, siano preventivamente sottoposte al contraddittorio con il richiedente; ma questo, del resto, è un problema che vale anche per il notorio tradizionale. Di fronte all’aumento esponenziale di informazioni pubbliche facilmente reperibili, ma anche sempre più inaffidabili, appare sempre più necessario sottoporre al contraddittorio anche l’acquisizione di fatti notori[38].
3. Il dovere di cooperazione istruttoria in prospettiva «tecnica»
Inquadrato il dovere di assumere informazioni sui Paesi d’origine all’interno delle nozioni di fatto appartenenti alla comune esperienza e, quindi, al di fuori del tradizionale ambito di applicazione dei poteri istruttori del giudice (ove intesi restrittivamente come poteri giudiziali di integrazione probatoria dei fatti normalmente soggetti all’onere di allegazione delle parti), occorre chiedersi come si configuri il dovere di cooperazione istruttoria posto in capo al giudice della protezione internazionale e se, quindi, tale dovere presupponga la preventiva valutazione di credibilità del richiedente.
A questo riguardo, però, appare indispensabile premettere alcune considerazioni generali sui poteri istruttori da parte del giudice civile, tema ormai classico per la dottrina processualcivilistica e ampiamente studiato. Ovviamente, qui non è possibile ripercorrere un dibattitto dottrinale lungo e complesso; sembra comunque possibile partire dall’assunto che le norme processuali e, quindi, anche le norme che attribuiscono specifici poteri istruttori officiosi abbiano natura eminentemente «tecnica»[39]. Ciò vuol dire che le norme processuali e, nello specifico, le norme attributive di poteri istruttori al giudice non sono fini a se stesse, ma sono funzionali al raggiungimento di uno specifico scopo. In effetti, sono sempre state molto rare – e comunque giustificate da particolari situazioni contingenti – le affermazioni volte a connotare in termini puramente ideologici l’attribuzione al giudice di specifici poteri istruttori[40].
Se intesa in termini tecnici e quindi funzionale a uno scopo, una norma processuale deve essere idonea a consentire (o, quantomeno, a facilitare) il raggiungimento di tale scopo[41]. Ciò, tuttavia, presuppone la sussistenza di tre elementi: l’esistenza, almeno implicita, di una norma che impone il raggiungimento del fine a cui è funzionale il comportamento previsto dalla stessa regola tecnica, l’esistenza di un dovere di raggiungere tale fine e che la norma sia davvero funzionale al suo raggiungimento.
Spesso, però, il legislatore omette o comunque non chiarisce tali presupposti, come dimostra l’evoluzione (forse sarebbe meglio dire l’involuzione) giurisprudenziale dell’art. 421 cpc. Questa norma, non a caso definita come vero e proprio «manifesto inquisitorio» del processo del lavoro[42], attribuisce al giudice amplissimi poteri (soprattutto, ma non solo) istruttori. Tuttavia, il legislatore non ha mai esplicitato quale sia l’obiettivo cui la regola è funzionale e, soprattutto, non ne ha mai imposto il raggiungimento. Si può ritenere che proprio questa mancanza abbia portato a un progressivo ridimensionamento della norma. Nonostante la tuttora ricorrente (anche se di fatto meramente tralatizia) affermazione secondo cui il processo del lavoro è «caratterizzato dall’esigenza di contemperare il principio dispositivo con quello della ricerca della verità materiale»[43], secondo l’orientamento ormai dominante «la prova disposta d’ufficio è solo un approfondimento, ritenuto indispensabile ai fini del decidere, di elementi probatori già obiettivamente presenti nella realtà del processo»[44].
Sembra possibile seguire questa prospettiva di analisi anche nel caso del dovere di cooperazione istruttoria in tema di protezione internazionale, cercando di capire se tale dovere abbia natura tecnica e, in tal caso, quale sia l’obiettivo cui tale dovere è funzionale e se lo stesso sia davvero idoneo a facilitarne il raggiungimento[45]. E ciò anche nel tentativo di capire, una volta esplicitati tali elementi, se tale dovere di cooperazione presupponga la preventiva valutazione della credibilità del richiedente o se, al contrario, costituisca uno strumento di tale valutazione.
Anzitutto, tenuto conto della ratio alla base delle norme in tema di protezione internazionale (in proposito sono certamente illuminanti i considerando della direttiva 2004/83/CE), sembra certamente possibile ritenere che il dovere di cooperazione istruttoria abbia natura essenzialmente tecnica, essendo concepito come strumentale (e, quindi, funzionale) a garantire una maggiore effettività alle norme di protezione internazionale. In particolare, pur in assenza di una esplicitazione normativa, il dovere di cooperazione istruttoria appare funzionale a offrire al richiedente la protezione un supporto in una controversia in cui, per la sua peculiare situazione, ha grandi difficoltà a provare i fatti costitutivi della propria domanda. In effetti, come è stato autorevolmente rilevato, «la situazione particolare dello straniero in casi di tale specie esclude quasi sempre a priori che lo stesso possa fornire tramite documenti o anche solo tramite testimoni la prova diretta di tali fatti costitutivi del suo diritto»[46].
Analogamente, pur in mancanza di una specifica disposizione al riguardo, sembra possibile ritenere che il giudice della protezione internazionale sia tenuto a raggiungere lo scopo prefisso dal legislatore, ossia assicurare l’effettività della tutela dei diritti di protezione internazionale, anche attraverso il proprio dovere di cooperazione istruttoria[47].
È in questa prospettiva tecnica, quindi, che sembra possibile cercare di riesaminare il problema del rapporto fra il dovere di cooperazione istruttoria e il vaglio di credibilità delle dichiarazioni rese dal richiedente. Come si è già accennato, il richiedente la protezione internazionale si trova in una posizione di grave difficoltà probatoria, avendo estrema difficoltà a trovare elementi probatori per corroborare la propria istanza; e ciò, ovviamente, per varie ragioni, perché ad esempio non può tornare nel proprio Paese per procurarseli oppure perché non è materialmente possibile reperirli.
Ciò posto, non appare condivisibile la tesi che subordina l’esercizio dei poteri istruttori al preventivo vaglio di credibilità delle dichiarazioni del richiedente, salvo che la mancanza di credibilità derivi dall’impossibilità di fornire riscontri probatori. In proposito, sembra possibile ritenere che tale conclusione si fondi sull’implicito (ma erroneo) assunto secondo cui la dichiarazione del richiedente (in caso di mancato rispetto delle condizioni previste dall’art. 3, comma 5, lett. da a a d, d.lgs n. 251/2007) non sarebbe una vera e propria prova, ma, piuttosto, una sorta di condizione di ammissibilità della domanda. Non pare casuale, in proposito, la diffusa affermazione giurisprudenziale secondo cui il ricorso ai poteri istruttori sarebbe possibile solo nel caso in cui «la mancanza di credibilità derivi dall’impossibilità di fornire riscontri probatori»[48].
