Giustizia e diritti umani
1. Il centro
Benvenuti a tutti noi in questa XIV Assemblea degli Osservatori sulla giustizia civile.
Gli Osservatori costituiscono un movimento che abbiamo sempre pensato come una rete, piena di nodi, ma senza un centro. Ebbene, questa Assemblea è in realtà il nostro centro, il luogo da dove possiamo verificare la tenuta dei nostri impegni e metterli in condivisione.
Innanzitutto, occorre cercare di comprendere quale sia il contesto complessivo nel quale si svolge la nostra esperienza per calibrare meglio gli obiettivi. Secondo la mistica ebraica, dalla tradizione qabbalistica al chassidismo, nelle sefirot (plurale di “sefirah”, “vaso”)si rende visibile la divinità nei suoi vari aspetti; la rottura di alcuni vasi, che non riescono a contenere l’urto della luce divina, fa sì che i loro frammenti precipitino nel mondo, insieme alle scintille di luce rimaste prigioniere nella materia.
Compito dell’uomo è radunare le scintille divine e ripristinare l’armonia perduta. Quest’opera di riparazione, il cosiddetto tiqqùn, vede coinvolto sia Dio sia l’uomo.
Penso che sia davvero necessaria e urgente l’opera di riparazione, di ricucitura dell’umano. Dove si è scucita l’umanità?
Per esempio, nelle nostre città invase dalla paura, spesso indotta, anche se reale, colme di gente che non si guarda e non si parla e diffida di chi è o appare diverso.
Nelle zolle di terra e di sabbia, nelle correnti del mare quando, da quelle scuciture, ha fatto precipitare migliaia di esseri umani che avevano la sola colpa di non essere alberi e di muoversi, come l’umanità ha fatto da sempre.
Si è scucita quando è straripato il linguaggio dell’odio, parola tracotante che prevarica l’altro, annienta la possibilità di dialogo, si nutre della paura ed è concime per i crimini d’odio.
Quando ha preteso di costruire regole e giudizi distaccati dai reali bisogni e dai sentimenti delle persone, relegate al rango di mere destinatarie di leggi astruse o giudizi nei quali non hanno diritto di parola.
Si è scucita quando ha sfruttato il lavoro gratuito o semi-gratuito, quando ha perso la capacità di ascoltare, quando ha trasformato i nostri mestieri umanistici in una dimensione burocratica e ha trasformato le persone in numeri e statistiche.
E si è scucita quando il linguaggio ha cosificato le persone: i migranti si scaricano, si collocano e ricollocano, come fossero merci; i fascicoli si smaltiscono, come fossero rifiuti.
Il lavoro complessivo dell’Assemblea, allora, è quello di attendere con pazienza a quest’opera di ricucitura. Verso di essa, Carlo Maria Verardi, a cui è dedicata questa Assemblea che si svolge nella sua terra, continua a spronarci con il ricordo del suo incrollabile impegno per la costruzione di una giurisdizione e di una giustizia egualitarie[1], obiettivo cui continua ad ispirarsi la Fondazione “Carlo Maria Verardi”, nata appunto, come è stato detto[2], «come un’azione positiva a favore di valori fondamentali della persona, per saldare i valori di solidarietà e di uguaglianza e per accrescere la tutela dei soggetti più deboli e indifesi».
La cornice dei nostri lavori è dunque l’esigenza di una ri-tessitura.
Maria Lai, straordinaria artista sarda, è stata autrice, tra l’altro, di opere particolari: quaderni cuciti fatti di stoffe, ma anche grandi quadri dove il cucito, la filza del filo, lascia tracce e descrive mondi e universi diversi. In uno di questi quadri ha ricamato la frase: “cucire e ricucire, sul diritto e sul rovescio”.
Si possono comporre e ricomporre le combinazioni.
Cucire il rovescio e ricucire il diritto.
