L‘analisi dell’art. 3 della L. Balduzzi non può prescindere da un approccio sistematico, nonché dall’analisi del “segmento” penale della fattispecie.
Partiamo dai dati oggettivi, ricavabili dalla lettura del dato testuale della norma o individuati in via interpretativa.
Sono agevolmente enucleabili delle limitazioni del suo ambito operativo.
In primis, la stessa, anche ai fini della responsabilità civile, si deve ritenere applicabile solo alle ipotesi di imperizia lieve. Infatti, come evidenziato, in maniera univoca, dalla giurisprudenza di legittimità penale, ed, in particolare, dalla Cassazione penale n. 11493 del 24 gennaio 2013, proprio in relazione alla fattispecie de qua, “la citata disposizione obbliga, infatti, a distinguere fra colpa lieve e colpa grave, solo limitatamente ai casi nei quali si faccia questione di essersi attenuti a linee guida e solo limitatamente a questi casi viene forzata la nota chiusura della giurisprudenza che non distingue fra colpa lieve e grave nell'accertamento della colpa penale. Tale norma non può, invece, involgere ipotesi di colpa per negligenza o imprudenza, perché, come sopra sottolineato, le linee guida contengono solo regole di perizia”[1].
E’ evidente la coerenza sistematica che tale soluzione interpretativa viene a garantire con il significato precettivo di cui all’art. 2236 c.c., quale rimodulato dalla giurisprudenza del Giudice delle Leggi.
Infatti, la C.C. n. 166 del 28 novembre 1973 ha affermato la non punibilità del medico – per colpa lieve – in caso di “speciale difficoltà”, soltanto ove si tratti di imperizia, non quando si tratti di negligenza ed imprudenza.
Quanto al rapporto tra le due fattispecie, l’art. 3, diversamente dalla norma del codice del ’42, non contempla le ipotesi di speciale difficoltà.
Anche a voler superare il suddetto dato interpretativo – e non si comprende come ciò sia possibile, senza violare la coerenza del sistema, nonché la funzione di nomofilachia della Suprema Corte – non può ritenersi che l’art. 3 del decreto trovi applicazione al di fuori dell’ipotesi di colpa lieve.
In tal senso, depone il dato normativo.
In ogni caso, e tale aspetto è condiviso anche dalla tesi “contrattuale”, sposata da una sezione del Tribunale di Milano, oltre che dal Tribunale di Varese, la norma de qua si applica solo al medico e non anche alla struttura sanitaria.
In ultimo, la fattispecie de qua, in virtù del divieto di retroattività di cui all’art. 11 delle preleggi, non ha carattere retroattivo.
Orbene, la norma, successivamente alla sua entrata in vigore, ha destato plurime interpretazioni[2].
Per taluni, il legislatore speciale avrebbe voluto optare per il modello aquiliano. Si afferma, a tal riguardo, che il Legislatore, in presenza di una determinata scelta interpretativa del diritto vivente, potrebbe esprimere un’opzione anche implicita.
Ciò, diversamente dall’ipotesi in cui ricorra una norma di diritto positivo specifica e puntuale, la cui modifica richiederebbe necessariamente un intervento normativo espressoe ad hoc.
I sostenitori della tesi “contrattuale” - che disconoscono qualunque capacità di innovazione alla norma de qua sotto il profilo qualificatorio - invocano una svista o sciatteria legislativa che avrebbe dato luogo ad un riferimento solo esemplificativo, e non esaustivo alla tipologia di rimedi azionabili.
Tale tesi – avallata, seppur con motivazione succinta, dalla stessa Suprema Corte, con ordinanza del 17 aprile 2014 (est. Frasca) - troverebbe conferma nel testo originario della norma che fa riferimento agli artt. 2236 e 1176 c.c. quali nome regolative della responsabilità, non aquiliana, ma ex contractu.
A fronte di tali plurime opzioni esegetiche, s’impone l’interrogativo se il diritto possa e, anzi, debba essere suscettibile di un’interpretazione “socialmente orientata”; e, cioè, se sia possibile e doveroso che l’interprete, fra più opzioni esegetiche, prediliga quella che, oltre ad essere costituzionalmente conforme, dia risposta più in linea con il “sentire sociale”, nei limiti in cui lo stesso codifichi esigenze di tutela compatibili con il sistema, meritevoli di tutela.
