Il giudice nell’epoca della trasformazione del diritto del lavoro
1. Storia di una parabola
Complicato davvero – e forse un po’ velleitario – provare a ridurre e condensare in un articolo di poche cartelle la parabola compiuta in questi ultimi decenni dal diritto del lavoro e, con esso, dal ruolo e dalla funzione del giudice del lavoro.
Posto dalla Costituzione come fondamento ed elemento unificante della neonata Repubblica, il lavoro ottiene dalla nostra Carta fondamentale una collocazione primaria e decisiva come fattore di inclusione e di progresso; come lasciapassare essenziale e determinante perché sia garantita quella “rivoluzione pacifica” in grado di cancellare ogni privilegio in nome di una visione programmatica che tende all’eguaglianza e all’universalismo dei diritti.
Il lavoro come diritto, e come garanzia: di reddito, di tutela dalla malattia e dalla vecchiaia, di rappresentanza sociale e politica. Il lavoro come elemento fondante della stessa dignità della persona, attraverso il riconoscimento della sua libertà dal bisogno. Il lavoro come fattore di aggregazione e di condivisione, nei luoghi di lavoro senz’altro, ma più in generale come parte viva di una società chiamata a cimentarsi con il nuovo modello democratico, e che dell’apporto dei lavoratori tutti aveva bisogno per la stessa sua attuazione.
Il varo, nel 1970, dello Statuto dei lavoratori e, nel 1973, della legge istitutiva del processo del lavoro dota quel programma di strumenti concreti ed efficaci a quel fine. Tutele individuali sul posto di lavoro, misure promozionali per l’aggregazione sindacale e garanzie specifiche, volte a renderne effettiva la presenza e la forza rappresentativa, non possono andare disgiunte dall’introduzione di un giudice e di un processo ad hoc, che agevolino l’attuazione di quel “diritto diseguale” che nutre la sua specialità della sottostante scelta costituzionale. Un rito gratuito, tendenzialmente orale, concentrato e scandito da rigide preclusioni processuali, un giudice che pratica la sua istituzionale imparzialità muovendo dalla consapevolezza della sostanza del conflitto, e della necessità di un riequilibrio nei rapporti di forza tra le parti.
Su questi capisaldi si è costruita quella cittadella del diritto del lavoro che, come scriveva Luciano Gallino, «a partire dal 1945, ha accolto milioni di contadini, di braccianti, di lavoratori a giornata, di artigiani, di operai “sotto padrone” e li ha trasformati in cittadini a pieno titolo, coscienti del loro ruolo in una società democratica e della dignità che spetta a ogni persona, indipendentemente dal censo e dalla professione». E alla costruzione di quelle mura, il giudice del lavoro ha contribuito interpretando il suo ruolo a partire dall’attuazione di principi costituzionali che non sempre avevano trovato seguito nelle iniziative del legislatore: primo fra tutti, quell’art. 36 che, da solo, basta a impedire ogni riconducibilità della disciplina al generale alveo del diritto commerciale, se è vero che la contrattazione tra le parti non è e non può essere libera nel determinare uno degli elementi essenziali del contratto, la retribuzione, che non dovrà essere mai solo mercede, ma garanzia di dignità e di libertà.
La parabola raggiunge, così, il suo culmine.
L’inversione di rotta trova motivo e giustificazione nella richiesta di dare via libera all’esigenza di scostarsi dalle rigidità inderogabili di un sistema – si dice – che non tiene conto delle esigenze di imprenditori e di nuovi lavoratori, attraverso l’introduzione di una flessibilità dei rapporti che possa ai primi consentire di adattare i ritmi di produzione alle richieste del mercato, e di restare quindi competitivi, ai secondi di perseguire modelli di vita più liberi e stimolanti.
La lunga stagione della flessibilizzazione dei rapporti di lavoro ha proceduto a smantellare uno ad uno i bastioni della cittadella, per proseguire nella metafora di Gallino: con la liberalizzazione dei contratti a termine; con la recisione del legame diretto fra datore di lavoro e lavoratore attraverso l’introduzione di triangolazioni (nelle forme del lavoro interinale, della somministrazione, dell’appalto) che, di fatto, hanno consentito che il mero lavoro diventasse oggetto di transazione commerciale, nei modi e nelle quantità necessarie; con l’abbandono in condizione di sottotutela di intere categorie di lavoratori, quali ad esempio gli autonomi e i soci di cooperativa, utili riserve per un mercato del lavoro che spinge alla concorrenza al ribasso e che fa della variabile salariale essenzialmente l’elemento decisivo sul piano della competizione.