Il titolo della nostra assemblea è «Giustizia e diritti umani»: ebbene, giustizia e diritto non possono essere ridotti alla legge positiva. Il diritto, ahimè, è molto più laborioso.
Giudici e avvocati, giuristi in genere, sono diventati cercatori in una miniera dove si nasconde un giacimento di norme e princìpi a vari livelli, e in quest’opera di estrazione il lucignolo della giustizia deve sempre illuminarne i passi.
2. La cultura delle relazioni
I temi che i gruppi oggi affronteranno costituiscono uno sviluppo delle ricerche dell’anno scorso: alternative dispute resolution (adr) e famiglia, il danno alla persona, la giustizia predittiva e la protezione dei diritti nell’epoca dei big data, la protezione internazionale. E c’è un gruppo nuovo, quello sull’ascolto: un laboratorio trasversale per le attività future.
Qual è il fil rouge? Il filo che connette i gruppi nell’opera di ritessitura di cui dicevamo?
Credo che proprio il nuovo laboratorio lo indichi.
L’ascolto, e direi quindi il dialogo, come fondamento di una cultura delle relazioni declinata sotto vari profili: nel processo, come fonte di quella giustizia procedurale di cui oggi tanto si discute e che per noi in gran parte ha radici antiche, affondate nella ricerca di buone prassi processuali volte a rivitalizzare l’udienza civile come luogo di dialogo effettivo tra giudice, avvocati e parti; la cultura delle relazioni è al centro del gruppo su famiglia e adr, ma anche di quello sul danno alla persona, dove non può essere elusa la questione della valutazione delle dinamiche relazionali di una vita che cambia[3].
E ancora, passando al tema di un altro gruppo, ci chiediamo come queste relazioni possano essere tutelate all’epoca dei big data e della rete: nella rete, scriveva Stefano Rodotà, il popolo si organizza in nuove nazioni senza confini, dove poteri si possono organizzare senza controllo, poteri che, attraverso le gigantesche raccolte di dati, governano le nostre vite. E Rodotà affermava che, proprio nel mondo della rete, la supremazia dei diritti deve essere affermata per promuovere condizioni di trasparenza e di controllabilità diffusa. Proprio i diritti fondamentali, d’altro lato, si palesano come una narrazione capace di unificare, di produrre relazioni[4].
Anche a proposito di intelligenza artificiale, tema che già affrontammo l’anno scorso con riferimento alla giustizia predittiva, è sempre più centrale la questione umana: una grande ricercatrice nata in Cina, Fei-Fei Li, ha co-fondato a Stanford (California), insieme a John Etchemendy, un centro di ricerca ad essa dedicato, aggiungendo una “H” davanti all’acronimo “IA”[5]: “H” sta per “Human”, perché, afferma, non c’è niente di artificiale nell’AI: è ispirata dalle persone e ha ripercussioni sulle persone. È, quindi, uno strumento che richiede responsabilità. Etica e tecnologia, specie se quest’ultima è così potente, non possono andare disgiunte. Per questo, sostiene Li, va scelto un approccio multidisciplinare, invitando scienze sociali e discipline umanistiche a interloquire. La diversità (anche di genere) è fondamentale secondo la scienziata per assicurare che l’IA sia «benevola» e abbia al centro l’interesse dell’umanità intera[6].
Parlando di diversità, si giunge infine al gruppo sulla protezione internazionale che, al di là dei temi specifici, pone l’interrogativo su cosa significhi la relazione con il diverso per eccellenza, lo straniero.