Occorre muovere dal contesto interpretativo di riferimento in cui è intervenuto il Decreto Balduzzi.
In primis, la responsabilità medica era stata attinta dalle S.u. 13533 del 2001, in materia di onere della prova.
Prima dell’intervento chiarificatore della suddetta pronuncia, l’onere della prova mutava a secondo che venisse in rilievo un intervento routinario – salva la difficoltà di comprendere come sostanziare tale qualificazione, ovvero, se riconoscere rilievo al grado di alea oppure di difficoltà tecnica dell’intervento chirurgico, o, in alternativa, all’esistenza di pratiche operative e di standard più o meno diffusi - nel quale caso il paziente doveva dimostrare la routinarietà; e gli inteventi non routinari, nel quale caso il paziente doveva dimostrare, per contro, l’errore medico.
Dopo le Su del 2001, che accolgono una concezione unitaria dell’adempimento, l’onere della prova viene per così dire “omologato”, divenendo uniforme, a prescindere dalla tipologia di obbligazione che venisse in rilievo o dal suo oggetto, con l’unica eccezione delle obbligazioni negative.
E la Suprema Corte (Cass. 2013) aveva avuto la cura di precisare come la responsabilità medica non facesse eccezione e non rispondesse a regole probatorie sue proprie, diverse e specifiche rispetto a quelle conformative dell’inadempimento di ogni altra obbligazione.
Per contro, la distinzione tra intervento routinario e non routinario, dopo tale approdo interpretativo, conserva rilievo non ai fini dell’onere della prova del paziente - che deve solo allegare l’errore e che è, dunque, indifferenziato -, ma ai fini dell’onere della “controprova”, a carico del medico, in base al parametro dell’art. 2236 c.c.
Se l’intervento non è ruotinario, cioè, è sufficiente provare una colpa lieve e non grave o, in alternativa, che, nel caso di specie, si è realizzata l’alea tipicamente sottesa a quella tipologia di intervento.
Se l’intervento é routinario, diviene, invece, necessario provare che si è verificata un’alea, solitamente non sottesa a quella tipologia di intervento.
Per contro, ai fini dell’esonero dalla responsabilità, non è sufficiente provare la ricorrenza di un’ipotesi di colpa lieve, e non grave.
Quanto al diverso profilo della prova del nesso causale di tipo materiale[3] ovvero quello fra condotta ed evento naturale, è indubbia l’incidenza delle sentenze a S. U. 577 e 582 del 2008, secondo cui tutte obbligazioni non sono di mezzi, ma mirano, pur sempre, e, dunque, hanno ad oggetto un risultato.
La diligenza cui è tenuto il debitore, compreso il medico, è una diligenza non solo qualificata, perché commisurata alla tipologia e alla natura dell’attività esercitata, ma è efficiente ovvero mira ad un risultato, con inevitabili ripercussioni sull’onere della prova.
Orbene, prima delle suddette pronunce, doveva ritenersi che il nesso causale materiale[4] (sostanziandosi nella relazione fra condotta ed evento, sub specie dell’inadempimento) inerisse il profilo del danno e, dunque, dovesse essere provato dal paziente.
Successivamente, dopo che il raggiungimento del risultato è stato portato all’interno dell’obbligazione dovuta – e che, simmetricamente, il mancato raggiungimento del risultato dovuto rileva ai fini dell’inadempimento - può ritenersi che il nesso causale materiale inerisca l’inadempimento (vi è inadempimento, se non vi è diligenza o anche se non vi è stato il risultato) e, dunque, possa essere semplicemente allegato dal paziente.
Ovviamente, il nesso causale giuridico – diversamente da quello materiale - deve essere sempre provato dal paziente danneggiato.
Orbene, se, in materia di responsabilità medica, si dovesse optare per il modello aquiliano, occorrerà che il paziente provi anche il nesso causale materiale, nonché la colpa che, invece, stando alla tesi dell’inadempimento soggettivo si presume.