Ritenere non credibile la dichiarazione del richiedente solo perché sarebbe stato possibile fornire altri riscontri probatori altro non è se non escludere tout court la natura di prova di tale dichiarazione. Ovviamente, logica conseguenza di tale assunto è l’esclusione del ricorso ai poteri istruttori, posto che, in tal caso, non vi sarebbe alcuna prova da integrare o da colmare. In realtà, tale assunto si fonda su un presupposto erroneo; come è stato giustamente rilevato, le dichiarazioni del richiedente «integrano una vera e propria testimonianza sia pure della parte e senza giuramento»[49].
In proposito, si può certamente ritenere che tali incertezze derivino non solo dalla già segnalata inadeguatezza della generale disciplina processuale italiana (in cui, come detto, non è mai stata riconosciuta una generale utilizzabilità probatoria delle dichiarazioni delle parti), ma anche dall’ambiguità del dato normativo. In proposito, appare estremamente interessante il raffronto fra il testo della direttiva e la relativa attuazione fattane dal legislatore italiano. Più specificamente, l’art. 3, comma 5, d.lgs n. 251/2007 prevede che «qualora taluni elementi o aspetti delle dichiarazioni del richiedente la protezione internazionale non siano suffragati da prove, essi sono considerati veritieri» in presenza di tutti i requisiti previsti dalla medesima norma. La direttiva, invece, prevede che «qualora taluni aspetti delle dichiarazioni del richiedente non siano suffragati da prove documentali o di altro tipo, la loro conferma non è comunque necessaria».
Per quanto apparentemente innocua, la differenza fra le due versioni è sostanziale. Nel caso della direttiva, la dichiarazione del richiedente è a tutti gli effetti una prova che, in assenza di prove di «altro tipo», non richiede «conferma». Nel caso del decreto legislativo, invece, la dichiarazione del richiedente, in assenza (non di prove di altro tipo, ma tout court) di prove, è «considerata» vera (con una sorta di fictio). Nel primo caso, quindi, la dichiarazione costituisce una vera e propria prova e, in presenza delle condizioni specificate dalla norma stessa, può rappresentare l’unico elemento di convincimento del giudice anche in assenza di ulteriori riscontri; nel secondo caso, invece, la decisione è fondata non sulla dichiarazione, ma sul meccanismo (sostanzialmente presuntivo e quasi premiale) determinato dalla sussistenza dei requisiti di cui al quinto comma dell’art. 3 d.lgs n. 251/2007[50].
Sembra possibile ricollegare proprio a questa incertezza normativa (probabilmente ancora una volta dovuta all’inadeguatezza di fondo delle categorie tradizionali del nostro processo civile) le ricorrenti affermazioni giurisprudenziali secondo cui, nei procedimenti di protezione internazionale, vi sarebbe «un onere della prova attenuato»[51], la «credibilità» dei fatti allegati potrebbe essere accertata in via presuntiva (purché tali fatti siano connotati da precisione, gravità e concordanza)[52] e troverebbe applicazione il principio del «beneficio del dubbio» a favore del richiedente[53].
In realtà, come già detto, la dichiarazione del richiedente protezione internazionale deve essere considerata a tutti gli effetti una prova, anzi una prova tipica in quanto espressamente menzionata dal legislatore, benché ammissibile nei soli procedimenti di protezione internazionale e seppur connotata da notevoli peculiarità (essendo normalmente formata stragiudizialmente, avanti alla commissione territoriale, e potendo essere rinnovata o anche solo integrata in sede giudiziale)[54]. Conseguentemente, sembra possibile affermare che l’accoglimento della domanda di protezione internazionale sulla base della sola dichiarazione del richiedente non implichi né un’attenuazione dell’onere probatorio né l’applicazione di uno standard di decisione meno rigido[55] né, infine, una decisione non fondata su prove; al contrario e più semplicemente, si è in presenza di una decisione basata su un’unica prova (la testimonianza della parte), ritenuta attendibile dal giudice e idonea, anche senza ulteriori riscontri, a fondare la decisione.
Del resto, non si tratta di una novità assoluta per l’ordinamento italiano. Nel processo penale è ormai ampiamente riconosciuta la possibilità che la deposizione della persona offesa possa essere assunta, anche da sola e in assenza di riscontri esterni, come prova della responsabilità dell’imputato, purché ovviamente sia sottoposta a vaglio positivo circa la sua attendibilità[56].
Se la dichiarazione pro se di una parte costituisce elemento sufficiente per riconoscere la responsabilità penale di un imputato, purché, ovviamente, sottoposta a un attento vaglio critico, analogo ragionamento può e deve valere nel caso dei procedimenti di protezione internazionale. In altri termini, quindi, i criteri indicati dall’art. 3, comma 5, d.lgs n. 251/2007, per quanto espressamente «procedimentalizzati» (secondo un’espressione alquanto ricorrente in giurisprudenza), non rappresentano condizioni di ammissibilità della domanda e, quindi, di applicazione dei poteri istruttori del giudice, ma rappresentano, più semplicemente, l’esplicitazione di una ordinaria regola di giudizio[57], in base alla quale la valutazione dei predetti criteri rientra «nella sfera di discrezionalità del giudice di merito, il quale non è obbligato a confutare dettagliatamente le singole argomentazioni svolte dalle parti su ciascuna delle risultanze probatorie, né a compiere l’analitica valutazione di ciascun documento prodotto, ma deve soltanto fornire, mediante un apprezzamento globale della congerie istruttoria raccolta, un’esauriente e convincente motivazione sulla base degli elementi ritenuti più attendibili e pertinenti»[58].
Sono pienamente coerenti con tale impostazione le affermazioni giurisprudenziali secondo cui l’applicazione dei criteri di cui all’art. 3, comma 5, d.lgs n. 251/2007, parametri «meramente indicativi»[59], deve avvenire attraverso un apprezzamento unitario di tutti gli elementi acquisiti[60], con esclusione, invece, di elementi irrilevanti o su notazioni, che, essendo prive di riscontri processuali, abbiano la loro fonte nella mera opinione del giudice[61]; in altri termini, si tratta di un apprezzamento sull’attendibilità della dichiarazione (consistente non soltanto in un controllo di coerenza interna ed esterna, ma anche in una verifica di credibilità razionale della concreta vicenda narrata a fondamento della domanda)[62] rimesso al giudice del merito e, come tale, sottratto al controllo di legittimità[63].
Posto ciò, sembra certamente possibile escludere che il dovere di cooperazione sia vincolato alla preventiva valutazione di credibilità delle dichiarazioni del richiedente. In estrema sintesi, quindi, se l’obiettivo è quello di garantire effettività alla tutela dei diritti di protezione internazionale, allora non è né ragionevole né corretto escludere l’esercizio dei poteri istruttori da parte del giudice semplicemente per il fatto che le dichiarazioni del richiedente non appaiano credibili. Si può dire, al contrario, che proprio in questo caso (ossia quando le allegazioni sono carenti o contraddittorie) il giudice dovrebbe utilizzare i propri poteri istruttori. Semmai, ma questa è una questione ben differente (su cui si tornerà fra breve), il problema è capire se e in che misura il dovere di cooperazione istruttoria consenta effettivamente di sopperire a tali lacune.