La flessibilità ha così mostrato ben presto la sua reale essenza di simulacro, dietro al quale si celava – nemmeno tanto nascostamente – una precarietà senza garanzie e con pochi diritti: e dunque, necessariamente, senza un giudice che fosse in grado di svolgere la sua funzione di tutela e di riequilibrio.
Non sono più seriamente sostenibili le tesi (strumentalmente usate per giustificare lo smantellamento di un sistema) a proposito della assoluta necessità di liberare il mercato del lavoro dai limiti troppo rigidi imposti a tutela delle condizioni minime contrattuali per ottenere un maggior dinamismo dell’economia, e dunque un rilancio dell’occupazione. Ormai – lo ammettono tutti i rilievi delle organizzazioni internazionali – non vi è alcun accertato rapporto fra l’eliminazione delle garanzie e delle tutele conquistate dai lavoratori nel corso del Novecento e il maggior dinamismo dell’economia: la scelta, tutta ideologica, nel nome di un liberismo arrogante che pretende di giustificare il vertiginoso aumento delle diseguaglianze attraverso il falso mito della competizione e della meritocrazia, di riportare indietro la soglia delle tutele al punto in cui si trovava all’incirca sessant’anni anni fa, è quella a cui si devono imputare impoverimento e svalorizzazione. Essa segue un percorso in progressiva caduta, di cui ogni tappa è stata affiancata dal tentativo, più o meno marcato, di marginalizzazione del ruolo del giudice e di restrizione nell’accesso al processo.
Ma questa è, in gran parte, storia di un passato molto recente. Non ancora concluso.
2. Il becco del giudice
È riduttivo affermare che su questo tragitto si sono innestate, per proseguirlo, le più recenti riforme dovute in particolare al passato Governo di centro-sinistra. Con il «Jobs Act», infatti, non ci si limita a consolidare un programma tramandato da precedenti esperienze politiche, anche di segno opposto: con il Jobs Act si realizza quello che, con icastica espressione, è stato definito un vero e proprio «mutamento di paradigma» del diritto del lavoro[1].
Il d.lgs n.23/2015 aggredisce infatti con energia ultimativa la tutela per eccellenza in grado di riequilibrare l’assetto dei rapporti di forza contrattuale, quel diritto alla reintegra nel posto di lavoro che l’art. 18 dello Statuto aveva universalizzato. Il Jobs Act non solo marginalizza ulteriormente la possibilità di accedervi, ma spazza via anche la possibilità di una tutela risarcitoria in grado almeno di garantire un equivalente economico alla perdita dell’occupazione: quello che si prevede, in caso di licenziamento illegittimo, è un mero indennizzo calcolato automaticamente in base all’esclusivo parametro dell’anzianità, in ragione di due mensilità di retribuzione per ogni anno di lavoro, sino ad un tetto massimo di 24 mensilità (accresciute a 36 dal cd. “decreto dignità”).
Ma non è tutto: la legge prevede nel dettaglio le modalità e i contenuti dell’offerta conciliativa proveniente dal datore di lavoro, per un importo esattamente dimezzato rispetto all’indennizzo di legge.
Il disegno si chiude con la necessaria residualità del ruolo del giudice che, una volta accertato che il fatto disciplinare non sussiste, o che non è provata la ragione economica della riduzione occupazionale, non può far altro che sancire comunque l’efficacia del licenziamento, e applicare in automatismo il quantum predefinito, senza neppure poter tenere conto di alcun altro parametro (gravità dell’inadempimento, condizioni economiche delle parti, situazione aziendale) al fine di adeguare meglio l’indennizzo al danno subito.
D’altronde, gli ispiratori più o meno prossimi della riforma non avevano taciuto le ragioni reali dell’intervento riformatore: che non spettasse al giudice “mettere il becco” nel licenziamento deciso dall’imprenditore, non è che l’espressione forse inelegante, ma icastica, che meglio rappresenta il pensiero neoliberista che pretende di ridurre la sanzione economica per il licenziamento illegittimo a un costo d’impresa preventivabile nel suo ammontare.
