Il rapporto giudice e legge e la gestione condivisa del “servizio” giustizia
1. Premessa
Illustrare il rapporto giudice e legge e la gestione condivisa del “servizio” giustizia, e ricordare Carlo Verardi nelle pagine della Rivista di Magistratura democratica potrebbe significare ripercorrere la nascita degli Osservatori della giustizia a Bologna, a Bari e a Salerno, rievocare l’attenzione attribuita ai provvedimenti meramente ordinatori, insindacabili in sede di impugnazione, alla organizzazione degli uffici, alla formazione comune dei magistrati, degli avvocati, del personale delle cancelleria; richiamare la prima elaborazione di una cultura comune, non limitata soltanto ai meccanismi processuali o ad immaginarne di nuovi, ma attenta all’effettivo funzionamento del processo civile quale strumento per la tutela non solo dei diritti astratti, ma delle persone. Potrebbe significare, appunto, richiamare alla memoria quel periodo fecondo, nel quale si è tentato di porre le persone al centro dell’analisi e dell’esperienza giuridica.
Potrebbe anche significare ripercorrere i successivi sviluppi: dal primo convegno degli Osservatori senza Carlo, nel novembre 2002, a Reggio Calabria, sull’applicazione dell’art. 47-quater ordinamento giudiziario; alla prima «assemblea aperta» sulle prassi applicative, nel dicembre 2003, a Roma; al convegno di Alghero del 2004, nel corso del quale, non senza contrasti, fu presentato un progetto di riforma del processo, diventato poi la base della legge n. 69/2009; fino all’incontro di Firenze del 2006, al quale sono succedute, con cadenza annuale, le assemblee degli Osservatori della giustizia civile.
Potrebbe significare anche ricordare il quadro normativo nel quale le esperienze degli Osservatori della giustizia civile si sono sviluppate: le speranze suscitate dalle riforme del 1990 e 1991, tenute a lungo nel cassetto nel declino della prima Repubblica ed entrate in vigore, con non secondarie modifiche, nella primavera-estate del 1995, all’inizio della seconda Repubblica. E ricordare, poi, la frenesia legislativa che ha caratterizzato l’esperienza giuridica italiana dal 2001 a oggi. Potrebbe significare tentare di immaginare le reazioni di Carlo alle ripetute ondate dello tsunami normativo che si abbatte periodicamente sulla giustizia civile; a quanto avrebbe potuto dire o scrivere, schivo come era, sul susseguirsi di interventi, sovente di mera immagine, e sull’esigenza di orientare l’attenzione sul funzionamento effettivo del processo, piuttosto che impiegare risorse nel dibattito sulle riforme.
Ricordare Carlo, e quanto è avvenuto negli ormai diciotto anni da quando non è più con noi, potrebbe anche significare dare conto delle esperienze che si sono sviluppate al di fuori degli Osservatori della giustizia civile, ma che comunque sono collegate al principio di effettività, all’esigenza di costruire un confronto tra tutti gli operatori della giustizia nell’ambito di una formazione comune. Basti pensare all’esperienza dei Dialogoi, al «Progetto esecuzioni», al ricorso nell’interesse della legge, ai sensi dell’art. 363 cpc, e ad altre esperienze di “giustizia condivisa”.
Ciascuno di questi aspetti o profili, tuttavia, è stato altrove analizzato e approfondito[1].
Il rapporto fra giudice e legge e la gestione condivisa del servizio giustizia, nel ricordo di Carlo Verardi, può implicare anche la rilettura di testi ampiamente noti (e perciò privi di specifiche indicazioni) in funzione di una rimeditazione sul significato di ciascuno di essi nell’esperienza quotidiana di operatori della giustizia.
2. Pericle
«Qui ad Atene noi facciamo così.
Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza.
Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento.
Qui ad Atene noi facciamo così.
La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo.
Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo.
Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa.
E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benché in pochi siano in grado di dare vita a una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla.
Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia.
Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore.
Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versatilità, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero.
Qui ad Atene noi facciamo così».