4. «Aver perso tutto» e «non aver nulla da perdere»: l’incerto (e discutibile) presupposto delle misure di protezione internazionale
Giunti al termine di questa breve analisi, è opportuno cercare di trarre alcune conclusioni da quanto si è detto. Più che di conclusioni, però, sarebbe corretto parlare di mere suggestioni. In effetti, l’accertamento affidato al giudice della protezione internazionale è estremamente complesso, dal punto di vista umano (per l’inevitabile peso che una decisione di rigetto della protezione ha sulla persona che ne è destinataria) prima ancora che da quello giuridico e processuale.
In realtà, ragionando in termini puramente astratti, il compito che spetta al giudice della protezione internazionale è facilmente individuabile e apparentemente semplice, ossia distinguere fra rifugiato e immigrato[64]. Questa distinzione è stata chiarita, in modo molto crudo, ma estremamente efficace, da Jean-Claude Izzo, noto romanziere francese, il quale (sia per la propria esperienza personale, essendo figlio di immigrati italiani, sia per aver vissuto a Marsiglia, una fra le prime città europee ad affrontare il problema dell’immigrazione di massa), già alla fine degli anni novanta del secolo scorso aveva colto perfettamente, con grande sensibilità e realismo, i problemi connessi al fenomeno migratorio e alla difficile integrazione sociale e culturale che ne consegue. In Chourmo (romanzo in cui il tema della migrazione e delle difficoltà di integrazione culturale è centrale), Izzo descrive icasticamente l’immigrato come «qualcuno che non ha perso niente, perché lì dove viveva non aveva niente», così distinguendolo dal rifugiato ossia chi, invece, aveva, ma ha perso tutto[65].
In altri termini, si può dire – con una voluta e un po’ provocatoria generalizzazione – che anche il giudice della protezione internazionale è chiamato ad accertare se chi richiede la protezione «ha perso tutto» (e, quindi, può essere considerato meritevole di protezione) oppure «non aveva nulla da perdere» (e, quindi, deve essere respinto, in quanto semplice immigrato per ragioni economiche)[66].
La rilevanza di tale distinzione emerge chiaramente anche dall’analisi della giurisprudenza in tema di protezione internazionale. Ad esempio, la Corte di cassazione, proprio recentemente, ha affermato che una situazione di mera «povertà» non legittima la concessione di una misura di protezione internazionale, essendo invece necessaria una situazione di vera e propria «carestia» (vale a dire una povertà sopravvenuta o, detto altrimenti, una perdita di prosperità)[67].
Più discutibile, invece, è che il richiedente la protezione internazionale debba anche aver perso «tutto»; in tal senso, ad esempio, può essere letto l’art. 8 della direttiva 2004/83/CE, il quale prevedeva che i singoli Stati escludessero la protezione internazionale nei confronti di chi aveva la «ragionevole possibilità» di trasferirsi in una zona più sicura del proprio Paese di provenienza. Come riconosciuto anche dalla giurisprudenza, tale facoltà non è stata esercitata dall’Italia[68]. In realtà, anche se, forse, non serve per forza aver perso tutto, è comunque necessario aver perso «molto» o «quasi tutto»[69].
Una simile distinzione appare piuttosto discutibile sia dal punto di vista della giustizia sostanziale sia da quello processuale. Indubbiamente, dal primo punto di vista, lascia alquanto perplessi distinguere fra due persone che si trovano esattamente nella stessa situazione di bisogno semplicemente per quello che è successo loro nel passato, come se non aver mai avuto nulla sia meno grave di aver avuto e non aver più. Si tratta, ovviamente, di una considerazione puramente speculativa, visto che le norme sono assolutamente chiare in questo senso. Del resto, come chiaramente riconosciuto dalla Corte di cassazione, «non è ipotizzabile né un obbligo dello stato italiano di garantire allo straniero “parametri di benessere”, né quello di impedire, in caso di ritorno in patria, il sorgere di situazioni di “estrema difficoltà economica e sociale”, in assenza di qualsivoglia effettiva condizione di vulnerabilità che prescinda dal risvolto prettamente economico»[70].
Naturalmente, alla base di questa scelta vi sono anche ragioni di opportunità e, per così dire, di realismo; è davvero impensabile ritenere che un singolo Paese possa pensare (e, quindi, dichiarare, riconoscendo così un esplicito diritto) di farsi carico del benessere di chiunque. Tuttavia, la distinzione fra rifugiato e immigrato, soprattutto in considerazione delle proporzioni attuali del fenomeno, dimostra una volta di più le difficoltà della cultura occidentale (ma non solo) di configurare in modo pieno ed effettivo il principio di solidarietà verso chi si trova in stato di bisogno[71].
Ma, al di là delle possibili considerazioni di politica del diritto (che esulano dalla presente analisi), la distinzione fra rifugiato e immigrato rende il compito del giudice estremamente gravoso e complesso. Anzitutto, ciò si verifica sotto l’aspetto strettamente personale e umano, considerando che il provvedimento di rigetto di una domanda di protezione internazionale si sostanzia in un messaggio tanto semplice quanto, per certi versi, crudele: «mi spiace, sei semplicemente povero e non hai diritto alla protezione». Corredare la decisione di una motivazione articolata e di precisi richiami alla giurisprudenza europea e di legittimità non allevia il peso umano della decisione di rigetto, soprattutto dopo aver sentito il racconto delle difficoltà avute dal richiedente per raggiungere il territorio italiano e, magari, anche averlo visto personalmente nel corso dell’audizione[72].
Non è tutto, però. Oltre all’aspetto per così dire emotivo, la decisione che spetta al giudice della protezione internazionale è estremamente complessa anche dal punto di vista processuale. In effetti, come già è emerso da quanto detto in precedenza, in molti casi il giudice non ha altri elementi che la dichiarazione del richiedente e ciò non solo rende particolarmente incerto l’accertamento affidato al giudice, ma favorisce la tendenza a procedimentalizzare tale decisione. In effetti, la predeterminazione legislativa di criteri di valutazione delle prove e di elementi comportamentali di supporto a tale valutazione (come appunto quelli individuati dall’art. 3, comma 5, d.lgs n. 251/2007[73]) ha da sempre grande fascino, permettendo di alleviare il peso della decisione giudiziale del giudice; è assai discutibile, però, che ad essa si accompagni anche una migliore qualità della decisione[74].
Ma non solo; accondiscendere troppo al fascino di questi meccanismi semplificatori significa anche rischiare di modificare l’oggetto della decisione. Come acutamente rilevato in una recente pronuncia della Corte di cassazione, nel caso delle controversie in tema di protezione internazionale il rischio è che la valutazione di credibilità del richiedente passi da giudizio di attendibilità razionale delle sue dichiarazioni a «giudizio sulla lealtà processuale»[75] o «sulla sincerità della persona» nel suo complesso[76].
