Il dovere di cooperazione istruttoria nel procedimento di protezione internazionale: il punto di vista del giudice di merito
Il contributo si propone un’analisi, condotta dal punto di vista del giudice di merito, del dovere di cooperazione istruttoria (con riferimento sia alla protezione internazionale che alla protezione umanitaria), compiuta guardando al contenuto dell’onere di allegazione, alle peculiarità dell’onere della prova, alla possibilità di esaminare “fatti nuovi” e alla valutazione di credibilità.
1. L’esame della domanda di protezione internazionale e il dovere di cooperazione nella giurisprudenza sovranazionale / 2. Onere di allegazione dei fatti e delle prove / 3. La domanda di protezione internazionale e il dovere di cooperazione istruttoria / 3.1. La domanda di protezione come domanda autodeterminata? / 3.2. Le “ulteriori dichiarazioni” e i “fatti nuovi” / 4. Il dovere di cooperazione del giudice / 4.1. Il dovere di cooperazione e la valutazione negativa di credibilità / 5. Il dovere di cooperazione nell’esame della domanda avente ad oggetto la protezione umanitaria
1. L’esame della domanda di protezione internazionale e il dovere di cooperazione nella giurisprudenza sovranazionale
L’esame del sistema di protezione offerto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo con riferimento a potenziali violazioni degli artt. 2 e 3[1] – e del pertinente diritto dell’Unione europea – consente di ricavare il principio per cui spetta al richiedente asilo “sostanziare” la sua domanda di protezione. Le caratteristiche intrinseche e le condizioni di esercizio del diritto alla protezione internazionale sono tali da richiedere, in entrambi i contesti ordinamentali, la previsione di accorgimenti specifici che determinano un’evidente attenuazione del generale principio che vede l’onere della prova gravare a carico di chi agisce a tutela di un diritto. Proprio in merito alle caratteristiche del diritto invocato, appaiono particolarmente significative le conclusioni dell’avvocato generale Yves Bot nella causa C-429/2015, ove afferma che chi legittimamente cerca una protezione internazionale versa in condizioni umane e materiali estremamente difficili e, di conseguenza, la procedura da questi avviata presso le autorità nazionali competenti deve garantirgli il mantenimento dei suoi diritti essenziali (paragrafi 70 e 75).
Nello specifico ambito del diritto dell’Unione europea, questa attenuazione si apprezza con riferimento a due istituti.
Il primo è rappresentato dall’obbligo incondizionato, per lo Stato membro, di cooperare con il richiedente asilo nell’esame di tutti gli elementi significativi della domanda (art. 4, par. 1, dir. 2011/95/UE).
Il secondo si realizza nella previsione di cui all’art. 4, par. 5, “direttiva qualifiche” 2011/95/UE: allorquando lo Stato membro abbia optato per imporre al richiedente asilo l’obbligo di motivare la sua domanda e questi, tuttavia, non abbia fornito prove documentali o di altro tipo a sostegno delle sue dichiarazioni, queste ultime si possono ritenere ugualmente comprovate allorché siano rispettate, cumulativamente, una serie di condizioni che sostanzialmente fanno presumere la credibilità del richiedente asilo e delle sue dichiarazioni.
Prima di esaminare le peculiarità della disciplina nazionale, appare opportuno soffermarsi sugli orientamenti della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte di giustizia proprio in materia di obbligo di cooperazione e conseguenti attività di acquisizione officiosa da parte del decisore (amministrativo prima e giudiziario dopo).
L’esame dei fatti e delle circostanze ha luogo in due fasi distinte: la prima riguarda l’accertamento delle circostanze di fatto che possono costituire elementi di prova a sostegno della domanda, mentre la seconda ha ad oggetto la valutazione giuridica di tali elementi, che consiste nel decidere se, alla luce dei fatti che caratterizzano la fattispecie, siano soddisfatti i requisiti sostanziali per il riconoscimento di una protezione internazionale.
Come chiarito dalla Corte di giustizia[2], «benché il richiedente sia tenuto a produrre tutti gli elementi necessari a motivare la domanda, spetta tuttavia allo Stato membro interessato cooperare con tale richiedente nel momento della determinazione degli elementi significativi della stessa. Tale obbligo di cooperazione in capo allo Stato membro implica, pertanto, concretamente che, se, per una qualsivoglia ragione, gli elementi forniti dal richiedente una protezione internazionale non sono esaustivi, attuali o pertinenti, è necessario che lo Stato membro interessato cooperi attivamente con il richiedente, in tale fase della procedura, per consentire di riunire tutti gli elementi atti a sostenere la domanda. Peraltro, uno Stato membro riveste una posizione più adeguata del richiedente per l’accesso a determinati tipi di documenti».
Nella decisione del caso M.M.[3], la Corte di giustizia ha osservato che l’obbligo di cooperazione dello Stato con il richiedente asilo è collocato in un articolo dedicato all’esame dei fatti e delle circostanze. Tuttavia, detto “esame” è chiaramente scomponibile in due fasi: la prima consiste nell’acquisizione di tutte quelle circostanze di fatto che possono costituire elementi di prova a sostegno della domanda; la seconda fase, invece, riguarda la valutazione giuridica di tali elementi ed è volta a verificare se sussistano gli estremi per la concessione della protezione internazionale. Ad avviso della Corte, il dovere di cooperazione delle autorità statali con il richiedente asilo si colloca solo nella prima fase: se gli elementi forniti dal richiedente non sono esaustivi, attuali o pertinenti, è necessario che lo Stato membro interessato cooperi attivamente con il richiedente al fine di consentire di raccogliere tutti gli elementi atti a sostenere la domanda. Tale dovere di cooperazione si sostanzia, ad esempio, nell’obbligo, sancito dall’art. 10, comma 3, lett. b, direttiva procedure, di mettere a disposizione del personale incaricato di esaminare le domande informazioni precise e aggiornate provenienti dall’Easo, dall’Unhcr e da organizzazioni internazionali per la tutela dei diritti umani circa la situazione generale nel Paese d’origine dei richiedenti e, all’occorrenza, dei Paesi in cui hanno transitato. Spetterà dunque all’amministrazione, prima, e al giudice, poi, fare riferimento anche di propria iniziativa a informazioni relative ai Paesi d’origine affidabili e aggiornate.
Con riferimento alla seconda fase, relativa al vaglio della fondatezza della domanda, la Corte di giustizia precisa che non può ritenersi compreso nel dovere di cooperazione gravante sugli Stati membri alcun obbligo di comunicare un preavviso di rigetto della domanda, con indicazione degli argomenti sui quali essa intende basare il rigetto così da consentire al richiedente di far valere il suo punto di vista a proposito. Secondo la Corte, tale accorgimento si porrebbe già nella seconda fase di cd. qualificazione giuridica del materiale probatorio raccolto, in relazione alla quale non è ravvisabile il prescritto dovere di cooperazione[4].
La portata del dovere di cooperazione dell’autorità – prima amministrativa e poi giurisdizionale – sembra atteggiarsi in modo diverso nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Nelle decisioni del Giudice di Strasburgo, infatti, il dovere di cooperazione – declinato come accertamento «motu proprio» – assume contenuti più o meno pregnanti in ragione del rischio lamentato (con particolare riferimento al rischio di essere sottoposto a trattamenti inumani o degradanti) o del carattere generale della condizione di insicurezza nel Paese di destinazione.
La Corte Edu, nel caso F.G. c. Svezia[5], nella formazione della Grande Chambre, ribaltando la decisione resa in primo grado, ha affermato che, pur spettando al richiedente asilo l’onere di fornire gli elementi che sostanziano la domanda, l’autorità decidente, al fine di accertare e valutare tutte le circostanze rilevanti del caso, può fare ricorso a tutti i mezzi a sua disposizione, anche prevedendone l’acquisizione d’ufficio[6]. Nella pronuncia in esame la Corte ha distinto due ipotesi: la prima ricorre in relazione alle richieste di protezione internazionale che si fondano su un rischio di potenziale violazione del diritto alla vita e/o di trattamenti inumani e degradanti che appaia generalizzato e conosciuto (stabilendo che, in questi casi, sussiste un obbligo in capo all’autorità nazionale di valutare di propria iniziativa il rischio cui verrebbe esposto il richiedente asilo se rinviato nel suo Paese); nella seconda, relativa invece ai casi di richieste di protezione internazionale che si fondano su un rischio di persecuzione individuale, è esclusivamente onere del ricorrente sostanziare la domanda (con la conseguenza che, se il richiedente decide di non basare la sua richiesta d’asilo su un determinato motivo o comunque non fornisce elementi a riguardo, non è possibile ritenere che vi sia un dovere da parte dello Stato di attivarsi).