Come abbiamo tessuto il filo che ci porta al nuovo laboratorio sull’ascolto? Credo che molto dobbiamo all’apertura verso le alternative dispute resolution e in particolare alla mediazione e alla conciliazione, che hanno permesso un nuovo sguardo sui conflitti, hanno contaminato anche il percorso giudiziario e favorito la consapevolezza che il processo non è fatto solo di codici, ma di relazioni con le persone – di “soggetti in carne e ossa”, direbbe Rodotà – e, inevitabilmente, con le loro emozioni. Hanno costretto alla riflessione e alla trasformazione del ruolo del giudice, degli avvocati, dei professionisti e delle istituzioni, sempre più consapevoli che la controversia riguarda una vicenda umana segnata da errori, imprevisti, incomprensioni, frustrazioni: una vicenda spesso in cerca di una soluzione, prima che di una ragione; in primo luogo, una vicenda che vuole essere narrata, ascoltata e compresa. La mediazione è stata ed è davvero la ricerca di una nuova centratura della giustizia: occorre mettere al centro le persone, per promuovere la ricostruzione dei legami comunitari e la regolazione pacifica dei rapporti sociali.
Non a caso, la bella tavola rotonda di ieri era intitolata «La persona al centro della giustizia».
Per creare questa nuova cultura, occorre un processo di democratizzazione del sapere giuridico, anche attraverso uno sforzo di semplificazione del linguaggio, richiesto ai professionisti del diritto, agli operatori commerciali, alle amministrazioni pubbliche; un’opera di informazione attraverso uffici di orientamento aperti presso le università e gli enti locali; infine, il compito più ambizioso: ripensare i progetti educativi iniziando a lavorare sulle relazioni sin da piccoli, per generare la capacità di diventare davvero adulti e per alimentare l’abilità fondamentale di cui oggi abbiamo necessità: generare comunità e, aggiungo, comunità aperte. Un programma scolastico del genere ha come fine quello di rendere i cittadini responsabili – cioè “abili a rispondere” – rispetto alla ricerca della giustizia. Ne abbiamo immenso bisogno, di fronte a quella che il sociologo Aldo Bonomi definisce la microguerra civile che pervade la nostra società.
3. La vulnerabilità
Parlando di ascolto e di relazioni, nel gruppo dedicato sono stati messi in luce i casi in cui si presentano profili particolari, come a proposito dei minori o delle persone immigrate. Proprio le linee guida dell’Easo[7] (acronimo di «European Asylum Support Office»), a proposito del colloquio personale con i richiedenti asilo, sembrano molto utili per qualunque colloquio personale.
Certo, i casi ricordati riguardano soggetti vulnerabili e questo ci permette di arricchire la nostra prospettiva (quella dell’umanità, delle relazioni umane), con un ulteriore sguardo: quello della vulnerabilità, centro della riflessione etica, filosofica e giuridica a partire dalla metà del Novecento. Si tratta di un tema oggi in grande auge, come tentativo di superare l’ontologia individualista dello Stato neoliberale, centrata sull’individuo che agisce in base a volontà e razionalità, con un’ontologia relazionale, in cui ognuno sia consapevole dell’altrui e propria vulnerabilità – anche se occorre ammettere che vi è una distribuzione differente di vulnerabilità, perché meccanismi di vario tipo fanno sì che certi soggetti siano più esposti di altri alla precarietà e allo sfruttamento: non siamo tutti ugualmente vulnerabili[8].
È una pista di ricerca affascinante, ma ora mi limito a proporla per il futuro. È una parola ancora fluida, si è detto che è un contenitore utile per promuovere un punto di vista inedito: ripensare le istituzioni e le relazioni sociali della tarda modernità, non per eliminare i diritti, ma per interpretarli, declinarli con maggiore accuratezza nella concretezza delle situazioni specifiche e rafforzarne l’effettività. Oggi si assiste a un ampliamento dei diritti – sulla carta – che rischia, però, di avviare una competizione tra portatori dei diritti stessi. Secondo alcuni studiosi, è proprio la vulnerabilità il criterio per promuovere l’analisi e la trasformazione delle strutture e relazioni che comportano la mancanza di protezione per alcuni esseri umani[9], quelli che Judith Butler definisce «non meritevoli di lutto»[10].