3. Luciano Canfora e Umberto Eco
Luciano Canfora:
«I più sono ancora convinti che Atene democratica e Pericle siano sinonimi. Eppure il più grande storico di Atene, oltre che contemporaneo e ammiratore di Pericle, scrisse che il suo regime era stato in realtà una “democrazia solo a parole, di fatto un regime personale”. (…) Sarà stata una ragione extra-politica, per esempio, un’imponente strategia di opere pubbliche e di coinvolgimento degli artisti – nel che Pericle fu maestro per i politici di ogni tempo – a salvaguardare il buon nome e la lunga durata di un leader che gli avversari non esitarono a bollare come tiranno? Cercare di capire i meccanismi del lungo predominio politico e culturale di Pericle, e il compromesso tra demagogia, potere personale e di clan che stava alla sua base, è un passaggio obbligato per intendere non soltanto l’età classica, ma anche il nocciolo di ogni sistema politico».
Umberto Eco:
«Il discorso di Pericle (riportato da Tucidide, in Guerra del Peloponneso) è stato inteso nei secoli come un elogio della democrazia, e in prima istanza è una descrizione superba di come una nazione possa vivere garantendo la felicità dei propri concittadini, lo scambio delle idee, la libera deliberazione delle leggi, il rispetto delle arti e dell’educazione, la tensione verso l’uguaglianza. Ma che dice in realtà Pericle? (…)
Come discorso populista non è male, salvo che Pericle non menziona il fatto che in quei tempi ad Atene c’erano, accanto a 150.000 abitanti, 100.000 schiavi. E non è che fossero solo barbari catturati nel corso di varie guerre, ma anche cittadini ateniesi. Infatti una delle leggi di Solone stabiliva di togliere dalla schiavitù i cittadini diventati servi a causa dei debiti verso i latifondisti. Segno che erano servi anche altri cittadini, caduti in schiavitù per altri motivi. (…). Ma andiamo avanti. A che cosa mira questo elogio della democrazia ateniese, idealizzata al massimo? A legittimare l’egemonia ateniese sugli altri suoi vicini greci e sui popoli stranieri. Pericle dipinge in colori affascinanti il modo di vita di Atene per giustificare il diritto di Atene a imporre il proprio dominio sugli altri popoli dell’Ellade (…). Segue l’elogio militare degli ateniesi che combattono sempre bravamente per difendere la loro terra. Pericle si dimentica di rilevare che (e proprio sotto il suo governo) erano stati riconosciuti come cittadini ateniesi solo coloro che avevano tutti e due i genitori ateniesi. Quindi c’erano gli schiavi, i veri cittadini ateniesi e i meteci, qualcosa come degli extracomunitari con diritto di soggiorno, che non erano cittadini a pieno diritto e non potevano votare – anche se tra coloro possiamo annoverare personaggi come Ippocrate, Anassagora, Protagora, Polignoto, Lisia o Gorgia.
Ma non è finita: “Non ci procuriamo gli amici ricevendo benefici, ma facendone. Dunque chi fa un favore è un amico più sicuro, tanto da conservare il favore dovuto grazie alla riconoscenza di colui al quale egli l’ha dato”. Il che francamente mi sembra un principio mafioso».
4. Blaise Pascal
«È giusto che quel che è giusto sia seguito, è necessario che quel che è più forte sia seguito. La giustizia senza la forza è impotente: la forza senza la giustizia è tirannica. La giustizia senza la forza è contraddetta, perché ci sono sempre dei malvagi; la forza senza la giustizia è accusata. Bisogna dunque riunire la giustizia e la forza; e perciò fare in modo che quel che è giusto sia forte, e quel che è forte sia giusto.
La giustizia è soggetta a contestazione; la forza è subito riconoscibile e senza dispute.
Perciò non si è potuta dare la forza alla giustizia, poiché la forza l’ha contrastata definendola ingiusta, e affermando che essa sola era giusta. E così, non potendo fare in modo che quel che è giusto fosse forte, si è fatto in modo che quel che è forte fosse giusto».