Con riferimento alla valutazione della situazione generale di sicurezza del Paese d’origine, nonché alla capacità delle autorità statali di offrire protezione al ricorrente, la Corte Edu, anche in forza di un espresso richiamo al paragrafo 6 del manuale Unhcr «Note on Burden and Standard of Proof in Refugee Claims», ha ribadito che le autorità accertanti devono tenere conto della situazione oggettiva del Paese d’origine «motu proprio»[7].
Più di recente, nella decisione della Grande Camera sul caso Ilias e Ahmed c. Ungheria, del 21 novembre 2019, la Corte, dopo aver ricordato che spetta al richiedente asilo apportare gli elementi probatori che attestino il rischio di essere sottoposto a trattamenti persecutori nel Paese di origine, ha precisato che, nel caso di domande di asilo basate su un rischio generale ben noto, accertabile in una serie considerabile di fonti, l’articolo 3 impone agli Stati di avviare di propria iniziativa una valutazione sul rischio in parola.
Alla luce della giurisprudenza sovranazionale sopra richiamata, può ritenersi che il dovere di cooperazione si atteggi in modo diverso in ragione del motivo di persecuzione allegato dal ricorrente? In particolare, possiamo ritenere che quanto maggiore è il rischio allegato – con particolare riferimento alla possibile violazione dell’art. Cedu o, ancora, all’esistenza di una condizione di violenza indiscriminata da conflitto armato – tanto più penetrante è il dovere di cooperazione gravante sulle autorità?
2. Onere di allegazione dei fatti e delle prove
Nelle domande di protezione internazionale, la domanda è rappresentata dalla “storia” del ricorrente. Come chiarito dalla Suprema corte, il racconto del richiedente asilo è, allo stesso tempo, allegazione dei fatti rilevanti e prova degli stessi (Cass., n. 29056/2019).
Chi chiede tutela di un diritto deve indicare e allegare i fatti costitutivi, atteso che proprio con riguardo a detti fatti – e solo ad essi – si manifesta la facoltà esclusiva del ricorrente nella determinazione del contenuto e dell’oggetto del processo.
L’art. 3 d.lgs n. 251/2007 impone al richiedente un dovere di cooperazione consistente nell’allegare, produrre o dedurre «tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare» la domanda di protezione internazionale. In ordine alla documentazione, la norma tempera specificamente l’obbligo di produzione, coerentemente con il più incisivo obbligo dell’autorità decidente di informarsi in modo adeguato e pertinente alla richiesta, attraverso la locuzione «comunque appena disponibili». Solo il ricorrente, infatti, è in possesso delle informazioni relative alla sua storia personale, ai rapporti con la famiglia d’origine, al contesto sociale dal quale proviene, al livello di scolarizzazione, alle attività lavorative eventualmente svolte, all’eventuale coinvolgimento in partiti politici, al proprio orientamento sessuale, al credo religioso, al viaggio affrontato per giungere nel Paese nel quale ha presentato la domanda. Spetta, pertanto, al richiedente asilo il compito di indicare tutti i predetti elementi o di fornire indicazioni utili per comprenderne le ragioni dell’omessa presentazione[8]. Su questo aspetto la Suprema corte ha chiarito che l’onere di allegazione del richiedente deve essere particolarmente qualificato, ritenendosi necessario che i fatti dedotti non siano meramente dichiarati, ma collegati con la domanda proposta (Cass., nn. 2861/2018, 29875/2018, 31676/2018).
La conoscenza della “storia personale” del ricorrente assume un’importanza decisiva, atteso che, nei procedimenti in esame, il giudizio si fonda, nella grande maggioranza dei casi, quasi esclusivamente sulla valutazione della “credibilità” del soggetto che chiede tutela. Conoscere, ad esempio, particolari relativi al livello di scolarizzazione o alle condizioni economiche della famiglia di origine del ricorrente può costituire un elemento significativo per comprendere apparenti contraddizioni od omissioni che minerebbero la valutazione di credibilità[9].
La Suprema corte ha da tempo precisato che i fatti costitutivi del diritto alla protezione internazionale devono necessariamente essere indicati dal richiedente, pena l’impossibilità di introdurli in giudizio d’ufficio (Cass., n. 19197/2015). Più di recente, i giudici di legittimità hanno precisato che, nell’esercitare i suoi poteri officiosi, il giudice non può introdurre nel thema decidendum un fatto nuovo o diverso da quello allegato dal ricorrente, ma deve attenersi al racconto reso da quest’ultimo (Cass., n. 5973/2019).
3. La domanda di protezione internazionale e il dovere di cooperazione istruttoria
Il dovere di cooperazione gravante sulle autorità dello Stato membro, tanto nella fase amministrativa quanto nell’eventuale fase giudiziale di accertamento dello status di richiedente asilo, rende necessario soffermarsi sulla compatibilità del rispetto di tale obbligo con il principio della domanda. In particolare, l’autorità decidente, in adempimento del dovere di cooperazione, può svolgere una piena attività investigativa in relazione a motivi di persecuzione non specificamente contenuti nella domanda del richiedente – o addirittura volutamente omessi – e che tuttavia emergano in sede di audizione del richiedente o in scritti difensivi depositati successivamente al deposito del ricorso di primo grado?
Il richiedente protezione internazionale ha l’onere di allegare i fatti e le prove, come indicato nell’art. 3 d.lgs n. 251 del 2007.
Il richiedente protezione non deve, in prima istanza, fornire alcuna qualificazione giuridica alla propria domanda e il giudizio davanti alle commissioni territoriali si svolge senza alcun vincolo costituito dal principio della domanda. Oggetto del procedimento amministrativo, dunque, è la domanda di protezione, a prescindere dalla qualificazione offerta dalla parte.
Nel giudizio dinanzi al tribunale, premessa l’irrilevanza dell’indicazione corretta del nomen iuris del diritto alla protezione internazionale che s’invoca – essendo richiesta esclusivamente la prospettazione di una situazione che possa configurare il rifugio politico o la protezione sussidiaria[10] –, il giudice deve valutare la sussistenza dei requisiti per il riconoscimento della protezione partendo dalla misura che integra una condizione di maggior protezione, quale lo status di rifugiato, per giungere alla misura di minor protezione (quale la protezione sussidiaria)[11].
L’insussistenza dell’obbligo di una formulazione specifica della domanda che caratterizza la fase davanti la commissione si attenua nel giudizio d’impugnazione davanti al tribunale.
Al riguardo, l’orientamento della giurisprudenza di legittimità è fermo nel non richiedere l’indicazione specifica del nomen iuris del diritto alla protezione internazionale che s’invoca, ma esclusivamente la prospettazione di una situazione che possa configurare il rifugio politico o la protezione sussidiaria (Cass., n. 14998/2015[12]), corroborata dalle allegazioni e prove poste a sostegno del diritto esercitato. Anche la giurisprudenza più recente ha riaffermato il detto principio, precisando, tuttavia, come l’obbligo di cooperazione istruttoria da parte del giudice consegua soltanto all’adempimento da parte del richiedente del proprio onere di individuazione e allegazione dei fatti costitutivi della sua pretesa (in tal senso Cass., nn. 16925/2018 e 17069/2018).
L’ordine dell’accertamento da compiersi, anche se non indicato dalla parte ricorrente, deve svolgersi partendo dalla misura che integra una condizione di maggior protezione (il rifugio politico) [13]. Il principio della domanda, ancorché con la modalità delineata, si applica al giudizio di primo grado con riferimento alle misure tipiche[14].