Quanto al segmento penale della fattispecie, è stato evidenziato come, per la prima volta, sia stata introdotta la distinzione tra colpa lieve e colpa grave, quale vero e proprio parametro di determinazione dell'an della responsabilità penale.
Fin ora, il grado della colpa, in ambito penale, aveva rappresentato un mero criterio di quantificazione della pena.
Ciò in quanto, in materia di responsabilità penale, era prevalsa una concezione unitaria della colpa (che aveva portato la giurisprudenza più recente a disconoscere qualunque rilievo esimente, in ambito penale, all’art. 2236 c.c. con la conseguente sanzionabilità anche dell’imperizia lieve).
La norma aveva destato, fin da subito, perplessità interpretative.
Secondo una prima lettura, colpevole di un approccio esegetico superficiale, l’art. 3 avrebbe sancito una contraddizione in termini in quanto il legislatore speciale avrebbe prefigurato una responsabilità penale, nonostante il rispetto delle linee guida e, quindi, nonostante l’assenza di profili di responsabilità (c.d. in culpa sine culpa[5]).
Ma, da parte di una più attenta Dottrina, si è evidenziato come le linee guida sono classicamente intese come collaudato standard di perizia, ragion per cui il loro rispetto esclude la colpa, solo nell’ipotesi in cui venga in rilievo un difetto di perizia.
Tale approccio ha avuto l’avallo della Suprema Corte penale che ha evidenziato come le linee guida non esauriscano le regole cautelari vigenti in relazione all’attività, medica, in cui il progresso e le nuove scoperte sono costanti — e, non lo si dimentichi, auspicabili — ed è ben possibile che il soggetto agente con la sua condotta violi un'altra o altre regole cautelari da applicarsi nel caso concreto o erri nell'adeguare, in base alle contingenze specifiche, le linee guida e le buone prassi seguite.
Inoltre, se le linee guida (che possono presentare un vizio genetico, perché rispondenti ad esigenze economicistiche) contengono valide indicazioni di massima, modulate sul caso astratto e generale, non può negarsi che il medico sia sempre tenuto ad esercitare la propria discrezionalità tecnica, ponderando le circostanze del caso di specie e la peculiare situazione del paziente.
Ciò, gli consente, sulla base di un giudizio personale, ma ancorato a dati obiettivi, di disattendere, pur nel costante rispetto della volontà del paziente, le regole cristallizzate nei protocolli medici.
Dunque, l’osservanza delle linee guida e, dunque, l’essersi attenuto alle stesse, non esclude, di per sé, la colpa del medico, ma, qualora questi rispetti i suddetti standard di perizia imposti da regole preventivamente codificate, risponderà solo nell’ipotesi di colpa (sub specie di imperizia) non lieve, ma grave.
Altro profilo di novità è rappresentato, secondo taluna dottrina, dalla circostanza che si soggettivizza la colpa, riconoscendo rilievo solo alla qualificata riconoscibilità dell’esistenza di regole cautelari diverse da quelle osservate, codificate nelle linee giuda e nelle buone pratiche da applicare al caso di specie.
Ciò, in adesione al modello della c.d. doppia misura della colpa[6] che richiede non solo la violazione, da parte dell’agente, della regola cautelare, ma anche la rimproverabilità soggettiva di tale violazione.
Tali letture consentono di superare l’illegittimità - prospettata dal Tribunale di Milano in un ordinanza di rimessione (sez. IX, ord. 21 marzo 2013)[7] dichiarata inammissibile dalla Corte Costituzionale che, dunque, non è entrata nel merito dei prospettati profili di incostituzionalita’ - dell’inciso legislativo “non risponde per colpa lieve”.
Nondimeno, per le linee guida e le buone pratiche, il dubbio di conformità al parametro costituzionale della sufficiente determinatezza, quale corollario del principio di legalità, permane.
Quanto alle linee guida[8], ne esistono diverse sotto il profilo contenutistico e funzionale. Inoltre, le stesse, a secondo della loro genesi e del loro contenuto, presentano un diverso grado di validazione e di vincolatività.
Ci si è, inoltre, interrogati se le buone pratiche coincidano con la best practice.
