Cassazione, quarta sezione penale (ud. del 29 gennaio 2013, pres. Brusco, rel. Blaiotta)
L'art. 3, co. 1 del d.l. 13/9/2012 n.158, convertito con modifiche dalla legge dell'8/11/2012 n.189, prevede che “L'esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l'obbligo di cui all'articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo” .
L'opzione legislativa sottesa alla disposizione richiamata sembra muoversi nel solco di una progressiva riduzione, per quanto attiene agli aspetti patologici del rapporto paziente-sanitario, dell'area del penalmente rilevante, privilegiandone la soluzione civilistica e conferendo pieno riconoscimento normativo alle cc.dd. guidelines che L'Institute of Medicine (IOM) definisce “…statements that include recommendations, intended to optimize patient care, that are informed by a systematic review of evidence and an assessment of the benefits and harms of alternative care options”, e che da tempo sono penetrate anche nella giurisprudenza di legittimità, quali strumenti di valutazione dell'elemento soggettivo della condotta penale.
La norma è certamente ispirata a criteri di contenimento del contenzioso giudiziario, correlato alla disciplina della responsabilità del medico, e del conseguente, registrato innalzamento dei premi assicurativi di tale rischio professionale e potrebbe riscrivere le regole stesse del rapporto paziente-medico, rimasto immutato per secoli, pur a fronte della costante e rapida evoluzione della pratica medica e dei modelli teorici utilizzati per spiegare i fenomeni patologici e gli interventi terapeutici.
Essa imprime un'accelerazione al processo di allontanamento dal modello esperenziale aneddotico, basato sulla libertà diagnostico-terapeutica del sanitario e sul consenso del paziente e si pone nel solco della c.d. Evidence Based Medicine, quel metodo cioè che si propone di ridurre l'incidenza delle decisioni rimesse alla esperienza personale del sanitario, incoraggiando l'uso consapevole della ricerca clinica, al fine di prendere decisioni concernenti la cura del paziente e l'organizzazione dei sistemi sanitari.
La risposta della giurisprudenza non si è fatta attendere: è dei giorni scorsi la pronuncia con la quale la IV sezione penale della corte di cassazione (ud. del 29 gennaio 2013, pres. Brusco, rel. Blaiotta) ha affrontato per la prima volta l'analisi della norma, sia pure in relazione al profilo della successione delle norme integratrici della legge penale (per stabilire, cioè, se la novella legislativa abbia introdotto o meno una vera e propria abolitio criminis).
In base alle notizie ricavabili dalla informazione provvisoria pubblicata sul sito Italgiureweb - Servizio Novità della Corte di Cassazione, risulta che il giudice di legittimità ha ravvisato, nell'art. 3 citato, la parziale abrogazione delle fattispecie colpose commesse dagli esercenti le professioni sanitarie, ritenendo che la norma in esame esclude la rilevanza penale delle condotte connotate dalla colpa lieve, che si collochino all'interno dell'area segnata da linee guida o da pratiche mediche virtuose, purché esse siano accreditate dalla comunità scientifica.
Ne è conseguito l'annullamento con rinvio di una sentenza di condanna per omicidio colposo nei confronti di un medico chirurgo che, nella esecuzione di un intervento di ernia discale recidivante, aveva leso vasi sanguigni con conseguente emorragia letale. Il giudice del rinvio, chiamato a riesaminare il caso, ai fini dell'eventuale applicazione della norma sopravvenuta più favorevole ex art. 2 cpv. cod. pen., dovrà ora verificare se esistano linee guida o best practices afferenti all'esecuzione di quell'intervento chirurgico, e se esso sia stato condotto entro i confini segnati da tali direttive, per valutare, in caso di positivo riscontro, se ricorrano profili di colpa lieve o grave.
In attesa di leggere le ragioni della decisione, che ha già suscitato il comprensibile, vivo interesse dalle comunità scientifica e giudiziaria, l'importanza dell'arresto giurisprudenziale merita comunque qualche riflessione “a caldo”.
Ove si consolidi l'interpretazione secondo cui l'intervento normativo avrebbe introdotto una vera e propria depenalizzazione della colpa medica lieve, nell'ipotesi di osservanza delle linee guida e delle prassi accreditate dalla comunità scientifica, tutta una serie di condotte, dapprima astrattamente sussumibili nell'alveo dell'intervento repressivo dello Stato, ne resteranno fuori.