Ciò non implica alcuna violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato. Se, infatti, il ricorrente ha chiesto una forma di protezione maggiore, il giudice, d’ufficio, può senza dubbio riconoscere una forma di protezione minore (sussidiaria o umanitaria), se ne ravvisa i presupposti. Ad analoghe conclusioni può giungersi anche con riguardo all’ipotesi inversa di domanda di una forma di protezione minore e riconoscimento di una forma di protezione maggiore. L’individuazione della specifica forma di protezione cui il ricorrente, sulla base dei fatti ritenuti accertati, ha diritto, infatti, configura una questione di qualificazione giuridica riservata al giudice. Dinanzi alla Corte di cassazione – ove, in seguito all’abolizione dell’appello ad opera della l. n. 46/2017, il ricorrente può ricorrere avverso la decisione negativa del tribunale per soli motivi di legittimità – il principio dispositivo ritrova integrale espansione, trattandosi di un giudizio a critica rigidamente vincolata. Nel giudizio di legittimità il collegio può prendere direttamente visione dei fascicoli di parte e d’ufficio relativi al primo grado soltanto in ordine a censure che denuncino vizi processuali inerenti il giudizio di merito o l’ammissibilità del ricorso. Per le altre censure, la valutazione dei fatti svolta dal tribunale non è più sindacabile, salva l’omissione di un fatto “storico” decisivo che abbia formato oggetto di discussione (art. 360, n. 5, cpc) e non di un elemento istruttorio (Cass., sez. unite, n. 8053/2014), quando la ricostruzione del fatto di cui si allega l’omissione sia stata oggetto della decisione ancorché senza l’apporto di tutte le risultanze probatorie acquisite (Cass., n. 12298/2014). Con specifico riferimento al sindacato dei giudici di legittimità sulla valutazione di credibilità, la Suprema corte (Cass., n. 3340/2019) ha affermato che la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili ex art. 3, comma. 5, lett. c, d.lgs n. 251/2007 e che tale apprezzamento di fatto è censurabile in Cassazione solo ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, cpc come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (ovvero come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa e obiettivamente incomprensibile ex art. 132, n. 4, cpc: Cass., n. 8053/2014). Nella sopra indicata pronuncia del 2019, la Cassazione ha escluso di poter ravvisare il vizio di violazione di legge, atteso che la censura relativa alla valutazione di credibilità condotta in modo difforme dalle disposizioni contenute nel citato art. 3 (e, dunque, con una ricostruzione della fattispecie difforme da quella accertata dal tribunale) inerisce a una valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità.
Con riferimento a tale pronuncia, appare però legittimo interrogarsi sulla possibilità di ravvisare una violazione di legge sub specie del cd. difetto di sussunzione. In particolare, se il tribunale ha (erroneamente) ritenuto non credibile il racconto del ricorrente, argomentando in merito alla scarsa “coerenza” e “plausibilità”, all’assenza di “elementi pertinenti” e alla presentazione della domanda a distanza di molto tempo dall’arrivo in Italia, non può ritenersi integrata un’ipotesi di violazione dei criteri di cui all’art. 3 d.lgs n. 251/2007? Non diversamente, la valutazione meramente atomistica degli elementi di fatto posti a base della domanda, e la loro scomposizione in tanti autonomi segmenti di valutazione, in luogo del pur necessario giudizio complessivo e collegato di quei fatti, potrebbe integrare il vizio di violazione di legge dettato in tema di prova presuntiva (cfr. Cass., n. 7546/2020).
3.1. La domanda di protezione come domanda autodeterminata?
I contenuti e i limiti del dovere di cooperazione possono essere compresi in modo più chiaro all’esito della precisazione dei caratteri della domanda di protezione internazionale.
La giurisprudenza della Corte di cassazione ha da tempo chiarito la distinzione tra diritti (e domande) autodeterminati e diritti (e domande) eterodeterminati. I primi sono quelli la cui individuazione prescinde dal titolo d’acquisto allegato ed è motivata in relazione alla natura unica e irripetibile della situazione sostanziale dedotta (il diritto di proprietà; la nullità negoziale); lì dove, invece, l’identificazione dei secondi è in funzione dello specifico fatto storico contrattualmente qualificato, sicché la causa petendi si risolve nel riferimento concreto a quel fatto specifico che è affermato e allegato come costitutivo, e che perciò possiede una specifica attitudine a individuare il diritto fatto valere in giudizio (cfr., per tutte, Cass., n. 7267/97).
La domanda di protezione internazionale di un diritto fondamentale prescinde dal rischio allegato e può essere identificata solo sulla base del suo contenuto e non per il titolo che ne costituisce la fonte.
Il diritto in esame, pertanto, è individuale in base alla «sola indicazione del relativo contenuto quale rappresentato dal bene che ne forma l’oggetto» (come da definizione resa da ultimo: Cass., 23 febbraio 2017, n. 4681; in precedenza: Cass., 22 gennaio 2013, n. 1495). Le domande in esame, dunque, devono essere ascritte alla categoria delle domande relative a diritti autodeterminati.
Recentemente la Suprema corte ha precisato che «a prescindere dalla domanda della parte, difatti, il giudice è comunque tenuto ad esaminare (…) la possibilità di riconoscere al richiedente asilo detta forma di protezione, ove ne ricorrano i presupposti, qualora i fatti storici addotti a fondamento della stessa risultino ad essa pertinenti, trattandosi di domanda autodeterminata avente ad oggetto diritti fondamentali» (Cass., 12 maggio 2020, n. 8819)[15].
Di conseguenza, la causa petendi delle relative azioni si identifica con il fatto storico che qualifica il diritto stesso e non con il titolo che ne costituisce la fonte. L’allegazione dei fatti o degli atti da cui dipende il diritto vantato, quindi, è irrilevante ai fini dell’individuazione del petitum oggetto della domanda e il modo di acquisto di detto diritto integra, a livello processuale, un fatto secondario in quanto dedotto unicamente in funzione probatoria del diritto vantato in giudizio.
Da tali premesse consegue che il ricorrente ben può mutare il titolo della domanda, integrando o modificando le pretese indicate in fase amministrativa o nel ricorso introduttivo, e il giudice ben può accogliere il petitum in base a un titolo diverso da quello dedotto senza violare il principio della domanda previsto dall’art. 112 cpc, a condizione che tale accoglimento si fondi su fatti allegati al processo.
Con specifico riferimento alla materia in esame, deve osservarsi come l’art. 11 della direttiva qualifiche (di contenuto identico all’art. 1 della Convenzione di Ginevra), così come recepito dall’art. 9 d.lgs n. 251/2007 – nonché l’art. 16 della direttiva, come recepito dall’art. 15 del d.lgs citato – prevedano rispettivamente determinate cause di cessazione dello status di rifugiato[16] e della protezione sussidiaria[17]. Tali previsioni rendono immediatamente evidente la rilevanza delle ragioni che sono alla base della domanda di protezione, disponendo infatti, in presenza di un cambiamento effettivo e duraturo[18], la cessazione delle predette forme di tutela. Tale considerazione, però, incide solo sulla durata e sull’estensione della protezione offerta dallo Stato, rilevando, conseguentemente, su di un piano diacronico rispetto all’accoglimento della domanda, ma non può determinare, invece, una diversa qualificazione della fattispecie in esame. Trattandosi di diritti autodeterminati, infatti, deve ritenersi che le ragioni poste a base della domanda di protezione – e dunque il titolo della domanda – (anche se modificate rispetto a quelle originariamente indicate al momento della formalizzazione della domanda), eventualmente da esaminare ai fini di una successiva ed eventuale cessazione, debbano essere valutate solo in funzione di prova del diritto vantato, afferendo al momento genetico della domanda di protezione.
Non è infrequente, nella trattazione di ricorsi in materia di protezione internazionale, che solo nel corso dell’audizione dinanzi al giudice emergano ragioni diverse da quelle narrate in fase amministrativa, che possono giustificare il riconoscimento della protezione internazionale. In particolare, nell’esame delle domande proposte da giovani ricorrenti vittime di tratta, può accadere che la situazione di sfruttamento non emerga dinanzi alla commissione territoriale e neanche in fase di ricorso ma, per la prima volta, nel corso dell’audizione nella fase giurisdizionale. A fronte di tale “fatto” – emerso solo nel corso del giudizio di primo grado – può il giudice riconoscere lo status di rifugiato? Ad avviso di chi scrive la risposta non può che essere affermativa, atteso che, trattandosi di domanda autodeterminata, il diritto deve essere riconosciuto sulla base del “bene” che ne forma oggetto e non del titolo in forza del quale è stato invocato, non potendosi ragionare in termini di modifica della domanda. Il rilievo della “modifica” delle circostanze poste a base della domanda di protezione potrà, in presenza di ulteriori elementi di cui il giudice deve dar conto nella motivazione, rilevare ai fini della valutazione di credibilità delle dichiarazioni rese.
Una conferma può rinvenirsi nella recente pronuncia della Corte di cassazione (sentenza n. 27073 del 23 ottobre 2019), laddove si afferma (al punto 5.3) che «il richiedente protezione può modificare la causa della sua domanda, come pure le circostanze del caso di specie, invocando, durante il procedimento, un motivo di protezione internazionale che, pur essendo relativo ad eventi o minacce verificatisi prima dell’adozione della decisione dell’autorità o addirittura prima della presentazione della domanda, è stato taciuto dinanzi a detta autorità».