Fuori l’arbitro, dunque, o quasi, perché ormai il conflitto non è più previsto: il focus dell’intervento legislativo non sta più nell’individuazione di un condiviso, pur se mutevole, punto di bilanciamento tra gli interessi in contrapposizione attraverso l’interpretazione di cui arricchire le cd. «clausole generali» cui la normativa lavoristica fa continuo richiamo[2]. La scelta è compiuta: sta tutta nella libertà d’impresa, e nella sua massima valorizzazione, la possibilità di resistere alla competizione nel mercato globale.
D’altronde, la stessa giurisprudenza di legittimità, pur in casi di sindacato di normativa precedente al d.lgs n. 23/2015, mostra tutta la sua fascinazione per la dottrina secondo cui l’utile gestione dell’impresa finisce per costituire, di per sé, un bene per l’intera comunità, con la conseguenza, addirittura, che dovrebbe ritenersi costituzionalmente imposta una più forte protezione, rispetto alla tutela del lavoro, dell’iniziativa economica privata e della sua libertà in quanto garanzia di maggiore produttività che coincide, per definizione, con l’interesse collettivo e con l’utilità sociale[3]. Ha trovato, così, il suggello del giudice di legittimità il principio per cui, ai fini della legittimità del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette a una migliore efficienza gestionale ovvero a un incremento della redditività, determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di un’individuata posizione lavorativa. Secondo la Cassazione, la tutela del lavoro garantita dalla Costituzione «non consente di riempire di contenuto l’art. 3 della L. n. 604 del 1966 sino al punto di ritenere precettivamente imposto che, nel dilemma tra una migliore gestione aziendale ed il recesso da un singolo rapporto di lavoro, l’imprenditore possa optare per la seconda soluzione solo a condizione che debba far fronte a sfavorevoli e non contingenti situazioni di crisi». E la ragione per cui non sarebbe consentito riempire di tali contenuti l’art. 3 deve ricercarsi, da un lato, nei confini della tutela costituzionale del lavoro, che non include il diritto alla conservazione del posto, rispetto all’iniziativa economica privata chiaramente proclamata come “libera”; dall’altro, nelle concrete forme di attuazione delle garanzie costituzionali date dalla legislazione ordinaria, tra le quali non si rinviene l’opzione per la tutela della posizione individuale a fronte della scelta imprenditoriale per una più efficiente gestione aziendale.
L’atteggiamento culturale (o forse, più appropriatamente, di forte impronta ideologica) della stessa giurisprudenza lancia consapevolmente il segnale di una ritirata: e infatti si segnala la decisione anche per un altro passaggio peculiare, per l’insistito e ridondante richiamo alla sovrapponibilità del giustificato motivo oggettivo, capace di giustificare il licenziamento, pur quando questo non rappresenti l’extrema ratio, con la libertà di scelta dell’imprenditore. Il che si traduce, in altri termini, nella preclusione di ogni spazio alla valutazione del giudice, che, secondo la costruzione operata, in caso contrario finirebbe inevitabilmente per invadere lo spazio della libera iniziativa economica: «Preoccupata di troncare ogni interpretazione idonea a “trasmoda(re) … nel sindacato sulla congruità e sulla opportunità della scelta imprenditoriale”, non si sofferma sulla portata e sul ruolo delle clausole generali che anzi richiama, essenzialmente, per declamare i limiti al controllo giudiziale posti, in relazione ad esse, dall’art. 30 L. n. 183 del 2010. In tal modo, la sentenza arriva a creare una inaccettabile asimmetria tra le categorie giuridiche rispettivamente di giusta causa/giustificato motivo soggettivo di licenziamento e quella inerente alle ragioni economiche integranti il giustificato motivo oggettivo di recesso»[4].
3. Il giudice e la Corte costituzionale
La lunga stagione dell’emarginazione del ruolo del giudice, la cui funzione di interpretazione, lungi dal costituire il momento di inveramento dei principi d’ordine costituzionale, è stata progressivamente caricaturizzata in fattore di incertezza e di diseconomia, non può dirsi ad oggi ancora tramontata. Di certo i segnali di reazione, per quanto timidi e parziali, si registrano, e vanno sottolineati, anche per l’incoraggiamento autorevolmente attribuito dalla Corte costituzionale.