In realtà, come già emerso da quanto detto in precedenza, per quanto procedimentalizzata, l’essenza della decisione del giudice della protezione internazionale è rappresentata dalla valutazione dell’attendibilità dei fatti dichiarati dal richiedente, ossia, più semplicemente, dal prudente apprezzamento di una prova liberamente valutabile. Conseguentemente, una simile valutazione non può costituire una condizione di ammissibilità del dovere di cooperazione istruttoria, ma al contrario ne presuppone l’esercizio.
Il problema, semmai, è che i poteri istruttori concretamente a disposizione del giudice della protezione internazionale (anche ammettendo che possano essere sempre utilizzati, il che appare praticamente molto difficile in considerazione del pesante carico di lavoro in questa materia) non paiono davvero in grado di semplificare tale decisione. In effetti, coerentemente con la prospettiva tecnica suggerita in precedenza, deve seriamente dubitarsi che il giudice abbia davvero la concreta possibilità di ottenere, tramite l’esercizio dei propri poteri istruttori, elementi utili per verificare la credibilità delle dichiarazione del richiedente. In proposito, l’unico potere che, in qualche misura, potrebbe essere utile è rappresentato dalla facoltà di rinnovare l’audizione del richiedente nel corso del giudizio. E ciò non tanto perché, avendo davanti il richiedente e notando il suo contegno, il giudice sia in grado di stabilire più efficacemente la veridicità delle sue dichiarazioni[77], quanto soprattutto perché in tale occasione avrebbe la possibilità di porgli delle domande di chiarimento, così arricchendo o completando, nei limiti del possibile, gli elementi disponibili per la decisione[78].
In altri termini, quindi, per quanto sia comprensibile una certa diffidenza verso l’esercizio dei poteri istruttori, in considerazione non solo del sempre maggiore carico di lavoro (conseguente all’aumento esponenziale dei procedimenti di protezione internazionale), ma anche della loro incerta utilità ai fini della decisione, non sembra possibile, in coerenza con la prospettiva tecnica alla base del dovere di cooperazione istruttoria, vincolare l’esercizio di tale dovere al preventivo vaglio di non credibilità. Affinché sia garantita effettività al diritto alla protezione internazionale, è necessario che il giudice cooperi con il richiedente garantendo, in particolare, «un esame completo, rigoroso ed approfondito della domanda»[79].
E ciò pur nella consapevolezza che la valutazione di credibilità delle dichiarazioni del richiedente la protezione internazionale rappresenta purtroppo (o forse, invece, fortunatamente) l’ineliminabile e non semplificabile essenza della decisione giudiziaria, con tutto il fascino, il mistero e anche la responsabilità che porta con sé[80]. Valutazione rimessa a un giudice ancora troppo solo e lasciato a se stesso[81].
1. M. Cappelletti, La testimonianza della parte nel sistema dell’oralità, parte I, Giuffrè, Milano, 1962, p. 194.
2. M. Taruffo, La giustizia civile in Italia dal ‘700 a oggi, Il Mulino, Bologna, 1980, p. 329, nota 143.
3. Sull’evoluzione delle norme processuali regolanti i procedimenti in tema di protezione internazionale, anche in relazione alle specifiche forme di tutela accordate dall’ordinamento, si rimanda a M. Acierno, La tutela dello straniero nel processo civile, in Dir. imm. citt., n. 1/2011, pp. 67 ss.
4. Non a caso, del resto, a seguito di questo massivo aumento di controversie sono state appositamente create le sezioni specializzate in materia di immigrazione, su cui si rimanda a F.G. Del Rosso, L’istituzione di sezioni specializzate in materia di immigrazione e il nuovo rito per il riconoscimento della protezione internazionale, in Giusto proc. civ., n. 3/2017, p. 939; A.D. De Santis, Le novità in tema di tutela giurisdizionale dei diritti dei migranti. Un’analisi critica, in Riv. dir. proc., n. 4-5/2017, p. 1219.
5. Al di là dei sempre più numerosi contributi settoriali editi sul tema (che, ovviamente, non è qui possibile citare), è certamente da segnalare la prima analisi sistematica delle norme processuali in tema di immigrazione. Il riferimento è ovviamente a G. Trisorio Liuzzi e D. Dalfino (a cura di), Diritto processuale dell’immigrazione, Giappichelli, Torino, 2019.
6. Cass. civ., sez. unite, 17 novembre 2008, n. 27310, in Giust. civ., 2009, I, 324. Su tale fondamentale pronuncia vds. anche M. Acierno, Il riconoscimento dello status di rifugiato politico: il procedimento e l’onere della prova al vaglio delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, in Dir. imm. citt., n. 1/2009, pp. 79 ss.
7. In questo senso, ad esempio, Cass. civ., sez. III, ord. 12 maggio 2020, n. 8819, in Rep. Foro it., 2020, voce Straniero, n. 108. In tema, anche per gli opportuni richiami, F. Munari, Lo status di rifugiato e di richiedente protezione temporanea. La visione europea del «diritto di Ginevra», in S. Amadeo e F. Spitaleri (a cura di), Le garanzie fondamentali dell’immigrato in Europa, Giappichelli, Torino, 2015, pp. 47 ss. e M. Acierno e M. Flamini, Il dovere di cooperazione del giudice, nell’acquisizione e nella valutazione della prova, in Persona e mercato, n. 1/2017, p. 31 e in Dir. imm. citt., n. 1/2017, p. 1.
8. Cass. civ., sez. unite, ord. 27 novembre 2018, n. 30658, in Rep. Foro it., 2018, voce Straniero, n. 120.
9. Cfr. Relazione Grandi, n. 14, reperibile sul sito www.consiglionazionaleforense.it nella sezione dedicata alla collana di studi storici e giuridici.
10. In tema, si vedano, in particolare, M. Acierno e M. Flamini, Il dovere di cooperazione del giudice, op. cit., p. 32, nota 3.
11. Come detto, la definizione è inevitabilmente generica, anche in considerazione della natura residuale e quindi intrinsecamente generica e multiforme della categoria dei diritti indisponibili. Già Calamandrei, del resto, sottolineava l’eterogeneità delle fattispecie riconducibili alla categoria dei diritti indisponibili (cfr., in particolare, P. Calamandrei, Linee fondamentali del processo civile inquisitorio, originariamente pubblicato negli Studi in onore di Giuseppe Chiovenda, Cedam, Padova, 1927, pp. 131 ss., poi ripubblicato in M. Cappelletti, (a cura di), Opere giuridiche di Piero Calamandrei – Problemi generali del diritto e del processo, vol. I, Morano, Napoli, 1965, pp. 145 ss., spec. pp. 154 ss.
12. P. Calamandrei, Gli orientamenti originali del nuovo codice, capitolo tratto dalle sue Istituzioni di diritto processuale civile secondo il nuovo Codice, pubblicate in M. Cappelletti (a cura di), Opere giuridiche di Piero Calamandrei, op. cit. – Istituzioni di diritto processuale civile, vol. IV, 1970, p. 225.