Non può condividersi invece quanto affermato, nella pronuncia appena indicata, in merito al fatto che il giudice non sarebbe tenuto ad adempiere il predetto dovere di cooperazione istruttoria ove il nuovo motivo o nuovi elementi vengano dedotti in una fase “tardiva” del procedimento in corso. Nella decisione in esame, infatti, tale conclusione è raggiunta in forza del richiamo alla sentenza della Corte di giustizia Ahmedbekova – resa con riferimento all’ordinamento giuridico e processuale bulgaro, nel quale il giudizio di riconoscimento della protezione internazionale è strutturato in modo del tutto diverso rispetto a quello italiano – e appare del tutto incompatibile con il giudizio di protezione italiano nel quale, come peraltro ricordato dalla stessa Suprema corte (con il richiamo alla pronuncia delle sez. unite n. 19393/2009), non sussiste alcun vincolo né alcuna ragione ostativa alla deduzione, solo in fase giurisdizionale, di nuovi elementi di fatto a sostegno dei motivi originari o di nuovi motivi. Con riferimento all’onere per la parte di indicare gli elementi costitutivi della domanda e di allegare i fatti e gli elementi di diritti costituenti le ragioni della pretesa necessariamente al momento del deposito del ricorso introduttivo, basti richiamare le argomentazioni svolte poco sopra in merito alla natura autodeterminata del diritto invocato e alla non predicabilità, in termini di inammissibilità, di una modifica della domanda.
3.2. Le “ulteriori dichiarazioni” e i “fatti nuovi”
Le considerazioni appena svolte portano a un ulteriore interrogativo: quali gli strumenti processuali da attivare ove il ricorrente, nel corso del giudizio di primo grado, abbia riferito “fatti nuovi” o abbia reso “ulteriori dichiarazioni” rispetto a quelli emersi nella fase amministrativa (o, anche, rispetto a quelli allegati nel ricorso introduttivo del giudizio dinanzi al tribunale)?
L’esame non può prescindere dal riferimento all’art. 40 della direttiva 2013/32. Tale disposizione, relativa alle domanda reiterate, prevede che: «Se una persona che ha chiesto protezione internazionale in uno Stato membro rilascia ulteriori dichiarazioni o reitera la domanda nello stesso Stato membro, questo esamini le “ulteriori dichiarazioni” o gli elementi della domanda reiterata nell’ambito della precedente domanda o dell’esame della decisione in fase di revisione o di ricorso, nella misura in cui le autorità competenti possano tenere conto e prendere in considerazione tutti gli elementi che sono alla base delle ulteriori dichiarazioni o della domanda reiterata in tale ambito».
Sull’interpretazione delle “ulteriori dichiarazioni” la Corte di giustizia, con due pronunce rese nel 2018[19], ha indicato soluzioni non perfettamente omogenee.
Se infatti, in entrambe le pronunce, la Corte sottolinea che, in forza dei considerando 16 e 22, dall’articolo 4 nonché dall’impianto sistematico della direttiva 2013/32 emerge che l’esame della domanda di protezione internazionale da parte di un organo amministrativo o quasi giurisdizionale dotato di mezzi specifici e di personale specializzato in materia costituisce una fase essenziale delle procedure comuni istituite da tale direttiva (e che il diritto che l’art. 46, par. 3, di tale direttiva riconosce al richiedente di ottenere un esame completo ed ex nunc dinanzi a un giudice non può attenuare l’obbligo per il richiedente in questione di cooperare con tale organo, quale disciplinato dagli artt. 12 e 13 della medesima direttiva), le argomentazioni divergono con riferimento al contenuto dei poteri del giudice, con riferimento alla necessità di sottoporre le “ulteriori dichiarazioni” all’autorità amministrativa.
In particolare, nella sentenza Alheto, i giudici di Lussemburgo hanno precisato che la locuzione ex nunc mette in evidenza l’obbligo del giudice di procedere a una valutazione che tenga conto, se del caso, dei nuovi elementi intervenuti dopo l’adozione della decisione oggetto del ricorso e, quanto all’aggettivo “completo”, che esso conferma che il giudice è tenuto a esaminare sia gli elementi che l’autorità accertante ha considerato, sia quelli intervenuti dopo l’adozione della decisione da parte dell’autorità medesima (sentenza C-585/16 del 25 luglio 2018, Alheto). Hanno poi ribadito l’obbligo del giudice di procedere a una valutazione che tenga conto dei nuovi elementi intervenuti dopo l’adozione della decisione oggetto dell’impugnazione, prevedendo che il giudice esamini la domanda senza necessità di rinviare il fascicolo all’autorità accertante.
Nella successiva sentenza Ahmedbekova, la Corte di giustizia ha precisato che possono essere definiti “ulteriori dichiarazioni” quei motivi allegati per la prima volta dopo la decisione dell’autorità accertante, ma relativi a fatti verificatisi prima dell’adozione della decisione o anche prima della presentazione della domanda. In tali casi, ad avviso della Corte, il giudice è tenuto a esaminare tale motivo nell’ambito della decisione, purché ciascuna delle autorità competenti (che comprende non solo il giudice, ma anche l’autorità accertante amministrativa) abbia la possibilità di esaminare detta ulteriore dichiarazione.
Proprio il richiamo alla sentenza Ahmedbekova ha portato i giudici di Piazza Cavour ad affermare che, qualora il richiedente proponga, nel ricorso giurisdizionale, motivi nuovi o elementi di fatto nuovi che si riferiscano, integrandoli in modo significativo, ai motivi già proposti e che non siano sottoposti alla commissione territoriale, il giudice debba sottoporli all’autorità amministrativa. Tale conclusione appare poco sostenibile in un ordinamento quale quello italiano ove, a differenza di quello bulgaro preso in esame dalla Corte di giustizia, il giudice non sia tenuto solo ad annullare il diniego dell’autorità amministrativa, ma debba, invece, valutare la fondatezza del diritto, provvedendo a riconoscere, in caso di ritenuta sussistenza dei presupposti, lo status invocato.
Funzione del procedimento giurisdizionale di protezione internazionale deve, infatti, ritenersi quella – del tutto autonoma rispetto alla precedente procedura amministrativa, della quale esso non costituisce in alcun modo prosecuzione impugnatoria – di accertare, secondo criteri legislativamente predeterminati, la sussistenza o meno del diritto del richiedente al riconoscimento di una delle tre forme di protezione, onde il compito del giudice chiamato alla tutela di diritti fondamentali della persona appare funzionale – anche al di là ed a prescindere da quanto accaduto dinanzi alla Commissione territoriale – alla complessiva raccolta, accurata e qualitativa, delle predette informazioni, nel corso della quale dissonanze e incongruenze, di per sé non decisive ai fini del giudizio finale, andranno opportunamente valutate in una dimensione di senso e significato complessivamente inteso.
Appare, invece, preferibile la soluzione – peraltro indicata dalla Suprema corte nella medesima pronuncia – secondo la quale, ove il ricorrente alleghi fatti nuovi o elementi nuovi, sugli stessi venga sentito dal giudice tenuto, in questo caso, a fissare non solo l’udienza di comparizione delle parti, ma l’audizione del richiedente, allo scopo di consentirgli, nel rispetto del principio di effettività della tutela, di illustrare di persona i detti elementi.
4. Il dovere di cooperazione del giudice
Così soddisfatto l’onere di specifica allegazione gravante sul ricorrente, occorre ora soffermarsi sul contenuto del dovere di cooperazione del giudice.
Sotto il profilo delle fonti, il dovere di cooperazione è disciplinato dall’articolo 4 della direttiva 2011/95/UE e dall’articolo 8 del d.lgs n. 25/2008.
La giurisprudenza di legittimità, anche nella vigenza delle regole processuali stabilite nella legge n. 39 del 1990, ha indicato nel dovere di cooperazione istruttoria officiosa, una delle più rilevanti peculiarità dei giudizi riguardanti la protezione internazionale definendone il contenuto.
Sin dal 2008 le sezioni unite (nella sentenza n. 27310/2008), dopo aver esaminato la normativa in materia di protezione internazionale, hanno affermato il seguente principio: «risulta così delineata una forte valorizzazione dei poteri istruttori officiosi prima della competente Commissione e poi del giudice, cui spetta il compito di cooperare nell’accertamento delle condizioni che consentono allo straniero di godere della protezione internazionale, acquisendo anche di ufficio le informazioni necessarie a conoscere l’ordinamento giuridico e la situazione politica del Paese di origine».