Si può ipotizzare che la novella legislativa e la decisione richiamata apriranno scenari del tutto nuovi sulla futura regolamentazione delle conseguenze da medical malpractice, con ricadute assai probabili anche sulla tendenza espansiva della c.d. medicina difensiva. La categoria professionale, infatti, ha di volta in volta reagito alle decisioni dei giudici, adottando sovrabbondanti comportamenti cautelativi, di tipo preventivo (assurance behaviour), o astenendosi dall'esecuzione di interventi ritenuti ad alto rischio (avoidance behaviour).
Il cambiamento di prospettiva che si delinea potrebbe inoltre spostare l'asse del piano di risoluzione delle fratture del rapporto paziente-medico sul versante civilistico, ove - da anni - un'interpretazione costituzionalmente orientata delle norme ordinarie sulla professione e sulla responsabilità del medico ha determinato un miglioramento nella tutela risarcitoria del malato, favorendo il risarcimento del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale, riconosciuto non solo in base alle disposizioni del Codice e alle “leggi ordinarie”, ma anche, per l'appunto, in base alla Costituzione, avuto riguardo alla lesione di valori della persona umana costituzionalmente protetti.
Un nuovo assetto, quindi, del rapporto paziente-sanitario che va di pari passo con l'avanzamento del processo di riscrittura delle regole formali che lo sovraintendono, ma che metterà anche in risalto le carenze normative esistenti, sia su piano civilistico, in relazione all'incerta qualificazione giuridica di tale rapporto professionale, oggi ricondotto tanto ai principi della responsabilità aquiliana, quanto a quelli propri del sinallagma contrattuale (con le ovvie ricadute in termini di diverso onere probatorio tra le parti in causa); sia su quello penalistico, ponendo l'interprete di fronte ad una riscrittura radicale del paradigma probatorio della colpa professionale.
I dubbi rimangono e sono molti: uno degli aspetti più problematici della “codificazione” delle medical guidelines è, intanto, quello della loro fonte, considerato che esse sono, di norma, espressione della sintesi di finalità strettamente scientifiche e di scelte proprie, invece, del rationale economico-organizzativo.
I più recenti arresti giurisprudenziali in materia, infatti, pur accreditando la natura lato sensu probatoria delle linee guida (ora a favore dell'accusa, ora della difesa), hanno invitato alla cautela sul loro utilizzo: esse costituiscono elementi di sicuro interesse nella ricostruzione della condotta, la cui osservanza o violazione, però, non può da sola assorbire la misura della diligenza del medico. Esse, cioè, non possono considerarsi punti di approdo definitivo per valutare l'eventuale rispetto delle regole di prudenza da parte del professionista, né offrire indicazioni di valore assoluto, proprio perché sono elaborate sulla scorta di modelli astratti che non intaccano i confini della posizione di garanzia che il medico assume nei confronti del singolo paziente, né quelli della valutazione giudiziale, doverosamente agganciata al caso concreto e alle sue variabili.
La natura non tassativa, né vincolante, e la variabilità di tali direttive, inoltre, ne dovrebbe ostacolare - allo stato - qualunque tentativo di assorbimento nel novero delle fonti normative delle regole cautelari, fissate nel paradigma di cui all'art. 43 del cod. pen., laddove non possono neppure sottacersi i crescenti dubbi che riguardano la metodologia della formazione di tali linee guida, sulle quali certamente possono giocare un ruolo decisivo esigenze di politica sanitaria, intese al contenimento della spesa e alla razionalizzazione delle risorse esistenti.
Sotto tale profilo, anzi, esistono già talune proposte intese a sollecitare una presa “in carico” da parte del Ministero della Salute, perché eserciti un potere di convalida istituzionale delle linee guida, o la partecipazione degli utenti/consumatori al processo di valutazione e gestione del rischio clinico, secondo una logica di tipo compositivo, già sperimentata nei sistemi anglosassoni.
Infine, il ruolo del consulente dovrà essere ripensato anche alla luce del suo apporto tecnico al processo e alla funzione decisionale del giudice che verrà ad essere sempre più accostata alla singola scienza medica che il caso richiama.
Resta, allora, da chiedersi, all'indomani di tale radicale cambiamento di prospettiva (tale, almeno, sulla carta), se il medico rappresenterà ancora per il paziente il primo baluardo a difesa della sua salute e della sua vita, o se tale figura professionale è destinata a diventare solo uno dei pezzi di un complesso ingranaggio procedurale, approntato altrove, “a tavolino”, sulla scorta di modelli astratti, frutto della sintesi, anche, di esigenze del tutto estranee all'interesse primario della salvaguardia della salute e della vita umana, che costituisce il perno su cui, sino ad oggi, è ruotato il modello deontologico della professione medica.