13. P. Calamandrei, Gli orientamenti, op. ult. cit., p. 226.
14. A questo riguardo, anche per gli opportuni riferimenti bibliografici in tema, si rimanda a M. Taruffo, La giustizia civile, op. cit., p. 361, il quale, riassumendo brillantemente le conclusioni dell’elaborazione dottrinale precedente, segnala l’inadeguatezza del processo civile «costruito sulla misura dei tradizionali diritti soggettivi individuali» e sottolinea che «diverse categorie tradizionali hanno finito con l’irrigidire l’interpretazione delle norme in modo tale da precludere la possibilità di una loro applicazione evolutiva».
15. In tema, cfr. M. Flamini, Il ruolo del giudice di fronte alle peculiarità del giudizio di protezione internazionale, in questa Rivista trimestrale, n. 2/2018, p. 176, www.questionegiustizia.it/rivista/articolo/il-ruolo-del-giudice-di-fronte-alle-peculiarita-del-giudizio-di-protezione-internazionale_544.php, e L. Minniti, La valutazione di credibilità del richiedente asilo tra diritto internazionale, dell’UE e nazionale, in questa Rivista online, 21 gennaio 2020, par. 1 (Le difficoltà teoriche e pratiche del decisore di fronte al giudizio di protezione internazionale, con particolare riferimento alla valutazione di credibilità), www.questionegiustizia.it/articolo/la-valutazione-di-credibilita-del-richiedente-asilo-tra-diritto-internazionale-dell-ue-e-nazionale_21-01-2020.php.
16. Ad esempio, secondo Cass. civ., sez. II, ord. 14 agosto 2020, n. 17185, in Rep. Foro it., 2020, voce Straniero, n. 246 (nel medesimo senso, cfr. Cass. civ., sez. I, ord. 29 maggio 2020, n. 10286, in Rep. Foro it., 2020, voce Straniero, n. 917; Cass. civ. sez., I, ord. 19 aprile 2019, n. 11096, in Rep. Foro it., 2019, voce Straniero, n. 299; Cass. civ., sez. I, 31 gennaio 2019, n. 3016, in Rep. Foro it., 2019, voce Straniero, n. 302; Cass. civ., sez. VI, ord. 29 ottobre 2018, n. 27336, in Rep. Foro it., 2018, voce Straniero, n. 144; Cass. civ., sez. VI, ord. 28 settembre 2015, n. 19197, in Rep. Foro it., 2015, voce Straniero, n. 73), l’attenuazione del principio dispositivo, in cui la cooperazione istruttoria consiste, si colloca non sul versante dell’allegazione ma esclusivamente su quello della prova. Addirittura, secondo Cass. civ., sez. I, ord. 12 giugno 2019, n. 15794, in Rep. Foro it., 2019, voce Straniero, n. 294, la deroga al principio dispositivo (in tema di prove) opererebbe soltanto «a fronte di un’esaustiva allegazione» (analoga posizione è riscontrabile, seppure con esclusivo riferimento alla protezione sussidiaria, in Cass. civ., sez. I, ord. 14 maggio 2020, n. 8930, in Rep. Foro it., 2020, voce Straniero, n. 106); viceversa, secondo Cass. civ., sez. VI, ord. 6 febbraio 2018, n. 2875, in Foro it., 2018, I, 3259, con nota di F.G. Del Rosso (nel medesimo senso, cfr. Cass. civ., sez. VI, ord. 13 dicembre 2016, n. 25534, in Rep. Foro it., 2016, voce Straniero, n. 68; in questo senso si erano espresse anche le sezioni unite, nella nota pronuncia Cass. civ., sez. unite, 17 novembre 2008, n. 27310, in Giust. civ., 2009, I, 324, emessa, però, quando ancora il contenzioso in materia non aveva assunto le proporzioni odierne), il procedimento di protezione internazionale è disancorato dal principio dispositivo proprio del giudizio civile e libero da preclusioni processuali, oltre che fondato sulla possibilità di assumere informazioni e acquisire d’ufficio tutta la documentazione necessaria. Più propriamente, però, la soluzione è più semplice e, in qualche misura, più tradizionale, come recentemente rilevato dalla Corte di cassazione: la natura autodeterminata del diritto alla protezione ne consente il riconoscimento, qualora i fatti storici allegati (o comunque risultanti agli atti del processo) siano pertinenti, anche a prescindere dalle specifica istanza formulata dalla parte – Cass. civ., sez. III, ord. 12 maggio 2020, n. 8819, in Rep. Foro it., 2020, voce Straniero, n. 108. In dottrina, a favore dell’interpretazione più estensiva (anche in considerazione dell’assenza di vincoli o preclusioni per la proposizione della domanda alla commissione territoriale), cfr. M. Acierno e M. Flamini, Il dovere di cooperazione del giudice, op. cit., pp. 33 ss. e M. Flamini, Il ruolo del giudice, op. cit., p. 179; in senso contrario, invece, cfr. A.D. De Santis, Le novità in tema di tutela giurisdizionale dei diritti dei migranti, op. cit., p. 1230.
17. In tema, con particolare riferimento alle massime di esperienza, L. Minniti, La valutazione di credibilità, op. cit.
Con riferimento, invece, al principio di non contestazione, cfr. M. Flamini, Il ruolo del giudice, op. cit., p. 180.
18. In tema, cfr. F.G. Del Rosso, Il processo per il riconoscimento della protezione internazionale, in G. Trisorio Liuzzi e D. Dalfino (a cura di), Diritto processuale dell’immigrazione, op. cit., p. 18. Tale obbligo, del resto, discende direttamente dalle norme europee attuate dall’Italia; in punto, cfr. Cgue, 22 novembre 2012, n. 277/11, in Rep. Foro it., 2012, voce Unione europea e Consiglio d’Europa, n. 1238.
19. L’art. 4 della direttiva, infatti, prevede, in modo assai più esplicito e incisivo, che «lo Stato membro [e quindi anche il giudice] è tenuto, in cooperazione con il richiedente, a esaminare tutti gli elementi significativi della domanda».
20. In tema si rimanda a quanto già detto nella precedente nota 16. Invero, anche la giurisprudenza più restrittiva circa le deroghe al principio dispositivo in tema di allegazioni concorda comunque nel ritenere sussistente il dovere di cooperazione istruttoria nell’accertamento del fatto.
21. Cass. civ., sez. III, ord. 12 maggio 2020, n. 8819, in Rep. Foro it., 2020, voce Straniero, n. 111; Cass. civ., sez. I, ord. 24 maggio 2019, n. 14283, in Rep. Foro it., 2019, voce Straniero, n. 232; Cass. civ., sez. VI, ord. 26 aprile 2019, n. 11312, in Rep. Foro it., 2019, voce Straniero, n. 234; Cass. civ., sez. I, ord. 19 aprile 2019, n. 11096, in Rep. Foro it., 2019, voce Straniero, n. 299; Cass. civ., sez. VI, ord. 27 luglio 2010, n. 17576, in Foro it., 2010, I, 3038, con nota di A. Proto Pisani.