Proprio a proposito della competizione, si apre il discorso sull’immigrazione, dove troviamo migranti da un lato e ceti sociali vulnerabili “autoctoni” dall’altro, soggetti che sembrano competere rispetto all’accesso ai servizi per soddisfare i bisogni primari: persone bisognose di cura, abitazione e sostentamento. Insieme ai migranti, troviamo anziani, disabili, persone marginali, sfruttate dal mondo del lavoro, persone con disturbi psichici. Che fare?
Certo, la relazione con lo straniero è quella più difficile ed è, al riguardo, illuminante una frase di Luigi Di Liegro: «dimmi chi escludi e ti dirò chi sei»[11].
Allora mi permetto di concludere con un focus sui temi dell’immigrazione e dell’incontro con culture diverse, perché questo incontro ci dice chi siamo noi, quale società vogliamo costruire, con gli stranieri e non.
4. Straniero, ospite, nemico
Domani sarà proiettato un video sull’accoglienza agli sbarchi a Reggio Calabria, a cura delCoordinamento diocesano sbarchi, significativamente denominato «Welcome».
Allora inizierei mettendo a confronto due termini: accoglienza e ospitalità.
Nell’antica Grecia, la “xenía”, era l’arte dell’ospitalità verso lo straniero. Già nell’antica Grecia era chiaro, tuttavia, che la relazione con lo straniero, in quanto relazione con l’altro, non era riducibile all’ospitalità tout court: la relazione con lo straniero è, costitutivamente, insicura[12]. Di qui l’ambivalenza di certi termini antichi. In Grecia: “xenos”, “ospite”, la xenía, l’“arte dell’ospitalità”; peraltro, “xenos” significa anche “nemico”. Anche nel mondo latino, “hospes” vuol dire “ospite” in senso attivo, ma anche passivo, “colui che è ospitato”, lo “straniero”; ma di qui si giunge a “hostis”, “nemico”.
Ora è vero che l’ospitalità è incondizionata, mentre le politiche specifiche con cui si affrontano le questioni storicamente determinate dell’immigrazione possono essere condizionate; tuttavia, questa distinzione non può far dimenticare l’indissolubile connessione che esiste tra le sue dimensioni[13].
Il dibattito politico-culturale su questi temi, il rapporto con l’altro, cioè lo straniero, è paurosamente carente.
Il tema è affrontato spesso mettendo in primo piano la paura.
Di questa paura, spesso indotta, ma reale, occorre prendersi cura, perché indica una indisponibilità di fondo a istituire un rapporto con l’altro: è il riflesso di un’insicurezza invincibile e dell’incapacità di riconoscere un dato fondamentale, e cioè il fatto che la relazione con l’altro è la condizione senza la quale non è possibile il riconoscimento e l’affermazione della propria identità.
L’hostis – ospite e nemico – non è mai portatore di una totale estraneità né espressione di una dissomiglianza talmente radicale da poter essere considerata del tutto indipendente dalla nostra identità. Nessuna identità può essere definita senza un nesso vitale con ciò che, essendo diverso, concorre a stabilire l’identità specifica di ciascuno[14].
Come prendersi cura della paura?
È importante fare un’analisi delle pluralità delle ragioni da cui sorge[15]: l’impoverimento e l’aumento delle disuguaglianze, che diviene cultura diffusa, la competitività e la paura di soccombere nella lotta per la sopravvivenza con tutti gli altri, percepiti come avversari, ostili. Siamo in una società che tende a dire all’individuo: ce la puoi fare, è possibile arrivare, dipende da te, devi solo ben orientare la tua ambizione, essere competitivo; l’individuo deve saper costruire se stesso in autonomia. Il sociologo francese Alain Ehrenberg[16] parla di questa impostazione come della causa principale di frustrazione e sofferenza psichica. La società non può permettersi il lusso di chi non ce la fa; trionfa dunque l’esclusione e tutti possono diventare, da un giorno all’altro, “scarti”.