Il principio è stato ulteriormente specificato da Cass., n. 19197/2015 che ha affermato che «il principio dispositivo nella materia della protezione internazionale viene derogato dalle speciali regole di cui al cit. d.lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e al d.lgs. 28.1.2008, n. 25, art. 8, che prevedono particolari poteri-doveri istruttori (anche) del giudice, non trova però alcuna deroga quanto alla necessità che la domanda su cui il giudice deve pronunciarsi corrisponda a quella individuabile in base alle allegazioni dell’attore. I fatti costitutivi del diritto alla protezione internazionale devono dunque necessariamente essere indicati dal richiedente, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli in giudizio d’ufficio, secondo la regola generale».
Il potere-dovere di cooperazione non può prescindere dai fatti allegati in giudizio dal ricorrente e deve essere esercitato proprio nel limite di detti fatti. Tale dovere di cooperazione istruttoria, infatti, si colloca non sul versante dell’allegazione, ma su quello della prova. Da tale premessa, però, ad avviso di chi scrive, consegue solo che tale dovere non debba essere esercitato oltre i limiti delle allegazioni del ricorrente e non possa consentire l’ingresso, nel processo, di elementi in fatto diversi e ulteriori rispetto a quelli allegati dal richiedente asilo. Non può ritenersi, invece, come affermato da parte della giurisprudenza di legittimità (che verrà di seguito esaminata con riferimento al rapporto tra il dovere di cooperazione e la valutazione negativa di credibilità), che il dovere di cooperazione non sorga in presenza di dichiarazioni non credibili, atteso che, all’esito di un giudizio di credibilità frazionata, potrebbero essere ritenuti non credibile il racconto nella parte relativa alle ragioni che avevano spinto alla fuga dal Paese d’origine, ma credibile la provenienza geografica da un’area che potrebbe essere valutata ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria (in tal caso il giudice, in ragione dell’esistenza di un rischio effettivo di essere coinvolto in un conflitto armato, dovrebbe valutare, nell’esercizio dei poteri officiosi, l’esistenza di una situazione di violenza indiscriminata).
La collocazione del dovere di cooperazione sul versante probatorio consente di apprezzare, in modo più chiaro, l’esatto contenuto dello stesso, che si apprezza con riferimento alle concrete modalità di svolgimento dell’istruttoria (nel momento in cui viene rinnovata, in fase giurisdizionale, l’audizione del ricorrente) e al vaglio di credibilità del ricorrente (con riferimento alla coerenza esterna, confermata o meno grazie all’esame delle informazioni, aggiornate e pertinenti sul Paese d’origine).
In primo luogo, il dovere di cooperazione impone al giudice di valutare se il richiedente abbia compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda, se tutti gli elementi pertinenti in suo possesso siano stati prodotti e se sia stata fornita una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi[20].
Le modalità di cooperazione dell’autorità giurisdizionale vanno definite nell’ambito delle regole che presiedono il processo civile. Il dovere di cooperazione – che permea l’intero procedimento – richiede che il giudice relatore esamini le precedenti dichiarazioni rese dal ricorrente (sia dinanzi alla questura che nel corso dell’audizione dinanzi alla commissione territoriale) e valuti se, in ragione di quanto riferito dal ricorrente, della presenza di contraddizioni, di elementi da approfondire o di ulteriori aspetti non esaurientemente affrontati dinanzi alla commissione (nei limiti dei fatti allegati), sia necessario, in ossequio a quanto chiarito dalla Corte di giustizia[21], disporre una nuova audizione[22].
Nei casi in cui il giudice relatore ritenga di dover disporre una nuova audizione del ricorrente, il dovere di cooperazione si articola attraverso l’indicazione di informazioni relative al dovere di motivare la richiesta[23], ponendo allo stesso domande appropriate durante l’interrogatorio libero e consentendo al richiedente di chiarire eventuali elementi poco circostanziati o contraddittori che farebbero propendere per una valutazione negativa di credibilità.
In secondo luogo, il dovere di cooperazione si atteggia come ulteriore vaglio di credibilità delle dichiarazioni rese dal richiedente asilo. In tale prospettiva, assume particolare importanza l’acquisizione – da parte del giudice – di aggiornate e pertinenti informazioni sul Paese d’origine del ricorrente, in forza delle quali valutare la coerenza esterna del racconto del richiedente.
La Corte di cassazione ha da tempo affermato che, se il richiedente descrive una situazione di rischio per la propria vita o incolumità fisica che derivi dall’imposizione di un sistema di sopraffazione da parte di gruppi tollerati e non contrastati dall’autorità statuale, il giudice del merito è tenuto a verificare, utilizzando i canali indicati dall’art. 8 d.lgs n. 25/2008 (le cd. «COI», «Country of Origin Information») e anche altre fonti d’informazione ritenute attendibili, se tale situazione d’inerzia possa integrare comunque la responsabilità per la persecuzione o per il danno grave così come contenuta nell’art. 5, lett. c, d.lgs n. 251/2007. Al riguardo deve essere sottolineato che, se le informazioni sono deficitarie in ordine alle fonti ma non inverosimili, l’obbligo di assumere officiosamente i dati mancanti, ove effettivamente esistente, deriva direttamente dal combinato disposto degli artt. 3 d.lgs n. 251/2007 e 8 d.lgs n. 25/2008, e la sua violazione integra il vizio di cui all’art. 360, n. 3, cpc[24].
La Suprema corte[25], ancora in merito al dovere di cooperazione, le informazioni sul Paese d’origine e il contraddittorio, ha precisato che, nel caso in cui il ricorrente non abbia offerto alcuna informazione precisa, pertinente e aggiornata sulle condizioni del Paese di origine, l’acquisizione d’ufficio delle COI costituisce attività integrativa che sana l’inerzia della parte, e quindi non diminuisce le garanzie processuali del soggetto, anzi le amplia, né lede in alcun modo i suoi diritti. «In virtù del dovere di cooperazione il giudice verifica, infatti, se sussista una chance, alla luce della COI come sopra assunte, di accoglimento dell’istanza di protezione, quale che sia poi in concreto l’esito della causa. Nessun vulnus concreto al diritto di difesa si può in questo caso prospettare se il giudice non sottopone preventivamente le COI assunte d’ufficio al contraddittorio, purché renda palese nella motivazione a quali COI ha fatto riferimento, onde consentire, eventualmente, la critica in fase di impugnazione, nel merito o sulla legittimità della procedura di acquisizione».
Ove, invece, il ricorrente abbia indicato COI aggiornate e pertinenti, specificamente riferite al rischio che è stato dedotto (indicandone la fonte, la data e prendendo posizione sulle condizioni del Paese di origine, sulla loro incidenza nella posizione individuale del richiedente, e su come le COI indicate consentano di ritenere il racconto attendibile, nonché concreto e attuale il rischio dedotto), se il giudice ritiene di utilizzare altre COI di fonte diversa o più aggiornate, che depongono in senso opposto a quelle offerte dal richiedente, egli dovrà sottoporle preventivamente al contraddittorio, perché diversamente si arrecherebbe, in concreto, un irredimibile vulnus al diritto di difesa.
Le caratteristiche del dovere di cooperazione istruttoria, come sopra delineate, evidenziano come non possano trovare ingresso interpretazioni disfunzionali dell’istituto, fatte proprie da parte della giurisprudenza di legittimità[26], in forza delle quali tale dovere dovrebbe rappresentare «l’unico strumento che l’ordinamento si riserva al fine di scongiurare un troppo comodo uso strumentale della normativa in discorso». Le modalità di attuazione del dovere di cooperazione istruttoria – poste a presidio del diritto fondamentale alla protezione internazionale e disciplinate dalla richiamata normativa europea e nazionale – non realizzano l’interesse (dell’ordinamento?) teso a evitare un uso strumentale della normativa in esame, ma rappresentano uno degli strumenti processuali idonei a garantire al ricorrente un rimedio effettivo.
4.1. Il dovere di cooperazione e la valutazione negativa di credibilità
Il giudice deve esercitare il dovere di cooperazione istruttoria ove le dichiarazioni del ricorrente non siano credibili?
Per rispondere a tale interrogativo occorre precisare che le dichiarazioni del ricorrente ben potrebbero essere ritenute credibili rispetto ad alcuni fatti (quali, ad esempio, la composizione del nucleo familiare, il livello di scolarizzazione, la provenienza da una determinata area geografica) e non credibili rispetto ad altre (segnatamente, il riferito motivo di persecuzione o di danno grave)[27].