Un primo, parziale ma significativo riscontro a questa nuova tendenza si rinviene nella decisione con cui il giudice delle leggi ha annullato la disposizione che, da ultimo, aveva proceduto a una ulteriore limitazione del potere valutativo del giudice quanto alla compensazione delle spese processuali, eliminando la facoltà di procedervi in caso di «giusti motivi» e limitando l’ipotesi a due soli casi tassativi.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 77 del 2018, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 92, comma 2, cpc, come modificato dall’art. 13, comma 1, dl n. 132/2014, convertito in l. n. 162/2014, nella parte in cui non prevede che il giudice, in caso di soccombenza totale, possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni, al di fuori delle due ipotesi tassative che erano state previste, ossia l’assoluta novità della questione trattata e il mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti in causa.
La Corte ha enumerato una serie di ipotesi ulteriori e diverse rispetto a quelle espressamente contemplate dall’art. 92, comma 2, cpc, come l’emanazione di una norma di interpretazione autentica o, più in generale, lo ius superveniens, specie se nella forma di norma con efficacia retroattiva, oppure una pronuncia di illegittimità costituzionale, la decisione di una corte europea, una nuova regolamentazione nel diritto dell’Unione europea o altre analoghe sopravvenienze; ha rilevato come tutte queste ipotesi, ove concernenti una «questione dirimente» al fine della decisione della controversia, fossero connotate da «gravità» ed «eccezionalità» pari a quelle tassative indicate dalla disposizione esaminata, così ribadendo la necessità della prudente valutazione del giudice nel caso concreto, tanto più necessaria data l’impossibilità di compilare preventivamente un tassativo elenco di previsioni nominate.
Secondo la Corte, la ratio della deroga al principio della soccombenza, di cui le due ipotesi tassative introdotte nel 2014 costituiscono casi paradigmatici, deve piuttosto ritrovarsi nella non disponibilità per le parti, prima dell’inizio della causa, di elementi che, per essere intervenuti nel corso del giudizio o per caratterizzare una situazione di oggettiva e marcata incertezza, diventano decisivi nel determinare la soccombenza, così finendo per ledere l’affidamento di chi abbia regolato la propria condotta processuale su un quadro di riferimento poi mutato o penalizzando chi, nell’imprevedibilità dell’esito, abbia in ogni caso improntato la propria condotta a buona fede. «Gravi ed eccezionali», nell’accezione della Corte, è quindi una nozione unica con queste alternative o concomitanti caratteristiche. L’imprevedibilità può dipendere dunque anche dalle caratteristiche del caso concreto: ipotesi analoghe a quelle tassativamente previste con l’art. 13 l. n. 162/2014 sono ipotizzabili in altre situazioni di assoluta incertezza «in diritto o in fatto» della lite, parimenti riconducibili a gravi ed eccezionali ragioni.
Se pure, dunque, la Corte non ha voluto argomentare dalla posizione di debolezza economica per introdurre una ragione ulteriore di possibile compensazione delle spese, va detto che la pronuncia affida al giudice di merito, per tutte le controversie – non solo quelle in materia di lavoro –, uno strumento efficace di adeguamento del regolamento delle spese alle peculiarità del caso concreto, ancorato a parametri oggettivi di apprezzamento dell’andamento complessivo del processo, delle modalità con le quali si è svolta l’istruttoria, delle ragioni del rigetto e così via, di cui dar conto (e viene sottolineato) con un’adeguata ed effettiva motivazione, in modo da evitare penalizzazioni irrazionali che creino ostacoli all’accesso alla tutela giurisdizionale e, nel contempo, un lassismo che agevoli un ingiustificato incremento del contenzioso.
Non solo, ma pur evidenziando che, tendenzialmente, le circostanze che possono integrare le ragioni gravi ed eccezionali hanno carattere oggettivo, non è escluso che, sempre per le caratteristiche specifiche del caso concreto, anche condizioni soggettive possano essere rilevanti, sempreché non si risolvano nel solo fatto di essere la parte economicamente svantaggiata del rapporto e incidano sulla posizione processuale in cui si è venuto a trovare il lavoratore.
