E se credete ora
Che tutto sia come prima
Perché avete votato ancora
La sicurezza, la disciplina
Convinti di allontanare
La paura di cambiare
Verremo ancora alle vostre porte
E grideremo ancora più forte
Per quanto voi vi crediate assolti
Siete per sempre coinvolti
F. De Andrè, Storia di un impiegato
1. Il primo ed il secondo grado di giudizio
Con azione popolare, due cittadini della città di Bari introdussero, nel 2012, un giudizio innanzi al Tribunale di Bari, nel quale fu richiesta, inter alia, la condanna del Ministero dell'Interno, della Prefettura di Bari e della Presidenza del Consiglio dei Ministri a risarcire al Comune ed alla Provincia sia il danno da violazione dei diritti umani all'interno del “Centro di identificazione ed espulsione” (CIE) di Bari Palese, sia il danno subito quali enti esponenziali delle comunità ivi insediate.
Il Tribunale di Bari[1] affermò che il Comune e la Provincia avevano subito un danno all'immagine di comunità capaci di accoglienza, consacrata nella secolare storia di dominazioni straniere e di intrecci di culture religiose e laiche, di rapporti con l'Est Europa ed il Mediterraneo, simboleggiati dal culto di S. Nicola, comune con la Russia e il mondo ortodosso.
Il Tribunale, quindi, condannò il Ministero dell’Interno e la Presidenza del Consiglio dei Ministri a risarcire al Comune ed alla Provincia il relativo danno, liquidato in € 32.766,00, oltre accessori.
La Corte di Appello di Bari[2], in parziale riforma della sentenza di primo grado, dichiarato il difetto di legittimazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri, escluse che la cattiva gestione del CIE avesse determinato un danno all’immagine del Comune e della Provincia, ma ritenne derivato dalla suddetta cattiva gestione, ed esclusivamente con riguardo al Comune di Bari, un danno da lesione dell’identità cittadina (diversa dal diritto all’immagine), riducendo a € 20.000,00 l’importo originariamente riconosciuto.
2. La decisione della Suprema Corte
Con la sentenza n. 26801 del 19.9.2023[3], la Suprema Corte, in accoglimento del secondo motivo di ricorso proposto dal Ministero dell’Interno, ha cassato con rinvio la sentenza impugnata.
Questi i passaggi rilevanti della sentenza della Suprema Corte.
In primo luogo, viene enucleata la nozione di diritto all’identità personale, che, differenziandosi da altre figure affini (tra cui il diritto all’immagine), ha ad oggetto lo specifico bene-valore costituito dalla proiezione sociale della complessiva personalità del soggetto e l’interesse del medesimo ad essere rappresentato, nel contesto generale delle relazioni sociali, con la sua vera identità e, cioè, a non vedere modificato, offuscato o, comunque, alterato all'esterno il proprio patrimonio di valori intellettuali, ideologici, politici, etici, religiosi, sociali, umanitari etc., come già estrinsecatosi (o destinato comunque ad estrinsecarsi) nell'ambiente sociale e ciò secondo indici di previsione costituiti da circostanze obiettive ed univoche.
Questo diritto, sotto la spinta di una sempre crescente produzione giurisprudenziale, è stato riconosciuto anche a favore di enti non personificati, una volta ammessa, in linea generale, la possibilità che anche detti enti siano titolari di diritti della personalità[4].
In secondo luogo, si precisa che il riconoscere l’esistenza di diritti “propri” degli enti collettivi e, conseguentemente, l’ammettere forme di risarcimento del danno non patrimoniale, nel caso in cui i suddetti diritti vengano violati, impone, necessariamente, di tenere conto della peculiarità del soggetto tutelato e della conseguente diversità dell’oggetto di tutela. Non è, perciò, manifestamente irragionevole ipotizzare – prosegue la Suprema Corte – «differenziazioni di tutele», sotto il profilo di un maggior rigore della dimostrazione della configurabilità, in concreto, della fattispecie risarcitoria di volta in volta astrattamente considerata, rispetto a quelle assicurate alla persona fisica.
In terzo luogo, si riconduce la fattispecie concreta (danno da lesione dell’identità cittadina) nello schema generale del danno da illecito aquiliano.
E, a questo riguardo, vengono svolte delle considerazioni, che costituiscono la ratio decidendi della pronuncia cassatoria.