La differenza terminologica insita bell’uso dei due aggettivi induce a propendere per la soluzione negativa.
Sotto altro profilo, é dubbio se sia in presenza di una mera endiadi, alludendo le buone pratiche agli stessi protocolli, con l’unica differenza del carattere scritto e codificato di questi ultimi oppure se alludano ad una categoria autonoma, assunta a parametro della perizia.
Ancora non è chiaro, quando si parla di accreditamento, se ne si stata recepito un’accezione formale o se sia sufficiente un avallo, sotto il profilo, per così dire sostanziale da parte della comunità scientifica. Inoltre, non rimane chiaro da chi debba provenire l’“accreditamento”, se, cioè, sia sufficiente la provenienza da una qualunque istituzione medica o sia, invece, necessario che esse promanino da un organo centrale, a ciò delegato da una legge approvata dal parlamento, quale organo titolare della potestà legislativa, come richiederebbe, a rigore, il rispetto della riserva di legge in materia penale.
Ancora l’inosservanza del principio di tassatività, deriva dal fatto che la “colpa”, ai fini penali, non è stata oggetto di definizione sotto il profilo contenutistico.
Ed, infatti, consapevole di tale necessità normativa, un progetto legislativo proveniente dall’università cattolica del Sacro Cuore di Milano, prevedeva la descrizione e l’enucleazione di tale concetto.
Inoltre, come evidenziato dal giudice milanese[9], la novella, per così come formulata, rischierebbe di “burocratizzare” le scelte del singolo operatore indotto alla miope osservanza di quanto prescritto da linee guida e buone pratiche, con conseguente pericolo di pregiudizio per l'evoluzione del progresso scientifico. Ciò in violazione con gli artt. 3 e 33 Cost.
Altro profilo di illegittimità costituzionale, evidenziato dal giudice remittente, è rappresentato dalla ritenuta violazione dell’'art. 3 Cost. essendo l’ambito operativo della norma troppo ristretto, sotto il profilo “interno” ed “esterno”.
In primis, il legislatore ha escluso, implicitamente, l’applicazione della norma in favore dei concorrenti nel reato che, in caso di cooperazione colposa, non rivestano quella particolare qualifica soggettiva ma che abbiano agito nella consapevolezza di contribuire alla condotta altrui, qualificata dalla veste di operatore sanitario. Inoltre, sempre secondo il Giudice milanese, la norma non sarebbe stata, irrazionalmente, estesa a chi svolga altre attività socialmente utili e, dunque, autorizzate ma intrinsecamente pericolose.
Inoltre, l’ambito operativo sarebbe «indiscriminatorio e irragionevolmente esteso » in quanto la nuova disposizione si rivolge a tutti gli operatori sanitari (veterinari, biologi, farmacisti, etc.), e non solo ai medici, in netta contrapposizione con la ratio stessa della norma, che viene rinvenuta nella creazione di una norma di favore per la sola classe medica.
Tornando alla disamina del segmento civilistico della fattispecie, dubbi di incostituzionalità pone anche il sistema risarcitorio delle micropermanenti, modulato, dal Decreto Balduzzi, sull’art. 139 Cod Ass.
Infatti, si è condivisibilmente, evidenziato che anche a ritenere legittime le limitazioni risarcitorie intrinseche nell’operare della norma, nell'ambito della r.c. auto, in quanto rappresentante un microsistema, caratterizzato da peculiarità sue proprie[10] e imprescindibili (quanto incomprensibili) esigenze di contenimento dei costi (cfr. pronuncia del Giudice delle Leggi del 2014), non sarebbe possibile mutuare tale conclusione sic et simpliciter in relazione alla responsabilità connessa alla fruizione di una prestazione sanitaria .
D’altronde, dopo la comunitarizzazione della Carta di Nizza e l’elevazione della Cedu a fonte di principi generali, è possibile sostenere il contrasto dell’art. 139 con il diritto alla vita, all’integrità fisica, alla dignità morale, con la cui tutela esordisce la Cedu; nonché con il principio del giusto processo, inteso in chiave sostanziale come equità delle regole sostanziali che la vicenda processuale è chiamata ad attuare e, in ultimo con il principio comunitario di effettività della tutela accordata a posizioni di derivazione comunitaria, quali sono quelle incise dalla responsabilità medica (v. ordinanza rimessione alla Corte Costituzionale del 3’aprile 2012, Tribunale di Brindisi, EST. Natali).