5. Friedrich Dürrenmatt
«(...) che l’uno si avventi sull’altro, che tra gli esseri umani domini la guerra, che ognuno cerchi di imporsi e di accrescere i suoi beni e il suo potere a spese degli altri, il borghese classico, essendo un realista, lo accetta come un fatto naturale: homo homini lupus. Tuttavia, affinché gli egoismi degli uomini non portino a una guerra di tutti contro tutti, ogni lupo si è impegnato a osservare determinate regole del gioco nei confronti degli altri lupi».
6. Robert Paul Wolff
«La democrazia pluralista si contrappone alla democrazia classica di tipo liberale, e in realtà somiglia stranamente alla società feudale, nella quale l’individuo esercitava un ruolo politico solamente in quanto membro di una corporazione, di una città libera, di una chiesa o di una classe sociale, e non in quanto individuo sic et simpliciter. Come nella società feudale, così anche nella democrazia pluralista il principio non è: “un uomo, un voto”, ma piuttosto: “a ogni gruppo legittimo la sua parte” (…).
Sull’altipiano si trovano tutti i gruppi d’interesse che sono riconosciuti e legittimi; nella profonda valle tutt’intorno si trovano gli outsider, i gruppi ai margini che sono disprezzati e scherniti come “estremisti”. La battaglia più importante che ogni gruppo ha dovuto combattere è stata quella per arrampicarsi ed entrare nell’altipiano. Una volta giuntovi, ogni gruppo può contare di ottenere una qualche parte di ciò che desidera».
7. Matteo, 7, 21-29
«Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli».
8. Il diritto “vivente” in Italia
Cassazione, sezioni unite civili, 29 maggio 2008, n. 14201, Pres. Vincenzo Carbone, est. Mario R. Morelli:
«(…) il fatto, vale a dire, che non esista, allo stato, una sicura ed esplicita consuetudine internazionale per cui il principio dell’immunità dello Stato straniero dalla giurisdizione civile per gli atti dal medesimo compiuti iure imperii (tra i quali innegabilmente rientrano anche quelli, in particolare, relativi alla conduzione delle attività belliche: cfr. sez. un. 8157/02) possa ritenersi derogato a fronte di atti di gravità tale da configurarsi come “crimini contro l’umanità” (…) sarebbe a dir poco “incongruo” che la giurisdizione civile, che l’ordinamento internazionale già consente di esercitare nei confronti dello Stato straniero in caso di violazioni, ad esso addebitabili, di obbligazioni negoziali, resti, invece, esclusa a fronte di ben più gravi violazioni, quali quelle costituenti crimini addirittura contro l’umanità, e che segnano anche il punto di rottura dell’esercizio tollerabile della sovranità».
Corte costituzionale, 22 ottobre 2014, n. 238, Pres. ed est. Giuseppe Tesauro:
«Non v’è dubbio, infatti, ed è stato confermato a più riprese da questa Corte, che i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona costituiscano un “limite all’ingresso (…) delle norme internazionali generalmente riconosciute alle quali l’ordinamento giuridico italiano si conforma secondo l’art. 10, primo comma della Costituzione” (…) [F]ra i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale vi è il diritto di agire e di resistere in giudizio a difesa dei propri diritti riconosciuto dall’art. 24 Cost., in breve il diritto al giudice. A maggior ragione, poi, ciò vale quando il diritto in questione è fatto valere a tutela dei diritti fondamentali della persona.
(…) il diritto alla tutela giurisdizionale “è tra quelli inviolabili dell’uomo, che la Costituzione garantisce all’art. 2, come si arguisce anche dalla considerazione che se ne è fatta nell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo” (punto 2. del Considerato in diritto). In una meno remota occasione, questa Corte non ha esitato ad ascrivere il diritto alla tutela giurisdizionale “tra i principi supremi del nostro ordinamento costituzionale, in cui è intimamente connesso con lo stesso principio di democrazia l’assicurare a tutti e sempre, per qualsiasi controversia, un giudice e un giudizio” (sentenze n. 18 del 1982, nonché n. 82 del 1996).