Occorre, poi, combattere l’ossessione identitaria[17] per riscoprire quelle radici multiple di cui parlava Simone Weil[18] e il principale strumento di lotta mi pare l’incontro, che può far conoscere l’alterità. Le esperienze diffuse e capillari di incontri e iniziative con i migranti sono da sostenere e moltiplicare perché la vicinanza e il contatto diretto consentono la conoscenza e il superamento del pregiudizio: penso a progetti come «Welcome refugees» (esperienza di co-housing con un richiedente o un rifugiato, che crea una nuova cultura dell’accoglienza) e alle tante esperienze diffuse di dialogo transculturale (solo per fare un esempio tra i tanti, in Toscana, nel comune di Montemurlo, è stato realizzato uno spettacolo sul testo di Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, da parte degli studenti del Liceo artistico e dei richiedenti asilo, che hanno collaborato insieme).
Occorre quindi un’altra visione, che parta dall’incontro con l’altro. L’alterità, infatti, non può essere soppressa. Ogni politica e ogni pratica che miri all’eliminazione dell’alterità è destinata al fallimento.
Occorre guardare ai bisogni della comunità nel suo complesso e risolvere i problemi che creano separazione e disinformazione, che minano la possibilità di vivere insieme. I percorsi di accoglienza dovrebbero essere parte integrante delle politiche di welfare locale: per esempio, alfabetizzazione, formazione professionale e orientamento al lavoro dovrebbero essere diritti estesi a tutti, non rivolti a singole categorie della popolazione[19].
Lo smantellamento dello Stato sociale, del resto, è andato di pari passo con la creazione dello “straniero” come “nemico”. Ma, come ha ricordato il Presidente Mattarella il 2 giugno 2019, «Libertà e democrazia non sono compatibili con la continua ricerca di un nemico».
5. Il ruolo dei giuristi
Anche i giuristi possono dare il loro contributo.
Anzitutto, avere attenzione al linguaggio, avere cura della parola. In molti testi, anche ufficiali, si parla ormai di flusso dei “migranti irregolari”; ma “irregolare”, semmai, è il flusso, non il migrante. Si accoglie anche con il linguaggio.
Occorre, poi, raccontare le storie per raccontare la storia (come dice Pietro Bartòlo, per tanti anni medico di Lampedusa) e diffondere una contro-narrazione.
Chi raccoglierà queste storie?
Anche avvocati e giudici possono restituire a ogni singola persona la sua biografia e farla conoscere: l’audizione è un momento centrale di ricostruzione della storia nell’udienza. Proprio per questo, le nozioni giuridiche non bastano e occorrono altri saperi. Le storie sono collocate in Paesi lontani geograficamente e culturalmente, e i giuristi devono valutare situazioni del tutto estranee ai loro schemi mentali, mentre il rischio di rinchiuderle dentro quegli schemi è molto forte. Le «Country of origin information» aiutano, ma spesso offrono indicazioni generiche.
C’è bisogno di una giustizia di dettaglio, ma rischiamo di fare giustizia sommaria.
Sarebbe spesso indispensabile l’apporto di una consulenza tecnica d’ufficio antropologica, oggi resa inutilizzabile, di fatto, per la mancanza – sempre di fatto – del compenso al consulente nel sistema del patrocinio a spese dello Stato. In realtà, bisognerebbe realizzare una vera specializzazione, con il contributo di esperti non esterni, ma interni alla struttura giudiziaria: il modello potrebbe essere quello delle sezioni specializzate agrarie, dove il collegio è integrato da due giudici onorari esperti in agraria: occorrono altri saperi, così come è stato ritenuto siano necessari per i campi, se si vuole rispondere ai quei criteri di effettività della tutela indicati dalle fonti costituzionali e sovranazionali.
Esigenza, questa, che richiede anche un servizio di interpretariato e di mediazione culturale di qualità, oggi del tutto assente, per evitare che il mezzo di prova fondamentale nei procedimenti di protezione – il racconto – sia reso afono per mancanza di una traduzione corretta.