22. Cass. civ., sez. I, ord. 26 giugno 2019, n. 17174, in Rep. Foro it., 2019, voce Straniero, n. 229; Cass. civ., sez. VI, ord. 26 giugno 2019, n. 17080, in Rep. Foro it., 2019, voce Straniero, n. 284; Cass. civ., sez. I, ord. 12 giugno 2019, n. 15794, in Rep. Foro it., 2019, voce Straniero, n. 231; Cass. civ., sez. VI, ord. 19 febbraio 2019, n. 4892, in Rep. Foro it., 2019, voce Straniero, n. 241; Cass. civ., sez. VI, ord. 20 dicembre 2018, n. 33096, in Rep. Foro it., 2018, voce Straniero, n. 149; Cass. civ., sez. VI, ord. 12 novembre 2018, n. 28862, in Rep. Foro it., 2018, voce Straniero, n. 148; Cass. civ., sez. VI, ord. 27 giugno 2018, n. 16925, in Rep. Foro it., 2018, voce Straniero, n. 147.
23. Cass. civ., sez. I, ord. 29 maggio 2020, n. 10286, in Rep. Foro it., 2020, voce Straniero, n. 91 e Cass. civ., sez. III, ord. 12 maggio 2020, n. 8819, ivi, n. 110 (secondo cui, infatti, la protezione sussidiaria, disciplinata dall’art. 14, lett. c, d.lgs n. 251/2007, ha come presupposto la presenza, nel Paese di origine, di una minaccia grave e individuale alla persona, derivante da violenza indiscriminata in una situazione di conflitto armato, il cui accertamento, condotto d’ufficio dal giudice in adempimento dell’obbligo di cooperazione istruttoria, deve precedere, e non seguire, qualsiasi valutazione sulla credibilità del richiedente, salvo che il giudizio di non credibilità non riguardi le affermazioni circa lo stato di provenienza le quali, ove risultassero false, renderebbero inutile tale accertamento.
24. A. Proto Pisani, In tema di protezione internazionale dello straniero, in Foro it., 2010, I, cc. 3043 ss. Analogamente, in questo senso, cfr. Cass. civ., sez. unite, 17 novembre 2008, n. 27310, in Giust. civ., 2009, I, 324.
25. In tema, cfr. F.G. Del Rosso, L’istituzione di sezioni specializzate, op. cit., p. 956.
26. Cass. civ., sez. I, ord. 16 luglio 2020, n. 15215, in Rep. Foro it., 2020, voce Straniero, n. 165.
27. Cass. civ., sez. VI, ord. 28 maggio 2013, n. 13172, in Rep. Foro it., 2013, voce Straniero, n. 103 e Cass. civ., sez. I, 6 luglio 2020, ord. n. 13959, in Rep. Foro it., 2020, voce Straniero, n. 186.
28. Cass. civ., sez. I, ord. 6 luglio 2020, n. 13940, in Rep. Foro it., 2020, voce Straniero, n. 185 e Cass. civ., sez. II, ord. 20 maggio 2020, n. 9230, in Rep. Foro it., 2020, voce Straniero, n. 86
29. Cass. civ., sez. VI, 10 aprile 2015, n. 7333, in Rep. Foro it., 2015, voce Straniero, n. 82.
30. Cass. civ., sez. I, ord. 6 luglio 2020, n. 13932, in Rep. Foro it., 2020, voce Straniero, n. 170.
31. Cass. civ., sez. I, ord. 18 novembre 2019, n. 29836, in Rep. Foro it., 2019, voce Straniero, n. 288.
32. Cass. civ., sez. VI, ord. 24 ottobre 2013, n. 24064, in Rep. Foro it., 2013, voce Straniero, n. 100.
33. Cass. civ., sez. I, ord. 10 giugno 2020, n. 11175, in Rep. Foro it., 2020, voce Straniero, n. 135.
34. Sulla non tassatività delle fonti indicate dall’art. 8 d.lgs n. 25/2008 e sulla conseguente possibile atipicità delle fonti di informazione della situazione del Paese di origine, cfr. Cass. civ., sez. I, ord. 30 giugno 2020, n. 13253, in Rep. Foro it., 2020, voce Straniero, n. 133 (la quale ammette la possibilità di riferirsi anche ai siti delle principali organizzazioni umanitarie). In tema, vds. anche Cass. civ., sez. III, ord. 25 settembre 2020, n. 20334, in Rep. Foro it., 2020, voce Straniero, n. 258, secondo cui va esclusa l’utilizzabilità di siti internet che, per quanto gestiti da soggetti pubblici (come il sito viaggiaresicuri.it), hanno scopi e destinatari diversi rispetto al tema della protezione umanitaria. In dottrina, cfr. F.G. Del Rosso, L’istituzione di sezioni specializzate, op. cit., p. 939 e A.D. De Santis, Le novità in tema di tutela giurisdizionale dei diritti dei migranti, op. cit., p. 1230.
35. Cass. civ., sez. III, ord. 12 maggio 2020, n. 8819, in Rep. Foro it., 2020, voce Straniero, n. 111.
36. In giurisprudenza è abbastanza ricorrente l’affermazione secondo cui il ricorso al fatto notorio è consentito in deroga sia al principio dispositivo sia al principio del contraddittorio (cfr., ad esempio, Cass. civ., sez. VI, ord. 6 febbraio 2013, n. 2808, in Rep. Foro it., 2013, voce Prova civile in genere, n. 39 e Cass. civ., sez. trib., 5 ottobre 2012, n. 16959, in Rep. Foro it., 2012, voce Prova civile in genere, n. 29).
37. Cass. civ., sez. I, ord. 11 novembre 2019, n. 29056, in Rep. Foro it., 2019, voce Straniero, n. 289.
38. Sul tema, sia consentito il richiamo a P. Comoglio, Nuove tecnologie e disponibilità della prova. L’accertamento del fatto nella diffusione delle conoscenze, Giappichelli, Torino, 2018, pp. 215 ss.
39. In argomento, per un’analisi del dibattito dottrinale in tema e per i relativi riferimenti bibliografici, sia consentito il richiamo a P. Comoglio, Nuove tecnologie e disponibilità della prova, op. ult. cit., pp. 89 ss.
40. Vds., ad esempio, in questo senso A. Proto Pisani, Il codice di procedura civile del 1940 fra pubblico e privato: una continuità nella cultura processualcivilistica rotta con cinquant’anni di ritardo, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, vol. 28, 1999, p. 746.
41. In questo caso, tralasciamo il problema dell’intensità del rapporto di causalità che la norma tecnica ha con il raggiungimento del fine (potendosi discutere se la norma tecnica sia necessaria e sufficiente, necessaria, sufficiente o solamente utile per il raggiungimento del fine). Per semplicità di trattazione, sembra possibile considerare efficiente una norma tecnica che sia in grado quantomeno di facilitare il raggiungimento del fine prefisso.
42. La definizione è di B. Cavallone, In difesa della veriphobia (considerazioni amichevolmente polemiche su un libro recente di Michele Taruffo), in Riv. dir. proc., n. 1/2010, p. 15.