D’altra parte, in una prospettiva di effettività della tutela dei diritti inviolabili, questa Corte ha anche osservato che “al riconoscimento della titolarità di diritti non può non accompagnarsi il riconoscimento del potere di farli valere innanzi ad un giudice in un procedimento di natura giurisdizionale”: pertanto, “l’azione in giudizio per la difesa dei propri diritti (…) è essa stessa il contenuto di un diritto, protetto dagli articoli 24 e 113 della Costituzione e da annoverarsi tra quelli inviolabili e caratterizzanti lo stato democratico di diritto” (sentenza n. 26 del 1999, nonché n. 120 del 2014, n. 386 del 2004 e n. 29 del 2003). Né è contestabile che il diritto al giudice ed a una tutela giurisdizionale effettiva dei diritti inviolabili è sicuramente tra i grandi principi di civiltà giuridica in ogni sistema democratico del nostro tempo».
Cassazione, sezioni unite civili, 15 febbraio 2011, n. 3670, Pres. Vittoria, est. Piccialli:
«In tema di tutela avverso atti o comportamenti discriminatori per motivi di razza o di origine etnica, ovvero posti in essere quale reazione ad una qualsiasi attività diretta ad ottenere la parità di trattamento, sussiste la giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria (…) a nulla rilevando che il dedotto comportamento discriminatorio consista nell’emanazione di un atto amministrativo; né ciò giustifica dubbi sulla legittimità costituzionale della normativa in discorso, (…) giacché in tale ipotesi il giudice ordinario deve limitarsi a decidere la controversia valutando il provvedimento amministrativo denunziato, disattendendolo, tamquam non esset, e adottando i conseguenti provvedimenti idonei a rimuoverne gli effetti, ove confermato lesivo del principio di non discriminazione od integrante gli estremi della illegittima reazione».
9. Friedrich Schiller
«(...)
Wem der große Wurf gelungen,
Eines Freundes Freund zu sein,
Wer ein holdes Weib errungen,
Mische seine Jubel ein!
Ja - wer auch nur eine Seele
Sein nennt auf dem Erdenrund!
Und wer’s nie gekonnt,
der stehle Weinend sich aus diesem Bund!
(...)»[2].
10. Thomas Mann
«Profondo è il pozzo del passato, non dovremmo dirlo insondabile? Questo anche, e forse allora più che mai, quando si parla e discute del passato dell’uomo: di questo essere enigmatico che racchiude in sé la nostra esistenza per natura gioconda, ma oltre natura misera e dolorosa. (…) l’insondabile si diverte a farsi gioco della nostra passione indagatrice, offre mete e punti d’arrivo illusori, dietro cui, appena raggiunti, si aprono nuove vie del passato, come succede a chi, camminando sulla riva del mare, non trova mai termine al suo cammino, perché dietro ogni sabbiosa quinta di dune, a cui voleva giungere, altre ampie distese lo attraggono più avanti verso altre dune».
11. Carlo Emilio Gadda, Elsa Morante
Carlo Emilio Gadda:
«Li associati cui per più d’un ventennio è venuto fatto di poter taglieggiare a lor posta e coprir d’onta la Italia, e precipitarla finalmente a quella ruina e in quell’abisso ove Dio medesimo ha paura guatare, pervennero a dipingere come attività politica la distruzione e la cancellazione della vita, la obliterazione totale dei segni della vita. Ogni fatto o atto della vita e della conoscenza è reato per chi fonda il suo imperio sul proibire tutto a tutti, coltello alla cintola.
(…) Una istrombazzata di parole senza costrutto, ch’erano i rutti magni di quel furioso babbèo, la risarciva de’ contributi sindacali “in continuo e promettente sviluppo”, cioè via via magnificati alla chetichella “per legge”, o “per decreto-legge”, cioè ad arbitrio d’un tratto di penna di essi despoti. La Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia abbozzava: ingollava e defecava la legge».
Elsa Morante:
«Così un uomo mediocre, grossolano, di eloquenza volgare ma di facile effetto, è un perfetto esemplare dei suoi contemporanei. Presso un popolo onesto, sarebbe stato tutt’al più il leader di un partito di modesto seguito, un personaggio un po’ ridicolo per le sue maniere, i suoi atteggiamenti, le sue manie di grandezza, offensivo per il buon senso della gente e causa del suo stile enfatico e impudico.
In Italia è diventato il capo del governo».