L’altro piano di impegno per i giuristi è di essere ricostruttori del sistema attraverso le fonti multilivello e ogni strumento a disposizione nel nostro cassetto degli attrezzi giuridici[20].
È stato detto che oggi il riferimento non è più quello di Antigone, che invoca le leggi non scritte e innate degli dei, poiché nello Stato costituzionale il primo problema è valutare la legittimità costituzionale della legge: il giudice è interprete, sì, ma anche giudice della legge, alla luce delle fonti superiori, la Costituzione e le fonti sovranazionali[21].
Occorre affermare chiaramente che, quando i giudici – e, prima ancora, le commissioni territoriali – riconoscono la protezione internazionale, non sono spinti da pulsioni di benevolenza, ma dall’obbligo di applicare la legge, cioè la complessa normativa in materia.
6. L’orizzonte
Infine, occorre un orizzonte verso il quale camminare.
I giuristi, si è detto, utilizzano gli strumenti del diritto. Ma fa parte della loro professionalità – e della loro umanità – anche l’elaborazione culturale, che è indispensabile nel momento in cui il diritto non è più comando formale, ma torna ad avere contatto con l’esperienza vissuta dalla società. Esso richiede, quindi, un’opera di interpretazione che sia adeguata rispetto alla Costituzione, alle carte dei diritti sovranazionali e anche al tumultuoso mutamento del divenire sociale[22].
D’altro canto, è l’elaborazione culturale che consente al giurista di partecipare alla discussione pubblica sui valori e sui diritti che reclamano ancora una tutela.
E allora non è fuor di luogo immaginare che l’orizzonte sia alto e possa essere avvicinato con passi piccoli, ma orientati verso costruzioni nuove che hanno, però, radici antiche. Il filosofo francese Étienne Balibar propone di includere migranti e richiedenti in una nuova categoria, quella degli «erranti», la parte mobile dell’umanità rispetto alla quale costruire non un diritto all’ospitalità, ma un diritto dell’ospitalità, per impedire che questa parte veda la propria sicurezza e dignità schiacciate, perché, come recita l’art. 6 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, «Ogni individuo ha diritto, in ogni luogo, al riconoscimento della sua personalità giuridica»[23].
Per far questo però occorre riconoscere lo straniero che ci abita, essere consapevoli dell’alterità che è dentro di noi, e qui entra in gioco il grande compito degli educatori – da “ex duco” –, quelli che conducono fuori dalle secche della paura e dell’infelicità. A ogni livello, e soprattutto, a partire dalle scuole, luogo deputato in primis ad alimentare una cultura delle relazioni umane che è la premessa per costruire il diritto di muoversi dentro e fuori i confini del Paese di origine: il diritto di emigrare e di immigrare di kantiana memoria, il diritto degli stranieri a non essere considerati nemici[24].
È un impegno giuridico e culturale che va svolto con fiducia.
L’umanità è una specie nomade. In questa prospettiva va riconosciuto il carattere strutturale e non emergenziale del fenomeno migratorio, per strutturare anche le soluzioni, anziché affidarsi alla casualità di soluzioni improvvisate e straordinarie.
Forse, per concludere la riflessione, può essere utile ricordare che ciò che fa paura è anche l’estraneità che è in noi stessi; in chiave psicologica, essa richiama quella che Shmuel Trigano, sociologo di origini algerine presso l’Università di Nanterre (Parigi), chiama la «condizione esilica», perché in fondo siamo tutti di passaggio, nomadi in questo mondo.
La nuova condizione umana nel mondo globalizzato appare sempre più quella dell’esilio. L’uomo crede di avere radici, così come è convinto di appartenersi, di far corpo con il proprio mondo. L’esilio rompe questa relazione di identità dell’individuo con il suo ambiente: è la frattura che determina la perdita della terra, la scomparsa dei riferimenti quotidiani, la rovina delle abitudini.