Ove, all’esito della valutazione frazionata di credibilità, il giudice dovesse ritenere provata la provenienza da una determinata area geografica, anche a fronte di un giudizio negativo di credibilità sull’esistenza di uno dei motivi che giustificherebbero il riconoscimento della protezione e anche in assenza di specifica deduzione dell’esistenza di un conflitto armato, sarebbe tenuto a esercitare il dovere di cooperazione istruttoria volto a verificare se, nella predetta area, sussista una situazione di violenza indiscriminata da conflitto armato.
Su tale aspetto, la giurisprudenza di legittimità è recentemente approdata a soluzioni fortemente diversificate.
Infatti, sino a tutto il 2018, la prevalente interpretazione giurisprudenziale di legittimità aveva sempre affermato che, mentre i presupposti per il rifugio politico e per le ipotesi di protezione sussidiaria di cui alle lett. a e b sono connotate dalla necessità che si fornisca una prova legata indispensabilmente alle ricadute soggettive delle condizioni del Paese di provenienza, tale stretta correlazione, nell’ipotesi di cui all’art. 14, lett. c, può non sussistere nel caso in cui «il grado di violenza indiscriminata, che caratterizza il conflitto armato in corso, valutato dalle autorità nazionali competenti, raggiunga un livello così elevato da far ritenere presumibile che il rientro dello straniero nel proprio Paese lo possa sottoporre, per la sua sola presenza sul territorio, al rischio di subire concretamente tale minaccia»[28]. Più di recente, la prima sezione civile della Corte di cassazione[29] ha affermato che «la riferibilità soggettiva ed individuale del rischio di subire persecuzioni o danni gravi rappresenta un elemento costitutivo del rifugio politico e della protezione sussidiaria ex lett. a) e b) dell’art. 14, escluso il quale dal punto di vista dell’attendibilità soggettiva, non può riconoscersi il relativo status, la proposizione inversa vale, invece, nella fattispecie di cui alla lett. c) dell’art. 14». Con la conseguenza che, nel caso di protezione sussidiaria ex art. 14, lett. c, il richiedente non ha l’onere di presentare, tra «gli elementi e la documentazione necessari a motivare la medesima domanda», quelli che ineriscono a circostanze, riferite alla sua storia personale, di cui si debba vagliare la veridicità.
In altre decisioni della Suprema corte[30] si legge che, contrariamente rispetto a quanto affermato dalle pronunce appena citate, la valutazione di inattendibilità delle dichiarazioni del richiedente alla stregua degli indicatori di cui all’art. 3 d.lgs n. 251/2007 impedisce di procedere a un approfondimento istruttorio officioso circa la prospettata situazione persecutoria nel Paese di origine, anche nel caso di cui all’art. 14, lett. c. Con particolare riferimento all’onere di allegazione, si è poi precisato[31] che anche in relazione alla fattispecie di cui all’art. 14, lettera c, il ricorrente ha l’onere di allegare specificamente l’esistenza di un conflitto armato o di una situazione di violenza indiscriminata.
Più di recente, la Suprema corte[32] ha circoscritto la portata dell’orientamento più restrittivo, affermando che il principio in base al quale le dichiarazioni del richiedente che siano inattendibili non richiedono approfondimento istruttorio officioso trova applicazione solo per il racconto che concerne la vicenda personale del richiedente, che può rilevare ai fini dell’accertamento dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato o ai fini dell’accertamento dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, di cui all’art. 14, lett. a e b, d.lgs n. 251/2007. Per la fattispecie contemplata dall’art. 14, lett. c, invece, anche in presenza di una narrazione dei fatti attinenti alla vicenda personale inattendibile e comunque non credibile, il dovere del giudice di cooperazione istruttoria sussiste sempre. Nella pronuncia in esame si afferma chiaramente che il pericolo di danno grave nel caso di rimpatrio deve essere quindi considerato in linea meramente oggettiva, a prescindere dalle ragioni che hanno indotto il richiedente asilo a emigrare e, comunque, con riferimento all’attualità.
Una possibile soluzione può essere trovata, anche alla luce dei principi affermati dalla giurisprudenza della Corte Edu sopra citata, in ragione della necessità di distinguere il grado del rischio cui il ricorrente sarebbe esposto in caso di rientro nel Paese d’origine. Se, infatti, anche a prescindere dalla specifica allegazione del ricorrente sul punto e a fronte di un giudizio negativo di credibilità sulle ragioni della fuga, il richiedente correrebbe il rischio, in ragione dell’estensione e del grado del conflitto armato, di restare coinvolto in una situazione di violenza indiscriminata, non appare sostenibile che l’autorità giudiziaria possa non esercitare il dovere di cooperazione istruttoria esponendo il ricorrente, in caso di rimpatrio, al detto rischio. In presenza di una situazione di violenza indiscriminata, che ben potrebbe essere sorta anche dopo il deposito del ricorso, non appare predicabile sostenere l’omesso esercizio del potere dovere di cooperazione solo in ragione del fatto che il ricorrente non abbia allegato tale condizione (oggettiva) e che lo stesso (ritenuto credibile sulla provenienza proprio da una determinata zona geografica) sia stato ritenuto non credibile sulle ragioni dell’espatrio.
In tal senso, un recente e meditato arresto della Suprema corte, riesaminando il rapporto tra dovere di cooperazione e valutazione di credibilità, ha affermato, già sul piano strettamente logico, prima ancora che cronologico, l’accertamento di una situazione di rischio effettivo di essere coinvolto in un conflitto armato da violenza indiscriminata precede, e non segue, qualsiasi valutazione di credibilità del ricorrente (Cass., n. 8819/2020, cit.). Nella decisione in esame i giudici di legittimità hanno chiarito che: «qualsiasi valutazione di non credibilità della narrazione non può in alcun modo essere posta a base, ipso facto, del diniego di cooperazione istruttoria cui il giudice è obbligato ex lege. Quel giudice non sarà mai in grado, ex ante, di conoscere e valutare correttamente la reale ed attuale situazione del Paese di provenienza del richiedente asilo, sicché risulta frutto di un evidente paralogismo l’equazione mancanza di credibilità/insussistenza dell’obbligo di cooperazione. Ne consegue, inoltre, che, in tale fase del giudizio (evidentemente prodromica alla decisione di merito), la valutazione di credibilità dovrà limitarsi alle affermazioni circa il Paese di provenienza rese dal ricorrente (così che, ove queste risultassero false, si disattiverebbe immediatamente l’obbligo di cooperazione)».
5. Il dovere di cooperazione nell’esame della domanda avente ad oggetto la protezione umanitaria
Infine, appare opportuno soffermarsi sul contenuto del dovere di cooperazione con riferimento alle domande volte al riconoscimento della protezione umanitaria. Non verranno esaminate, invece, le questioni relative ai cd. casi speciali, introdotti dalla l. n. 132/2018, atteso che sulle dette domande i tribunali non sono stati chiamati ancora a decidere, stante l’irretroattività delle predette disposizioni[33]. Solo per completezza, osservo che, ove superata la questione della compatibilità della disciplina dei casi speciali con l’art. 10 Cost., le valutazioni espresse in merito al rapporto tra dovere di cooperazione e condizione di vulnerabilità dovrebbero valere, a mio modo di vedere, anche con riferimento alle fattispecie prese in esame dalla disciplina del 2018.
Secondo l’orientamento della giurisprudenza di legittimità (cfr., fra le altre, Cass., 4 agosto 2016, n. 16362), il diritto di asilo riconosciuto dall’art. 10 Cost. risulta interamente attuato e regolato attraverso le tre forme di protezione previste dall’ordinamento vigente (rifugio, protezione sussidiaria e protezione umanitaria). Ne discende che la domanda con cui il richiedente invoca il diritto all’asilo non può essere sezionata e frammentata in base alle diverse forme di tutela riconoscibili, previste dall’ordinamento, ma consiste in un’unica domanda (di protezione) attraverso la quale il richiedente chiede che gli venga accordata la forma di tutela ritenuta più rispondente al suo caso di specie.