12. Virgilio Andrioli
«[L]a lunga notte della giustizia minaccia di procrastinarsi a date indefinite; più precisamente, le speranze dell’aurora sono affidate alla volontà interpretativa di singoli operatori pratici (magistrati e difensori), solleciti di preservare il minimum di valori, riuscito indenne dalla edace opera dei controriformatori e, ancora più a monte, all’insegnamento di quei docenti, che ravvisano lo scopo del processo civile nella risoluzione dei casi concreti e non nella prospettazione e nello scioglimento di questioni di diritto, tanto eleganti quanto astratte, e credono nella collaborazione fra giudici e parti nella gestione della giustizia».
13. Jorge Luis Borges
«Un uomo che coltiva il suo giardino, come voleva Voltaire.
Chi è contento che sulla terra esista la musica.
Chi scopre con piacere una etimologia.
Due impiegati che in un caffè del Sur giocano in silenzio agli scacchi.
Il ceramista che premedita un colore e una forma.
Il tipografo che compone bene questa pagina che forse non gli piace.
Una donna e un uomo che leggono le terzine finali di un certo canto.
Chi accarezza un animale addormentato.
Chi giustifica o vuole giustificare un male che gli hanno fatto.
Chi è contento che sulla terra ci sia Stevenson.
Chi preferisce che abbiano ragione gli altri.
Tali persone, che si ignorano, stanno salvando il mondo».
14. Qualche considerazione finale
Nei diciotto anni trascorsi in assenza dei contributi di Carlo Verardi, i principi e i valori sottesi al rapporto tra giudice e legge e alla gestione condivisa del “servizio” giustizia sono stati spesso invocati, sovente attaccati, talvolta traditi.
Nel quadro che possono evocare alla emozione di ciascuno i brani sopra riportati, occorre ribadire che la sede per la difesa e l’attuazione di quei principi e di quei valori è il processo.
L’esercizio della giurisdizione è esercizio di sovranità, ma implica la soggezione alla legge.
Ai sensi dell’art. 1, comma 2, Cost., «La sovranità appartiene al popolo» e, ai sensi dell’art. 101, comma 1, Cost., «La giustizia è amministrata in nome del popolo». Sennonché, ai sensi del successivo capoverso, «I giudici sono soggetti soltanto alla legge».
L’antinomia tra gli artt. 1, comma 2, e 101, comma 1, Cost., da una parte, e 101, comma 2, Cost., dall’altra, implica che, per un verso, il processo «giusto» deve offrire tutte le garanzie previste dalla Costituzione e dalle convenzioni internazionali; per altro verso, che i controlli sulla correttezza della decisione non possono che essere interni al processo e, quindi, il provvedimento «giusto» è quello non più impugnabile[3].
Prescindendo dal diritto di critica, è insindacabile, al di fuori del processo, vuoi l’attività di interpretazione di norme di diritto, vuoi quella di valutazione del fatto e delle prove (Cass., sez. unite, 3 maggio 2019, n. 11747).
Dispongono in tal senso sia l’art. 2, comma 2, l. 13 aprile 1988, n. 117, novellata dalla l. 27 febbraio 2015, n. 18, sulla responsabilità civile dei magistrati, sia l’art. 2, comma 2, d.lgs 23 febbraio 2006, n. 109, sulla responsabilità disciplinare.
Nel vigente sistema costituzionale, l’esercizio della giurisdizione da parte di tutti i giudici (ordinari e speciali, togati e onorari), che devono essere precostituiti dalla legge, autonomi e indipendenti, implica la soggezione soltanto alla legge, cosicché l’interpretazione di questa e la valutazione dei fatti e delle prove possono essere valutate soltanto nel processo, che deve essere «giusto».
L’autonomia e l’indipendenza della magistratura, affinché i giudici possano esercitare la sovranità sullo stesso piano degli altri poteri dello Stato e trasformare in norme i testi legislativi, implicano che sia garantito et quidem garantito effettivamente lo svolgimento dei processi.
Il governo della magistratura non riguarda soltanto il ruolo di quest’ultima rispetto agli altri poteri dello Stato; investe il problema del ruolo della medesima, quale custode della legalità nel quadro costituzionale, richiamando la nota questione “quis custodiet custodes?”.