Si afferma, infatti, che, allorquando si verifichi la lesione dell’identità personale, oltre al danno patrimoniale, è risarcibile anche il danno non patrimoniale costituito, come danno cd. conseguenza, dalla diminuzione della considerazione della persona giuridica o dell'ente, sia sotto il profilo della incidenza negativa che tale diminuzione comporta, sia sotto il profilo della diminuzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi[5].
Abbandonata l’originaria tesi, secondo cui la condotta lesiva era di per sé dimostrativa del pregiudizio risarcibile, il danno non patrimoniale, costituendo anch'esso pur sempre un danno-conseguenza, deve essere specificamente allegato e provato ai fini risarcitori, anche mediante presunzioni, mai potendo considerarsi in re ipsa[6].
Applicando tali coordinate ermeneutiche al caso di specie, la Suprema Corte osserva che la sola lesione di valori coincidenti con quelli enunciati negli artt. 1 e 3 dello Statuto della Città di Bari non può essere sic et simpliciter sufficiente a giustificare pretesi risarcimenti, occorrendo, a tal fine, anche altro: vale a dire la dimostrazione, da intendersi disciplinata dalle regole di cui all’art. 2697 c.c., di come una simile violazione, se effettivamente e definitivamente accertata, abbia realmente inciso, poi, sull’intera comunità cittadina.
L’“errore giuridico” addebitato alla Corte territoriale dal Giudice di legittimità è stato quello, sostanzialmente, di aver limitato l’accertamento alla mera lesione di valori coincidenti con quelli proclamati dalla Statuto comunale, in ciò individuando anche la ritenuta lesione dell’identità della città di Bari, senza, tuttavia, indagare e spiegare come la prima di tali dette lesioni abbia concretamente inciso (al fine di realizzare la seconda) sul sentimento dell’intera comunità cittadina così da giustificare il riconoscimento del corrispondente danno, sebbene equitativamente quantificato.
3. Alcune considerazioni introduttive. La detenzione amministrativa e la libertà dei migranti
E’ bene precisare che, nella sentenza in esame, la Suprema Corte non si fa carico di esaminare la, pur interessante, questione relativa alla natura giuridica dei CIE.
Nei precedenti gradi di merito tale questione è stata, invero, oggetto di ampio dibattito processuale, sebbene tanto il Tribunale, quanto la Corte d’Appello non abbiano mancato di sottolinearne l'irrilevanza ai fini della decisione.
Cionondimeno, la Corte barese, richiamando l’espressione dell'antropologo francese Marc Augé[7], li ha felicemente definiti come «non luoghi, dove persone che non sono accusate né tanto meno condannate per un reato rischiano di attendere per un tempo non predeterminabile un'identificazione o altri evanescenti contingenze, senza esercitare nelle more le specifiche attività ricreative, lavorative o di studio, previste e spesso attuate per gli ospiti dei luoghi carcerari»[8].
Come è noto, questi centri sono stati istituiti dall’art. 9 d.l. 23.5.2008, n. 92, convertito nella l. 24.7.2008, n. 125[9]. La loro denominazione è, poi, cambiata, in quella di “centri di permanenza per i rimpatri”, in base all’art. 19 del d.l. 17.2.2017, n. 17, convertito nella l. 13.4.2017, n. 46.
In dottrina[10], i centri di detenzione amministrativa, variamente denominati dalla legislazione speciale, sono stati ritenuti espressione della tendenza, nel campo delle politiche di governo dell’immigrazione, «a forzare i limiti dello stato di diritto e a istituire zone di eccezione rispetto all'ordinamento giuridico», arrivando a tollerare che la libertà degli stranieri possa essere compressa de facto dall'autorità di polizia, al di fuori di qualsivoglia disciplina legale e di qualsiasi controllo da parte dell'autorità giudiziaria.
Non manca chi, con riferimento a questi centri, ritiene che si è «fuori dalle “garanzie proprie del diritto, del processo e dell’esecuzione penale” [...]. Si parla di “detenzione amministrativa”, ma sarebbe più corretto parlare di “galera amministrativa”[11]».
La detenzione amministrativa è definita come «strumento di privazione della libertà personale a cui lo straniero può essere assoggettato per ragioni di governance dei flussi migratori[12]».
Da tale definizione emerge come la detenzione amministrativa possa dunque considerarsi uno strumento funzionale alla gestione del fenomeno migratorio.