43. Cfr., da ultimo, Cass. civ., sez. lav., 4 aprile 2017, n. 8752, in Foro it., 2017, I, 1941. Tale affermazione, come detto, è piuttosto ricorrente nella giurisprudenza di legittimità. A titolo puramente esemplificativo, ricordiamo Cass. civ., sez. lav., 29 settembre 2016, n. 19305, in Rep. Foro it., 2016, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 115; Cass. civ., sez. III, 23 giugno 2015, n. 12902, in Rep. Foro it., 2015, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 137; Cass. civ., sez. lav., 5 marzo 2014, n. 5196, in Not. giur. lav., 2014, 562, Cass. civ., sez. lav., 4 maggio 2012, n. 6753, in Rep. Foro it., 2012, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 100.
44. Cass. civ., sez. lav., 29 settembre 2016, n. 19305, in Rep. Foro it., 2016, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 115.
45. Per una analoga prospettiva, cfr. M. Acierno e M. Flamini, Il dovere di cooperazione del giudice, op. cit., p. 42, le quali, infatti, osservano che «La materia della protezione internazionale costituisce un campo elettivo per l’analisi del nesso inscindibile esistente tra le forme di tutela dei diritti fondamentali della persona – come quello in esame – e le tecniche di tutela ed il diritto di adire il giudice».
46. A. Proto Pisani, In tema di protezione internazionale dello straniero, op. cit., cc. 3043 ss.
47. In tema, cfr. M. Acierno e M. Flamini, Il dovere di cooperazione del giudice, op. cit., pp. 37 ss.
48. Per i riferimenti giurisprudenziali si rimanda alla precedente nota 22.
49. Così ancora A. Proto Pisani, In tema di protezione internazionale dello straniero, op. cit., c. 3045.
50. Questo aspetto (la convinzione che in tal caso l’accoglimento avvenga senza alcun riscontro probatorio) è chiaramente messo in luce da F.G. Del Rosso, Il processo per il riconoscimento della protezione internazionale, op. cit., p. 21, il quale appunto sottolinea come l’applicazione del meccanismo di cui al comma quinto dell’art. 3 d.lgs n. 251/2007 determini l’accoglimento della domanda «benché i fatti allegati dal cittadino straniero non siano suffragati da elementi di prova».
51. Cass. civ., sez. VI, ord. 30 ottobre 2018, n. 27503, in Rep. Foro it., 2018, voce Straniero, n. 143; Cass. civ., sez. I, ord. 19 aprile 2017, n. 9946, in Rep. Foro it., 2017, voce Straniero, n. 131; Cass. civ., sez. VI, 24 settembre 2012, n. 16221, in Rep. Foro it., 2012, voce Straniero, n. 136.
52. Cass. civ., sez. I, ord. 27 novembre 2019, n. 30969, in Rep. Foro it., 2019, voce Straniero, n. 220 e Cass. civ., sez. VI, ord. 11 luglio 2016, n. 14157, in Rep. Foro it., 2016, voce Straniero, n. 69.
53. Cass. civ., sez. I, ord. 27 marzo 2020, n. 7546, in Rep. Foro it., 2020, voce Straniero, n. 288. Per una ricostruzione dei criteri emersi in giurisprudenza a questo proposito, cfr. F.G. Del Rosso, Il processo per il riconoscimento della protezione internazionale, op. cit., p. 19.
54. Sulle peculiarità delle dichiarazioni rese dal richiedente avanti alla commissione e poi in sede di audizione giudiziale, si rimanda a L. Minniti, La valutazione di credibilità, op. cit., par. 2.1. (L’oggetto, la finalità e il limite della valutazione di credibilità).
55. In questo senso, invece, cfr. L. Minniti, La valutazione di credibilità, op. cit., par. 1 (Le difficoltà teoriche e pratiche del decisore di fronte al giudizio di protezione internazionale, con particolare riferimento alla valutazione di credibilità).
56. In questo senso, a titolo puramente esemplificativo di un principio ormai consolidato, si rimanda a Cass. pen., sez. V, 26 marzo 2019, n. 21135, in Rep. Foro it., 2019, voce Prova penale, n. 107; Cass. pen., sez. V, 13 febbraio 2020, n. 12920, in Rep. Foro it., 2020, voce Prova penale [5320], n. 49; Cass. pen., sez. II, 4 luglio 2018, n. 41751, in Rep. Foro it., 2018, voce Dibattimento penale, n. 51.
57. In questi termini L. Minniti, La valutazione di credibilità, op. cit., par. 6, il quale giustamente rileva che «il giudizio di credibilità può e deve essere ricondotto nell’ambito delle regole generali in materia di assunzione e valutazione delle prove».
58. Così, espressamente, Cass. civ., sez. I, ord. 30 agosto 2019, n. 21881, in Rep. Foro it., 2019, voce Straniero, n. 292. In questo senso, in dottrina, cfr. M. Acierno e M. Flamini, Il dovere di cooperazione del giudice, op. cit., pp. 40 ss.
59. Cass. civ., sez. I, ord. 2 luglio 2020, n. 13578, in Rep. Foro it., 2020, voce Straniero, n. 175.
60. Cass. civ., sez. I, ord. 9 luglio 2020, n. 14674, ivi, n. 183.
61. Cass. civ., sez. I, ord. 6 luglio 2020, n. 13944, ivi, n. 171.
62. Cass. civ., sez. III, ord. 19 giugno 2020, n. 11925, in Rep. Foro it., 2020, voce Straniero, n. 126 e Cass. civ., sez. I, ord. 7 agosto 2019, n. 21142, in Rep. Foro it., 2019, voce Straniero, n. 282.
63. Cass. civ., sez. I, ord. 2 luglio 2020, n. 13578, in Rep. Foro it., 2020, voce Straniero, n. 175; Cass. civ., sez. III, ord. 19 giugno 2020, n. 11925, ivi, n. 126; Cass. civ., sez. I, ord. 11 marzo 2020, n. 6897, ivi, n. 76; Cass. civ., sez. I, ord. 5 febbraio 2019, n. 3340, in Rep. Foro it., 2019, voce Cassazione civile, n. 68.
64. Ovviamente, in questo caso, con “rifugiato” si intende anche chi può richiedere il beneficio della protezione sussidiaria.
65. J.-C. Izzo, Chourmo, Gallimard, Parigi, 1996, trad. it.: Chourmo. Il cuore di Marsiglia, Edizioni e/o, Roma, 2011, p. 454.
66. Ovviamente, tutte le generalizzazioni peccano di imprecisione, visto che alcune forme di protezione prescindono da una perdita (come, a titolo puramente esemplificativo, per il rilascio di permessi speciali). Nella maggior parte dei casi, però, il requisito di accesso alle misure di protezione è dato proprio dalla perdita, da intendersi ovviamente in senso lato, ossia non solo una perdita economica, ma anche una perdita di natura personale, come anche solo la perdita della speranza di una vita serena (in conseguenza, ad esempio, di discriminazioni in rapporto al proprio orientamento sessuale o di violenze domestiche).