Poiché il procedimento avente ad oggetto la domanda di protezione si articola in una prima fase amministrativa e in una successiva fase giurisdizionale (eventuale), il giudice, chiamato a decidere sul diritto alla protezione dopo il diniego da parte dell’autorità amministrativa, deve all’evidenza poter riconoscere al ricorrente le stesse forme di tutela previste dall’ordinamento e che non sono state già riconosciute all’esito della fase amministrativa. Pertanto, qualora la commissione territoriale non abbia ravvisato neppure i gravi motivi umanitari idonei al rilascio del permesso di soggiorno ex art. 5, comma 6, Tui, il tribunale adito con il ricorso ex art. 35 può riconoscere all’esito del giudizio, oltre a una delle due tutele maggiori di protezione internazionale, anche il diritto alla forma di protezione minore (la protezione umanitaria), anche se il ricorrente non formuli una specifica domanda in tal senso.
Con specifico riferimento al rapporto tra valutazione di credibilità, dovere di cooperazione e protezione umanitaria, la Suprema corte[34] ha affermato che il giudizio di scarsa credibilità sui fatti dedotti a sostegno della domanda di rifugio politico non può precludere la valutazione, da parte del giudice, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, delle diverse circostanze che concretizzino una situazione di “vulnerabilità”, da effettuarsi su base oggettiva e, se necessario, previa integrazione anche officiosa delle allegazioni del ricorrente, in applicazione del principio di cooperazione istruttoria, in quanto il riconoscimento del diritto al rilascio del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, deve essere frutto di valutazione autonoma, non potendo conseguire automaticamente al rigetto delle altre domande di protezione internazionale, attesa la strutturale diversità dei relativi presupposti[35].
Tale principio appare del tutto condivisibile, in quanto idoneo a dare attuazione alle esigenze di tutela che il giudice ben potrebbe valutare, pur dopo aver escluso la sussistenza dei fattori di inclusione nelle due forme di protezione maggiori. Ove, infatti, nel corso del giudizio emergesse l’esistenza di una condizione di vulnerabilità legata, ad esempio, all’aggravamento delle condizioni di salute psichica del ricorrente, il giudice, in adempimento del dovere di cooperazione istruttoria, ben potrebbe disporre una consulenza tecnica d’ufficio (volta ad accertare l’esistenza della predetta condizione di salute, la necessità di una terapia e l’impossibilità di ricevere cure nel Paese d’origine) e riconoscere all’esito, anche ove ritenute non credibili le ragioni dell’espatrio, la protezione umanitaria.
In conclusione, l’esame dei principi e delle regole processuali che disciplinano il processo volto al riconoscimento della protezione internazionale e della protezione umanitaria evidenzia come affermare la natura fondamentale del diritto in esame, senza prevedere un piano mobile di tutela per assicurarne il rispetto e garantirne l’effettività, rischia di tradursi in una mera declamazione di principio. E proprio il principio di effettività, come sottolineato da attenta dottrina[36], è stato da tempo utilizzato dalla Corte di cassazione[37] e dalla Corte di giustizia[38] come un principio costituzionale funzionale a eliminare le restrizioni nazionali nella protezione dei diritti, potenziare la funzione ermeneutica e individuare i rimedi più adeguati alla lesione. Per quel che rileva in questa sede, l’interpretazione e l’attuazione del potere-dovere di cooperazione istruttoria – nelle corrette modalità, coerenti con la disciplina normativa (sovranazionale e nazionale) e con l’interpretazione della stessa data dalla Corte Edu e dalla Corte di giustizia – può contribuire a realizzare un processo idoneo a garantire, a chi invoca tutela di un diritto fondamentale, un rimedio effettivo.
1. Vds. Corte Edu [GC], F.G. c. Svezia, ric. n. 43611/11, 23 marzo 2016, par. 113: «It is in principle for the applicant to adduce evidence capable of proving that there are substantial grounds for believing that, if the measure complained of were to be implemented, he would be exposed to a real risk if being subjected to treatment contrary to article 3. In this situation in which asylum seekers often find themselves, it is frequently necessary to give them the benefit of the doubt when it comes to assessing the credibility of their statements and the documents submitted in support thereof».
2. Cgue, C-277/11, 22 novembre 2012, punti 65 e 66.
3. Cgue, sentenza citata nella precedente nota. Il caso si riferiva all’originario sistema irlandese, caratterizzato fino al 2015 da una biforcazione quanto alla fase amministrativa di verifica della protezione internazionale: il richiedente era tenuto dapprima a chiedere l’accertamento dello status di rifugiato e, solo successivamente, quello di protezione sussidiaria. La legge irlandese applicabile all’epoca prevedeva come obbligatoria l’audizione del richiedente solo per il procedimento amministrativo di accertamento dello status di rifugiato, non anche nel secondo, relativo al conferimento della protezione sussidiaria. Nel rinvio pregiudiziale che poi ha condotto alla prima sentenza della Corte di giustizia sul caso, il giudice irlandese chiedeva alla Corte se dal dovere di cooperare con il richiedente discenda in capo alle autorità amministrative un obbligo di notificare alla parte interessata un preavviso di rigetto della relativa domanda, in modo da consentire a quest’ultimo di esprimersi in merito a quegli aspetti della decisione che facciano presagire un esito negativo.
4. Parte della dottrina ha ritenuto opinabile la distinzione appena tracciata, evidenziando che l’esame della domanda deve avvenire in modo equo e dunque, in ottemperanza al principio di buona amministrazione di cui all’art. 41 della Carta, laddove l’autorità riscontrasse delle incongruenze negli elementi riferiti dal richiedente, dovrebbe essere suo onere indicarle al fine di consentire alla parte di replicare secondo il principio del contraddittorio: cfr. H. Dörig, Asylum Qualification Directive 2011/95/EU (Articles 1-10), in K. Hailbronner e D. Thym (a cura di), EU Immigration and Asylum Law, A commentary, C.H. Beck/Hart/Nomos, Monaco/Oxford-Portland/Baden Baden, 2016 (seconda ed.), p. 1138.
In questo senso, si può ricordare, peraltro, che la stessa Corte di giustizia, nel caso M. (2), C-560/14, del 9 febbraio 2017, ha richiamato alla necessità che l’autorità competente prenda in considerazione le spiegazioni fornite in merito alla mancanza di elementi probanti (par. 36).
5. Corte Edu, F.G. c. Svezia, cit. F.G., cittadino iraniano, aveva presentato una domanda di asilo invocando come motivo di persecuzione le sue opinioni politiche. In occasione della sua audizione, avvenuta alla presenza di un legale e di un interprete, F.G. aveva una dichiarazione di un ministro di culto svedese in cui si attestava che, durante il suo soggiorno in Svezia, F.G. era stato battezzato e divenuto membro di una congregazione cristiana. Tuttavia, F.G. dichiarò di considerare la sua conversione come una vicenda strettamente privata e di non voler avvalersi di tale motivo ai fini della sua richiesta di asilo. A seguito del rigetto della domanda d’asilo, F.G. aveva presentato ricorso dinanzi all’autorità giurisdizionale, invocando, quali ragioni fondanti la richiesta di rifugio, sia i motivi politici sia quelli religiosi. Tuttavia, in sede di interrogatorio, F.G. aveva confermato l’intenzione di non voler fondare la sua richiesta di asilo sul rischio di persecuzione religiosa, pur osservando che la conversione avrebbe determinato ovviamente dei problemi in caso di ritorno in Iran. Il giudice di primo grado rigettò l’impugnazione, limitandosi a osservare, in relazione al motivo religioso, che il richiedente aveva col suo comportamento implicitamente ritirato la sua domanda in relazione a tale aspetto. L’appello contro questa decisione ebbe ugualmente esito negativo per il ricorrente, così come la presentazione di una nuova domanda di asilo, fondata esclusivamente su motivi religiosi, la quale venne qualificata dall’autorità amministrativa come domanda reiterata, essendo tale profilo già emerso nel corso della prima procedura.
6. Corte Edu, F.G. c. Svezia, cit., par. 122.
7. Corte Edu [GC], J.K. e altri c. Svezia, ric. n. 59166/12, 23 agosto 2016, par. 98: «The Court notes that, as far as the evaluation of the general situation in a specific country is concerned, a different approach should be taken. In respect of such matters, the domestic authorities examining a request for international protection have full access to information. For this reason, the general situation in another country, including the ability of its public authorities to provide protection, has to be established proprio motu by the competent domestic immigration authorities (see, mutatis mutandis, H.L.R. v. France, cited above, § 37; Hilal, cited above, § 60; and Hirsi Jamaa and Others, cited above, § 116). A similar approach is advocated in paragraph 6 of the above-mentioned Note issued by the UNHCR, according to which the authorities adjudicating on an asylum claim have to take “the objective situation in the country of origin concerned” into account proprio motu. Similarly, Article 4 § 3 of the Qualification Directive requires that “all relevant facts as they relate to the country of origin” are taken into account».