Il che conduce il discorso al nodo più complesso, perché il potere politico è regolato dalla logica dell’appartenenza, mentre questa deve (o dovrebbe) essere estranea all’«ordine» giudiziario.
Parafrasando la nota affermazione di Voltaire, il potere politico dovrebbe dire alla magistratura: “odio quello che fai, ma difenderò fino alla morte il diritto di farlo e ti fornirò i mezzi per farlo”.
Il che non sempre avviene, cosicché occorre riconoscere che anche la questione dei rapporti tra la magistratura nel suo complesso e gli altri poteri dello Stato, al pari di quella dei confini della giurisdizione, è una questione che si presta a essere correttamente esaminata in riferimento alla concreta disciplina del processo.
Soltanto in questo ambito, infatti, si può verificare l’effettivo funzionamento delle garanzie fondamentali della giurisdizione.
In questa prospettiva, sono estranee al tema della giurisdizione le questioni relative alla responsabilità disciplinare, alla responsabilità civile e alla responsabilità contabile del giudice, nonché le suggestioni sull’applicazione all’attività giurisdizionale dell’art. 323 cp sull’abuso d’ufficio. Ciò non solo in base a quanto espressamente stabilito dagli artt. 2, comma 2, l. 13 aprile 1988, n. 117 (novellata dalla l. 27 febbraio 2015, n. 18), e 2, comma 2, d.lgs 23 febbraio 2006, n. 109, ma soprattutto perché la tutela giurisdizionale dei diritti deve (e non può non) trovare una risposta all’interno del processo e non al di fuori di esso.
La responsabilità disciplinare, civile, contabile, nonché quella penale, ai sensi dell’art. 323 cp, implica, nei diversi ambiti, il tradimento della giurisdizione e, in questa prospettiva, giustifica l’uso di mezzi esterni al processo e l’applicazione di sanzioni nei confronti del giudice che ha tradito il suo compito e le sue funzioni.
Si può, dunque, parafrasare, nel doloroso rimpianto di un amico prematuramente scomparso, l’ultimo verso della poesia di Jorge Luis Borges e ritenere che coloro che si occupano del concreto funzionamento del processo per la tutela effettiva dei diritti, anche se si ignorano, tentano di salvare il mondo.
[1] Si rinvia, anche per indicazioni sul dibattito in corso su tali profili, agli scritti più recenti ad essi dedicati dall’Autore: Tutela dei diritti e regole del processo. Introduzione al XXXI Congresso della A.I.S.P.C., in Riv. dir. proc., 2017, p. 1418, e in Atti del XXXI Convegno nazionale – Padova 29-30 settembre 2017, 2019, pp. 21 e 533; Appunti sulla nomofilachia e sulle «nomofilachie di settore», in Riv. dir. proc., 2018, p. 1443; Note sui dialoghi in tema di principio di diritto nell’interesse della legge e di contrasti di giurisprudenza, denunciati e non, in Riv. dir. proc., 2017, p. 712; La delega al professionista ex art. 591 bis c.p.c. a (quasi) venti anni dal suo esordio, in F. Di Ciommo e O. Troiano (a cura di), Giurisprudenza e autorità indipendenti nell’epoca del diritto liquido. Studi in onore di Roberto Pardolesi, La Tribuna-Il Foro Italiano, Piacenza-Roma, 2018, p. 207, e in Aa. Vv., Rassegna dell’esecuzione forzata, n. 1/2019, pp. 51 ss.
[2] «Chi ha avuto il grande successo
Di essere amico di un amico,
Chi ha una donna leggiadra,
Mescoli i suoi applausi.
Sì – chi conosce anche un’anima
su tutta la superficie della terra!
Chi non ha mai conosciuto tutto ciò,
si allontani piangente da questa compagnia».
[3] A. Segni, Della tutela giurisdizionale dei diritti, in A. Scialoja e G. Branca (a cura di), Commentario del codice civile, Zanichelli – Il Foro Italiano, Bologna – Roma, 1959, sub art. 2909.