67. Cass. civ., sez. III, ord. 25 settembre 2020, n. 20334, in Rep. Foro it., 2020, voce Straniero, n. 258.
68. Cass. civ., sez. I, ord. 15 maggio 2019, n. 13088, in Rep. Foro it., 2019, voce Straniero, n. 224; Cass. civ., sez. I, ord. 7 novembre 2018, n. 28433, in Rep. Foro it., 2018, voce Straniero, n. 142; Cass. civ., sez. VI, ord. 16 febbraio 2012, n. 2294, in Giust. civ., 2013, I, 712.
69. Si pensi alla vicenda decisa da Cass. civ., sez. I, 24 novembre 2017, n. 28152, in Rep. Foro it., 2018, voce Straniero, n. 134, in cui è stata riconosciuta la protezione internazionale a una donna che, pur essendo riuscita a rifiutarsi di sposare il fratello del marito morto, era stata costretta, a causa di questo rifiuto, a trasferirsi in un altro villaggio, abbandonando i propri figli e tutti i suoi beni. Si veda anche Cass. civ., sez. I, ord. 10 settembre 2020, n. 18805, in Rep. Foro it., 2020, voce Straniero, n. 227., secondo cui le «difficoltà tipiche di un nuovo radicamento territoriale» non costituiscono un motivo sufficiente per l’accesso alla protezione internazionale.
70. Cass. civ., sez. VI, ord. 7 febbraio 2019, n. 3681, in Rep. Foro it., 2019, voce Straniero, n. 253.
71. Ciò è dimostrato, ad esempio, dal senso di disagio che da sempre suscitano in credenti e non credenti due note parabole evangeliche, quali quelle del figliol prodigo e del buon samaritano, il cui messaggio è chiaramente nel senso di estendere la solidarietà a chiunque si trovi in stato di bisogno, a prescindere dalle ragioni che abbiano creato tale stato di bisogno (anzi, addirittura nei confronti di chi ha perduto tutto per propria colpa). Sulla pervasività di tale messaggio e sulla sua influenza sulla cultura e sulla letteratura, si veda, anche per ulteriori riferimenti, E. Di Rocco, L’avventura narrativa del figliol prodigo, in Nuova informazione bibliografica, n. 2/2019, pp. 277 ss.
72. Sulle stringenti peculiarità che connotano, da questo punto di vista, l’attività decisoria del giudice della protezione internazionale, cfr., in generale, L. Breggia, L’audizione del richiedente asilo dinanzi al giudice: la lingua del diritto oltre i criteri di sintesi e chiarezza, in questa Rivista trimestrale, n. 2/2018, pp. 193 ss., www.questionegiustizia.it/rivista/articolo/l-audizione-del-richiedente-asilo-dinanzi-al-giudi_546.php.
73. In effetti, tali criteri altro non sono che un’esplicitazione di principi già presenti nelle norme ordinarie del codice di procedura civile. I criteri individuati dalle lett. a, b e d di tale norma sono sussumibili nella più generale categoria degli argomenti di prova, ex art. 116, comma 2, cpc (che prevede appunto la possibilità di dedurre argomenti di prova dal «contegno delle parti»); il criterio di cui alla lett. c, invece, rappresenta l’esplicitazione di uno dei criteri più diffusi (ma forse non del tutto corretti, come si dirà nella prossima nota) per la valutazione dell’attendibilità delle dichiarazioni testimoniali – per l’attribuzione di «una sicura attendibilità intrinseca (...) per la ricchezza dei particolari narrati e per l’assenza di incongruenze o contraddizioni» vds. Cass. pen., sez. III, 26 agosto 1993, in Rep. Foro it., 1994, voce Misure cautelari personali, n. 230.
74. Ad esempio, si può dubitare che il criterio indicato dalla lett. a del quinto comma dell’art. 3 d.lgs n. 251/2007 sia davvero idoneo a garantire una maggiore attendibilità delle dichiarazioni del richiedente. Come segnalato dalla studi in tema di psicologia della testimonianza, spesso descrizioni troppo dettagliate o circostanziate, specialmente se relative a episodi traumatici, sono addirittura segno di minore attendibilità della testimonianza. In tema si veda, anche per ulteriori riferimenti, G. Mazzoni, Si può credere a un testimone? La testimonianza e le trappole della memoria, Il Mulino, Bologna, 2003, passim e pp. 143 ss.; con specifico riferimento all’audizione del migrante, cfr. L. Breggia, L’audizione del richiedente asilo dinanzi al giudice, op. cit., pp. 202 ss.
75. Cass. civ., sez. III, ord. 12 maggio 2020, n. 8819, in Rep. Foro it., 2020, voce Straniero, n. 109.
76. In questi termini, cfr. L. Minniti, La valutazione di credibilità, op. cit., par. 2.2.
77. Per alcuni spunti e riferimenti a questo riguardo, vds. J. Nieva-Fenoll, La discutibile utilità degli interrogatori delle parti e dei testimoni (qualche riflessione sull’oralità in tempo di pandemia), in questa Rivista online, 28 settembre 2020, www.questionegiustizia.it/articolo/la-discutibile-utilita-degli-interrogatori-delle-parti-e-dei-testimoni-qualche-riflessione-sull-oralita-in-tempo-di-pandemia.
78. In questo senso, si leggano M. Acierno e M. Flamini, Il dovere di cooperazione del giudice, op. cit., p. 37; in generale, sull’importanza dell’audizione in questo procedimento, L. Breggia, L’audizione del richiedente asilo dinanzi al giudice, op. cit., pp. 193 ss. In proposito, non appare condivisibile l’opinione giurisprudenziale secondo cui, in presenza di un racconto inattendibile o contraddittorio, il giudice della protezione internazionale non sarebbe tenuto a rinnovare l’audizione del richiedente davanti a sé – Cass. civ, sez. I, ord. 19 dicembre 2019, n. 33858, in Rep. Foro it., 2019, voce Straniero, n. 281. O meglio, non è condivisibile un simile automatismo; in caso di dichiarazioni contraddittorie o inattendibili, il giudice potrebbe anche non disporre l’audizione del richiedente, ma dovrebbe indicare attentamente e in modo dettagliato le ragioni che portano a ritenere inutile tale audizione – in questo senso, vds. Cass. civ., sez. VI, ord. 21 novembre 2011, n. 24544, in Rep. Foro it., 2011, voce Straniero, n. 246, sentenza (e va detto) emessa quando ancora il numero delle controversie in tema di protezione internazionale non era ancora esploso.
79. M. Acierno e M. Flamini, Il dovere di cooperazione del giudice, op. cit., p. 42, le quali poi esplicitano in modo ancor più dettagliato i compiti e i doveri del giudice della protezione internazionale.
80. Sulle difficoltà dell’attività decisoria in questa materia, si rimanda a M. Flamini, Il ruolo del giudice, op. cit., p. 183.
81. In tema, sulla opportunità (anzi sulla necessità) che il giudice sia affiancato da giudici onorari esperti in altre discipline, cfr. L. Breggia, L’audizione del richiedente asilo dinanzi al giudice, op. cit., p. 203.