Inoltre, una volta escluso, in virtù di quanto affermato dalla stessa giurisprudenza di legittimità, che le Sezioni unite di San Martino[11] abbiano voluto espungere il danno morale dal panorama risarcitorio, secondo una prima tesi, avallata dalla suddetta pronuncia del Giudice delle Leggi, il summenzionato 139 ricomprenderebbe anche la voce del danno morale, ma in tal caso, si avrebbe una soluzione ermeneutica in contrasto con l’oramai acclarata autonomia del danno morale dal danno biologico.
Inoltre, è indubbia l’inidoneità dell’aumento nei limiti del 20 per cento (1/5), previsto dalla suddetta norma, ad assicurare tutela a tutte le possibili declinazioni risarcitorie del pregiudizio morale, che, peraltro, secondo le Sezioni Unite del 2008, prescinde dall’accertamento della violazione di una posizione costituzionalmente garantita ed è, per contro, configurabile ogniqualvolta ricorra la violazione di interessi giuridicamente rilevanti alla stregua della coscienza sociale[12].
Dunque, secondo un approccio più razionale, dovrebbe ritenersi che il danno morale esuli dal meccanismo di cui all’art. 139 e sia autonomamente risarcibile.
Anche ad accedere a tale soluzione ermeneutica, però, la disposizione de qua il cui ambito operativo dovrebbe essere limitato al danno biologico, risulterebbe inidoneo ad apprestare degna e piena tutela allo stesso danno biologico, inteso dalle stesse Sezioni Unite di San Martino, in modo estremamente ampio, perché ricomprensivo, oltre che del pregiudizio all’integrità psico-fisica, anche del danno alla vita di relazione e del danno estetico.
Sotto il diverso profilo della coerenza interna del sistema risarcitorio da responsabilità medica, è indubbio che il Decreto Balduzzi sancisca una irragionevole differenziazione tra micropermanenti, assoggettate al “claudicante” art. 139 e macropermanenti, risarcite, dopo Cass. 12408 del 2011, sulla base dei più congrui valori delle Tabelle Milanesi, in quanto espressive del principio equitativo cui sarebbe consustanziale non solo l’idea di adeguatezza, ma anche quella di proporzione, divenendo in tale seconda accezione, strumento attuativo del precetto di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost.. Infatti, l’equità[13] consentirebbe di trattare i casi dissimili in modo dissimile, ed i casi analoghi in modo analogo, in quanto tutti ricadenti sotto la disciplina della medesima norma o dello stesso principio[14].
In ogni caso, è stato evidenziato come tale limitazione risarcitoria riguarderebbe esclusivamente la responsabilità dei medici per la propria attività professionale e quella (indiretta o per fatto altrui) delle strutture per l'operato dei medici.
Per contro, lo stesso dato normativo sancirebbe l'inapplicabilità di dette tabelle ai c.d. danni da carenza organizzativa che segnano, per contro, una responsabilità per fatto proprio della struttura ospedaliera.
Dunque, alla luce di tali premesse concettuali, rimane il dubbio di come - pur a fronte di una locuzione normativa incerta e formulata in forma eccettuativa (“In tali casi resta ferma…..”) - possa riconoscersi la capacità di innovare l’ordinamento ad una norma, di tale fattura, che sembra presentare plurimi profili di compatibilità costituzionale oltre che contraddire legittima istanze di tutela provenienti dal corpo sociale.
[1] cfr. in materia, Roiati, Linee guida, buone pratiche e colpa grave: vera riforma o mero placebo?, in Dir.pen.proc., 2013, pp. 222 ss.; Risicato, Le linee guida e i nuovi confini della responsabilità medico-chirurgica: un problema irrisolto, in Dir.pen.proc., 2013, pp. 202 ss..
[2] V. Pulitanò, Responsabilità medica: letture e valutazioni divergenti del novum legislativo, in www.penalecontemporaneo.it .