Il secondo, ma forse ancora più saliente, marcatore di questa inversione di rotta si coglie nella più famosa e significativa pronuncia (sentenza n. 194) con la quale, l’8 novembre 2018, la Corte ha messo nel nulla uno dei punti qualificanti del Jobs Act, del quale sopra si diceva: quell’automatismo, nella quantificazione del risarcimento da riconoscere in caso di licenziamento, basato sul solo parametro dell’anzianità lavorativa, tale da consentire al datore di lavoro di conoscere con precisione in anticipo il costo dell’illegittima risoluzione del vincolo contrattuale.
La sentenza contiene alcune affermazioni di principio di cui il legislatore, anche in futuro, non dovrebbe più trascurare la portata e le implicazioni. Pur ribadendo le precedenti affermazioni circa l’assenza di una copertura costituzionale al diritto alla reintegra nel posto di lavoro, la Corte ribadisce che, in base agli artt. 4 e 35 Cost., la materia dei licenziamenti individuali deve ritenersi regolata secondo il principio della necessaria giustificazione del recesso. Il complesso delle garanzie costituite dal «diritto al lavoro» e dalla tutela che al lavoro «in tutte le sue forme ed applicazioni» la Carta assicura, si sostanzia nel riconoscere che i limiti al potere di recesso datoriale «correggono un disequilibrio di fatto esistente nel contratto di lavoro. Il forte coinvolgimento della persona umana – a differenza di quanto accade in altri rapporti di durata – qualifica il diritto del lavoro come diritto fondamentale, cui il legislatore deve guardare per apprestare specifiche tutele».
Si riscopre, in questo passaggio, tutta l’ispirazione lavoristica che ha guidato i Padri costituenti nel costruire l’impianto della nostra Carta. Nel rapporto di lavoro, pur riconoscendo il massimo valore alla libertà d’impresa di cui all’art. 41, comma 1, Cost. (che, però, trova limite nella previsione del secondo comma dello stesso articolo), il nostro sistema avverte ancora l’essenzialità di una tutela che si rivolga alla parte più debole: e se pure spetta alla discrezionalità del legislatore l’individuazione della natura e dell’entità del ristoro a fronte di un licenziamento illegittimo (tant’è che, in precedenti occasioni, è stato fatto salvo un sistema di risarcimento forfettizzato in termini meramente economici)[5], il rimedio ideato dalla legge non può sottrarsi a un vaglio di ragionevolezza.
I giudici costituzionali, quindi, affermano innanzitutto che il meccanismo introdotto dal Jobs Act viola il principio di uguaglianza, laddove si limita a considerare solo il criterio dell’anzianità al fine della quantificazione del risarcimento, perché così si trascura che il pregiudizio prodotto dal licenziamento dipende da una pluralità di fattori: dunque, solo l’esercizio della discrezionalità del giudice può rispondere all’esigenza di personalizzazione del danno subito dal lavoratore.
E ancora: la previsione di cui all’art. 3, comma 1, d.lgs n. 23/2015, nella parte in cui determina l’indennità in un importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione per ogni anno di servizio, contrasta altresì con il principio di ragionevolezza, sotto il duplice profilo dell’inidoneità della stessa a costituire un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore, soprattutto in caso di minore anzianità, e della mancanza di capacità dissuasiva nei confronti del datore di lavoro a licenziare illegittimamente.
Il risarcimento, ancorché non necessariamente riparatorio dell’intero pregiudizio subito dal danneggiato, deve essere necessariamente equilibrato e realizzare un adeguato contemperamento degli interessi in conflitto: ciò non può avvenire se non a seguito di una ponderata valutazione che riguardi una pluralità di elementi (comprendenti, ovviamente, anche l’anzianità di servizio), già a loro volta desumibili da altre previsioni legislative in vigore nel nostro ordinamento (quali, esemplificativamente, il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell’attività economica, il comportamento e le condizioni delle parti). Solo così, attraverso la valutazione comprensiva operata dal giudice (anche a seguito delle necessarie allegazioni processuali della parte), potrà trovare adeguata tutela quel diritto al lavoro che, come ricorda la Corte, comporta la garanzia dell’esercizio nei luoghi del lavoro di altri diritti fondamentali costituzionalmente garantiti, quali le espressioni della libertà sindacale, politica e religiosa, a cui fatalmente il lavoratore potrebbe essere indotto a rinunciare per il timore di un licenziamento privo di tutele e di garanzie effettive e significative.