8. Cfr. Cgue, sentenza Bashir Mohamed Ali Mahdi, C-146/14.
9. Sulla valutazione di credibilità, cfr. L. Minniti, La valutazione di credibilità del richiedente asilo tra diritto internazionale, dell’UE e nazionale, in questa Rivista online, 21 gennaio 2020, www.questionegiustizia.it/articolo/la-valutazione-di-credibilita-del-richiedente-asilo-tra-diritto-internazionale-dell-ue-e-nazionale_21-01-2020.php.
10. Cass., n. 14998/2015.
11. L’ordine di esame gradato dalla misura maggiore alle minori è direttamente desumibile dall’art. 8, comma 2, d.lgs n. 25/2008, modificato per effetto del d.lgs n. 142/2015 proprio su tale specifico profilo. La regola si completa con il citato art. 32, che impone la valutazione residuale dei presupposti per il permesso umanitario.
12. Così la massima ufficiale: «In tema di protezione internazionale dello straniero, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, ai sensi dell’art. 14, lett. b) e c), del d.lgs. 19 novembre 2007, n. 251, non è onere del richiedente fornire una precisa qualificazione giuridica della tipologia di misura di protezione invocata, ma è onere del giudice, avvalendosi dei poteri officiosi di indagine e di informazione di cui all’art. 8, comma 3, del d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, verificare se la situazione di esposizione a pericolo per l’incolumità fisica indicata dal ricorrente e astrattamente sussumibile in entrambe le tipologie tipizzate di rischio, sia effettivamente sussistente nel Paese nel quale dovrebbe essere disposto il rientro al momento della decisione».
13. Vds., supra, nota 11.
14. Cfr. Cass. n. 19197/2015 così massimata: «La proposizione del ricorso al tribunale nella materia della protezione internazionale dello straniero non si sottrae all’applicazione del principio dispositivo, sicché il ricorrente ha l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto azionato, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli d’ufficio nel giudizio. (Nella specie, la S.C., nel rigettare la censura relativa al mancato utilizzo dei poteri officiosi da parte del giudice di merito, evidenziava che il ricorrente non aveva nemmeno allegato “la violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale” esistente in Nigeria e di cui all’art. 14, lett. c), del d.lgs. n. 251 del 2007, fatto costitutivo di particolare ipotesi di protezione sussidiaria)”».
15. Nella stessa pronuncia, la Suprema corte ha, inoltre, affermato che: «Va pertanto confermato ed integrato l’orientamento, seguito in parte qua dalla giurisprudenza di questa Corte, a mente del quale ciò che rileva non è l’indicazione precisa del nomen iuris della fattispecie di protezione internazionale che s’invoca, ma esclusivamente la prospettazione di una situazione che possa configurare il rifugio politico o la protezione sussidiaria (quanto alla legittimità dell’esame delle varie forme di protezione sussidiaria, sebbene non specificamente indicate, Cass. n. 14998 del 2015). Il principio va ulteriormente specificato nel senso che tale regola processuale non cambia pur in presenza (come nella specie) di una espressa limitazione della domanda di protezione internazionale ad alcune soltanto delle sue possibili forme, poiché tale limitazione non può assumere il significato di una rinuncia tacita a quella non richiesta, sempre che i fatti esposti con l’atto introduttivo del giudizio siano rilevanti e pertinenti rispetto alla fattispecie non espressamente invocata (per l’applicazione di un principio non dissimile, mutatis mutandis, in tema di nullità negoziali, Cass. ss.uu. 26242/2014)».
16. Le cause per la cessazione dello status di rifugiato sono: a) la riassunzione volontaria della protezione del Paese di cittadinanza; b) il riacquisto volontario della cittadinanza del Paese di origine; c) l’acquisto volontario della cittadinanza italiana o della cittadinanza di diverso Paese; d) il ristabilimento volontario nel Paese rispetto a cui sussisteva il timore di persecuzione; e) la possibilità di godere della protezione del Paese di cittadinanza a causa del venir meno delle circostanze che hanno determinato il riconoscimento dello status di rifugiato; f) la possibilità di godere della protezione del Paese di dimora abituale, nel caso dell’apolide, a causa del venir meno delle circostanze che hanno determinato il riconoscimento dello status di rifugiato.
17. La cessazione dello status di protezione sussidiaria è dichiarata su base individuale quando le circostanze che hanno indotto al riconoscimento sono venute meno o sono mutate in misura tale che la protezione non è più necessaria.
18. Cfr. in merito alla natura del cambiamento delle circostanze, la giurisprudenza della Corte di giustizia che, con una pronuncia resa in via pregiudiziale sull’interpretazione dell’art. 11, n. 1, lett. e, della direttiva del Consiglio 29 aprile 2004, 2004/83/CE, letto in combinato disposto con l’art. 2, lett. c, della medesima direttiva, ha affermato che solo «un cambiamento delle circostanze avente un carattere significativo e una natura non temporanea nel Paese di provenienza fa venir meno i motivi che hanno determinato lo status di rifugiato» – Cgue, sentenza del 2 marzo 2010, n. 16, Salahadin Abdulla (cause riunite nn. 175/08, 176/08, 178/08, 179/08).
19. Cgue, Alheto, C-585/16, 25 luglio 2018, ECLI:EU:C:2018:584; Cgue, Ahmedbekova, C-652/16, 4 ottobre2018, ECLI:EU:C:2018:801.
20. Cass. civ., sez. VI-1, 30 luglio 2015, n. 16201; vds., anche, Cass. civ., sez. VI-1, 16 luglio 2015, n. 14998.
21. Cgue, M., C-560/14, 9 febbraio 2017 e Cgue, Moussa Sacko, C-348/16, 26 luglio 2017. In entrambe le pronunce la Corte di giustizia ha chiarito che il «diritto a un colloquio orale» è previsto dall’art. 46 della direttiva 2013/32 solo per la fase amministrativa, ma non nella fase giurisdizionale, ove il giudice deve procedervi se tale adempimento risulti necessario per un «esame completo ed ex nunc degli elementi di fatto e di diritto».
22. Cfr. L. Breggia, L’audizione del richiedente asilo dinanzi al giudice: la lingua del diritto oltre i criteri di sintesi e chiarezza, in questa Rivista trimestrale, n. 2/2018, www.questionegiustizia.it/rivista/articolo/l-audizione-del-richiedente-asilo-dinanzi-al-giudi_546.php.
23. Cgue, C-277/11, 22 novembre 2012, punto 65.
24. Cass., n. 7333/2015.
25. Cass., ord. 11 novembre 2019, n. 29056.
26. Cass., 14 giugno 2019, n. 16028.
27. Per un’attenta e completa trattazione del tema della valutazione di credibilità del richiedente protezione internazionale, cfr. L. Minniti, La valutazione di credibilità, op. cit.
28. Cass., sez. VI-1, n. 25083/2017.
29. Cass., sez I, n. 14283/2019.
30. Cass., nn. 33096/2018, 4892/2019, 17174/2019.
31. Cass., n. 3016/2019.
32. Cass., n. 2954/2020.
33. Cass., sez. unite, 24 settembre 2019, nn. 29459, 29460 e 29461, pubbl. il 14 novembre 2019.
34. Cass., n. 10922/2019.
35. Non può condividersi, invece, in quanto non coerente con i principi che regolano il processo volto al riconoscimento del diritto fondamentale alla protezione, quanto affermato dalla Suprema corte, in un’isolata pronuncia (n. 21123/2019), ove si afferma che il richiedente, in tema di protezione umanitaria, deve allegare fatti «ulteriori» rispetto a quelli allegati per le forme di protezione internazionale.
36. G. Vettori, Effettività delle tutele (Diritto civile, voce), in Enc. dir., Annali, vol. X, Giuffrè, Milano, 2017, p. 381.
37. Cfr. Cass., 17 settembre 2013, n. 21255 e Cass., 12 dicembre 2014, n. 26242.
38. Cfr. Cgce, Johnston, C-222/84, 15 maggio 1986; Cgce, Union nationale des entraîneurs et cadres techniques professionnels du football, C-222/86, 15 ottobre 1987. Sul punto vds. N. Trocker, Il diritto processuale europeo e le “tecniche” della sua formazione: l’opera della Corte di Giustizia, in Eur. dir. priv., n. 2/2010, pp. 366-412, in particolare p. 373.