[3] Cfr. , in generale, sulla tematica del nesso causale: Masera, Accertamento alternativo ed evidenza epidemiologica nel diritto penale. Gestione del dubbio e profili causali, Giuffrè, Milano, 2007, pp. 179 ss.
[4] Sul nesso causale in materia penale dopo la sentenza Franzese, F.D'Alessandro, La certezza del nesso causale: la lezione “antica” di Carrara e la lezione “moderna” della Corte di Cassazione sull' “oltre ogni ragionevole dubbio”. Masera, Il modello causale delle Sezioni Unite e la causalità omissiva, in Dir.pen.proc., 2006, pp. 498 ss.; Viganò, Problemi vecchi e nuovi in tema di responsabilità penale per medical malpractice, in Corr.mer., 2006, pp. 964 ss..
[5] cfr. Sul tema, Cass.Pen., Sez. IV, 24.1.2013, n. 11493, in www.cortedicassazione.it; Cass. Pen., Sez. IV, 29.1.2013, n. 16237, in www.cortedicassazione.it); Piras, In culpa sine culpa, in www.penalecontemporaneo.it, pp. 1 ss.
[6] In dottrina v. Castronuovo, La colpa penale, Milano, 2009; Marinucci, La responsabilità colposa: teoria e prassi, in Riv. it. dir. proc. pen., 2012, 2 ss.
[7] Cfr. Scoletta, Rispetto delle linee guida e non punibilità della colpa lieve dell'operatore sanitario: “la norma penale di favore” al giudizio della Corte Costituzionale, in www.penalecontemporaneo.it
[8] V. Cupelli, I limiti di una codificazione terapeutica (a proposito di colpa grave del medico e linee guida) inwww.penalecontemporaneo.it ; Pavich,Linee guida e buone pratiche come criterio per la modulazione della colpa medica: rilievi all'art. 3 legge n. 189/2012, in Cass. pen., 2013, 902-912, 230; Caputo, Filo d'Arianna o flauto magico? Linee guida e checklist nel sistema della responsabilità per colpa medica, in Riv. it. dir. pen. proc., 2012, 875
[9] V. Francesca Pontis, NOTA A TRIB. DI MILANO, 21 MARZO 2013, SEZ. IX Resp. civ. e prev., fasc.4, 2013, pag. 1263.
[10] v. F.D. Busnelli,La liquidazione del danno alla persona nella R.C.A. tra legge, giurisprudenza e tabelle valutative, in Assicurazioni 2011, I, pp. 587 e ss.
[11] Sul retroterra giuridico della pronuncia de qua F.D. Busnelli, Chiaroscuri d'estate. La Corte di Cassazione e il danno alla persona, in Danno e resp., 2003, p. 816 ss.; G. Ponzanelli, Ricomposizione dell'universo non patrimoniale: le scelte della Corte di Cassazione, in Danno e resp., 2003, p. 831 ss.; Procida Mirabelli Di Lauro, L'art. 2059 c.c. va in paradiso, in Danno e resp., 2003, p. 703 ss..
[12] v., per quanto concerne lo statuto del danno prima della pronuncia di San Martino: E. Navarretta (a cura di), I danni non patrimoniali. Lineamenti sistematici e guida alla liquidazione, Giuffrè, Milano, 2004; G. Ponzanelli (a cura di), Il “nuovo” danno non patrimoniale, Cedam, Padova, 2004; E. Navarretta,Il danno alla persona tra solidarietà e tolleranza, in Resp. civ. prev., 2001, p. 775; Id.,Diritti inviolabili e risarcimento del danno, Giappichelli, Torino, 1996.
[13] Sul ruolo dell’equità in materia contrattuale e quale fonte integrativa degli obblighi pattizi: v. M. Franzoni, Buona fede ed equità tra le fonti di integrazione del contratto, in Contratto e impresa, 1999, p. 83 ss.
[14] V. Maria Fontana Vita della Corte, I danni non patrimoniali da inadempimento del sanitario: spunti di riflessione sui criteri di liquidazione, Responsabilita' Civile e Previdenza, fasc.1, 2013, pag. 248.