Ma è anche la possibilità di vedere la condizione umana in modo nuovo, come una libertà creatrice che affranca dal determinismo della terra e apre la via per costruire una nuova modalità di convivere nel futuro[25].
Maria Lai, quando torna dopo molto tempo nella sua isola, sottolinea: «(…) non è un ritorno a casa. Il viaggio è la casa. Non solo la mia casa, ma quella di tutti noi. Siamo sulla terra che gira a circa trenta chilometri al secondo in un viaggio che è pur sempre un viaggio speciale, dove non si distingue la partenza dal ritorno. La vera nostalgia non è quella per un’isola. È l’ansia di infinito»[26].
Con questa idea della Terra come “casa comune” dell’umanità, auguro buon lavoro a tutti noi, perché possiamo dare un contributo per renderla più umana e giusta.
* Il contributo costituisce la relazione introduttiva ai lavori della XIV Assemblea nazionale degli Osservatori sulla giustizia civile, svoltasi a Reggio Calabria dal 7 al 9 giugno 2019, dedicata a Carlo Maria Verardi e intitolata «Giustizia e diritti umani».
[1] Su Carlo Maria Verardi, rinvio al bellissimo ricordo di Gianfranco Gilardi in questo “Speciale”.
[2] Come si legge nella lettera inviata, all’indomani della sua costituzione, agli amici di Carlo.
[3] Sottolinea G. Travaglino, Il danno alla persona tra essere ed essenza, in questa Rivista trimestrale, n. 1/2018, che «ogni individuo è, immutabilmente, relazione e dialogo con se stesso» ed ancora «rapporto con tutto ciò che rappresenta “altro da sé”».
[4] S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari, 2012, pp. 378 ss. e p. 416.
[5] Il Centro si chiama «Stanford Institute for Human-Centered Artificial Intelligence» presso la Stanford University. Al riguardo si veda l’articolo pubblicato in Donna, supplemento abbinato al quotidiano La Repubblica, il 1° giugno 2019, p. 24 e il sito ufficiale https://hai.stanford.edu.
[6] I rapporti umani, sostiene la ricercatrice, restano al centro della nostra società e ci spingono a fare del bene l’uno all’altro.
[7] Ufficio europeo di sostegno per l’asilo, La guida pratica dell’EASO: il colloquio personale, dicembre 2014, www.easo.europa.eu/sites/default/files/public/EASO-Practical-Guide-Personal-Interview-IT.pdf.
[8] D. Morondo Taramundi, Un nuovo paradigma per l’eguaglianza? La vulnerabilità tra condizione umana e mancanza di protezione, in M.G. Bernardini – B. Casalini – O. Giolo – L. Re (a cura di), Vulnerabilità: etica, politica, diritto, If Press, Roma 2018, p. 197.
[9] D. Morondo Taramundi, ibid., p. 199.
[10] J. Butler, Vite precarie, Meltemi, Roma 2004, p. 55.
[11] Lo ricorda Lorenzo Trucco nel suo contributo Quel che resta dei dritti umani, in M. Veglio (a cura di), L’attualità del male, SEB27, Torino, 2018, p. 124.
[12] Su questi temi e sul rapporto tra straniero e nemico, si veda il bel saggio di U. Curi, Straniero, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2010.
[13] U. Curi, ibid., p. 16.
[14] Ibid., p.19.
[15] Al riguardo è interessante l’analisi di Livio Pepino nel suo Prove di paura. Barbari, marginali, ribelli, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2015.
[16] Autore di una sorta di trilogia sull’individualismo contemporaneo: Le culte de la performance, Calmann-Lévy, Parigi, 1991; L’individu incertain, Calmann-Lévy, Parigi, 1995; La fatigue d’être soi, Odile Jacob, Parigi, 1998 (edizione italiana: La fatica di essere se stessi. Depressione e società, Einaudi, Torino, 1999).
[17] F. Remotti, L’ossessione identitaria,Laterza, Roma-Bari, 2010.