La sentenza n. 194 coglie e riassume in sé alcuni dei tratti caratterizzanti la specialità del diritto del lavoro, ribaditi e riaffermati nonostante la profonda trasformazione subita dal sistema a seguito di una serie incalzante e unidirezionale di interventi di riforma: la tutela che al lavoro la nostra Costituzione accorda dipende dalla natura del diritto del lavoro quale diritto fondamentale, in quanto di per sé comporta un forte coinvolgimento della persona e un sensibile condizionamento della sua esistenza. Il legislatore, nella scelta delle tutele che spettano in caso di licenziamento illegittimo, non può ignorare che il risarcimento di natura economica deve comunque risultare adeguato alla portata del danno e capace di esercitare una concreta misura dissuasiva. Il giudice è il soggetto chiamato – per collocazione istituzionale – a valutare il rispetto dei canoni di adeguatezza e di proporzionalità, pur in un range prefissato in base a una valutazione generale effettuata dal legislatore medesimo.
4. Il ruolo del giudice nell’epoca della trasformazione del diritto del lavoro
Sono ancora tante, dunque, le ragioni per il mantenimento nel nostro ordinamento di una figura come quella del giudice del lavoro, e di uno strumento processuale come quello introdotto nel 1973: lo dimostrano le affermazioni contenute nelle sentenze della Corte costituzionale sopra richiamate, accomunate dalla palese rilevanza che alle sue capacità valutative viene attribuita al fine di trovare la “regola del caso concreto”.
Lungi dal voler sostenere la necessità di una figura capace di sostituirsi alla discrezionalità imprenditoriale (per quanto si stiano facendo largo ipotesi di normativa, in specie di derivazione europea, e di matrice antidiscriminatoria, che al giudice chiedono la valutazione nel merito dell’esercizio del potere di scelta imprenditoriale e la sostituzione allo stesso, in caso di accertata discriminatorietà, nei confronti di alcune categorie protette), pur dopo un percorso che ha evidentemente scardinato lo schema tipico del rapporto di lavoro (subordinato, a tempo indeterminato, tra il soggetto detentore dei mezzi di produzione e l’esecutore della prestazione lavorativa), risulta tuttora irrinunciabile la figura di un arbitro non soltanto in grado di fornire la soluzione tecnicamente corretta, ma consapevole anche della portata del conflitto che gli si presenta.
Il lavoro resta infatti, secondo le considerazioni dei giudici delle leggi, un diritto fondamentale, perché il lavoro è parte essenziale dell’intera esistenza del soggetto che è chiamato a prestarlo: e le nuove forme di lavoro, spersonalizzate e affidate alla gestione degli algoritmi delle piattaforme informatiche, non scampano a questo suo tratto ineludibile e insopprimibile.
Per questo ancora oggi, e non meno di ieri, occorre un giudice del lavoro sensibile, colto, curioso, consapevole della irrinunciabilità di tutele che, comunque, rispondano ai principi costituzionali di cui agli artt. 4 e 35.
Un modello che, nell’esempio di Carlo Verardi, trova ancora oggi un riferimento prezioso e presente. Per noi, che abbiamo avuto il dono di conoscerlo e di apprezzarne le doti uniche e insuperabili; per i più giovani, a cui abbiamo il dovere di trasmettere quello che Carlo ci ha generosamente dato.
[1] A. Perulli, Il contratto a tutele crescenti e la Naspi: un mutamento di “paradigma” per il diritto del lavoro?, in L. Fiorillo e A. Perulli (a cura di), Contratto a tutele crescenti e Naspi, Giappichelli, Torino, 2015, pp. 3 ss.
[2] R. Sanlorenzo, I limiti al controllo del giudice in materia di lavoro, in F. Amato e S. Mattone (a cura di), La controriforma della giustizia del lavoro, Franco Angeli, Milano, 2011, pp. 23 ss.
[3] Cass., n. 25201/2017, su cui C. Ponterio, Il nuovo orientamento della Cassazione sul licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in questa Rivista online, 8 febbraio 2017, www.questionegiustizia.it/articolo/il-nuovo-orientamento-della-cassazione-sul-licenziamento-per-giustificato-motivo-oggettivo_08-02-2017.php.
[4] C. Ponterio, ibid.
[5] Corte cost., n. 303/2011, in materia di risarcimento per nullità del contratto a termine.