[18] S. Weil, La prima radice, Edizioni di Comunità, Milano, 1973, p. 43, citata da M. Veglio, op. cit., pp. 84 e 88.
[19] S. Allievi, Cinque cose che tutti dovremmo sapere sull’immigrazione (e una da fare), Laterza, Roma-Bari, 2018, p. 50.
[20] Lo abbiamo visto con le pronunce dei giudici di merito e della Corte di cassazione: necessità dell’udienza nel sistema delineato dal dl n. 13/2017; irretroattività dell’abrogazione della protezione umanitaria; da ultimo, i provvedimenti in tema di iscrizione all’anagrafe e le articolate argomentazioni di difensori e professori sull’applicazione dell’art. 10 Costituzione nel periodo successivo all’entrata in vigore del dl n. 113/2018, tesi su cui i giudici devono ancora confrontarsi.
[21] E. Santoro, I fondamenti del costituzionalismo alla prova del caso Diciotti: il sindacato sulle decisioni parlamentari e il punto di equilibrio fra poteri, in questa Rivista online, 14 marzo 2019, www.questionegiustizia.it/articolo/i-fondamenti-del-costituzionalismo-alla-prova-del-_14-03-2019.php.
[22] Su questi temi restano fondamentali le riflessioni di Paolo Grossi: L’invenzione del diritto, Laterza, Roma-Bari, 2017; Dalle “clausole” ai “principii”: a proposito dell’interpretazione come invenzione, in Giustizia civile, n. 1/2017, pp. 5-15; Percorsi nel giuridico pos-moderno, Editoriale Scientifica, Napoli 2017. «L’interpretazione», scrive Grossi, «non è mai legata alla sola volontà dell’interprete, anche se fosse costui il titolare di un potere supremo. Interpretare è sempre un fare i conti con qualcosa che esorbita la soggettività solitaria e si colloca in rapporto con una realtà esterna al soggetto interprete; è, infatti, sempre ricerca e reperimento – invenzione – magari sorretta da forti intuizioni e può spesso concretarsi anche in sviluppo e costruzione (…) Dottrina, giurisprudenza pratica, notai, avvocati sono tutti chiamati a essere protagonisti di questa invenzione» (Della interpretazione come invenzione, lezione tenuta il 23 ottobre 2017 presso la Scuola superiore della magistratura, nell’ambito del corso «L’interpretazione nel diritto del lavoro», www.cortecostituzionale.it/documenti/interventi_presidente/Interpretazione_grossi.pdf).
Si veda al riguardo, anche per le amplissime indicazioni bibliografiche, il bel contributo di M. Nacci, Il ’68 e il Diritto: considerazioni storico-giuridiche, in G. Picenardi (a cura di), Il ’68: una rivoluzione dimenticata o da dimenticare? Atti del XIX Corso dei “Simposi Rosminiani” – 21-24 agosto 2018, Edizioni Rosminiane, Stresa, 2019, pp. 193 ss.
[23] É. Balibar, Il fantasma del corpo estraneo. Per un diritto internazionale dell’ospitalità, Castelvecchi, Roma, 2019. Vedi anche l’articolo pubblicato su Il manifesto del 12 agosto 2018 (Per un diritto internazionale dell’ospitalità, https://ilmanifesto.it/per-un-diritto-internazionale-dellospitalita/).
[24] Cfr. il «Terzo articolo definitivo» del progetto filosofico cheImmanuel Kant scrisse nel 1795, intitolato «Progetto per una pace perpetua» (cfr. I. Kant, Per la pace perpetua, Feltrinelli, Milano, 2013): «Il diritto cosmopolitico deve essere limitato alle condizioni di una ospitalità universale».
[25] Shmuel Trigano, Il tempo dell’esilio, Giuntina, Firenze, 2010.
[26] M. D’Ambrosio (a cura di), Media Corpi Saperi. Per un’estetica della formazione, Franco Angeli, Milano, 2006.