Secondo la Corte Costituzionale, il controllo di tali flussi rientra nell’interesse statale «che risulta offendibile dalle condotte di ingresso e trattenimento illegale dello straniero. L’ordinata gestione dei flussi migra-tori si presenta come un bene giuridico “strumentale”, attraverso la cui salvaguardia il legislatore attua una protezione in forma avanzata del complesso di beni pubblici “finali”, di sicuro rilievo costituzionale, suscettivi di essere compromessi da fenomeni di immigrazione incontrollata»[13].
In realtà, si registra una nutrita giurisprudenza, soprattutto della Corte EDU che, con riferimento alle zone di transito aeroportuali o le stazioni di polizia, affronta il tema degli effetti del trattenimento dei migranti sulla loro libertà personale. In questa giurisprudenza emerge con evidenza l’impegno dei giudici per provare ad individuare dei criteri (ad es.: durata del trattenimento; intensità della coercizione; esame delle circostanze fattuali, etc.) attraverso cui è possibile stabilire i casi di restrizione della libertà personale a fronte di quelli in cui, invece, si realizza una più grave privazione della stessa libertà[14]. In questo contesto in cui il bene giuridico rilevante è la libertà personale, assume dunque rilievo il fatto che non sia l’autorità giudiziaria l’unico soggetto legittimato ad adottare la misura di trattenimento, potendo provvedervi anche quella amministrativa. È palese che tale dinamica rientra sempre in un problematico bilanciamento tra le libertà dei migranti e il diritto sovrano dello Stato a controllare le proprie frontiere, che in questi casi sono anche le frontiere dell’UE.
La giurisprudenza di legittimità è giunta ad equiparare alla detenzione il trattenimento e la proroga del trattenimento dello straniero nei centri di rimpatrio.
Si afferma, infatti, che «il trattenimento dello straniero che non possa essere allontanato coattivamente contestualmente all'espulsione è misura di privazione della libertà personale, che richiede la sussistenza delle condizioni giustificative previste dalla legge, secondo una modulazione dei tempi rigidamente predeterminata»[15].
Ed ancora, più esplicitamente: «il trattenimento e la proroga del trattenimento dello straniero sono assimilabili a detenzione»[16].
Tale orientamento si è sviluppato sulla scia della giurisprudenza unionale, secondo cui il controllo, da parte di un'autorità giudiziaria, del rispetto delle condizioni di legalità in base al diritto dell’Unione del trattenimento, assimilabile a detenzione, di un cittadino di un paese terzo deve indurre tale autorità a sollevare d'ufficio, sulla base degli elementi della fascicolo portato alla sua conoscenza, come integrato o chiarito nel corso del contraddittorio espletato, l'eventuale inosservanza di una condizione di legittimità, sebbene non invocata dall'interessato[17].
4. Il diritto all’identità cittadina
Due sono le questioni su cui si incentra l’intervento della Suprema Corte.
La prima è costituita dalla configurabilità del diritto alla cosiddetta “identità cittadina”.
La seconda riguarda, invece, le condizioni al ricorrere delle quali è ammesso il risarcimento del danno da lesione di un siffatto diritto.
La sentenza in commento si segnala, anzitutto, per avere sostanzialmente confermato la decisione della Corte di Appello barese, che aveva riconosciuto la sussistenza del diritto all’identità cittadina, da intendersi «come senso di essere qualcosa di specifico, quel qualcosa che consente di cambiare rimanendo sé stessi».
E’ interessante notare come tale diritto non patrimoniale dell’Ente, il cui fondamento costituzionale viene rinvenuto nell’art. 114 Cost., è stato ricostruito dalla Corte barese sulla base dei valori proclamati, dallo Statuto comunale[18] ed in special modo nel relativo preambolo[19].
La sentenza di primo grado[20] aveva riconosciuto, nella fattispecie, un danno all’immagine della città di Bari, facendo ricorso alla “teoria della sineddoche”, per la quale – al pari di altri casi tristemente famosi, come Guantanamo, Alcatraz e Auschwitz – nell’opinione pubblica la città di Bari veniva identificata con il CIE che vi era ubicato.
La Corte d’Appello non ha condiviso questa impostazione, ritenendo, invece, che il Giudice di primo grado fosse incorso in un “errore di prospettiva”, unificando, in modo indistinguibile, problemi di ordine pubblico e sicurezza nel territorio, pericolo per lo sviluppo turistico, rischio di assimilazione a realtà di segregazione, lesione dell'immagine e dell'identità.
Tale “errore di prospettiva” non ha, tuttavia, impedito alla Corte territoriale di riesaminare i singoli profili di danno alla luce delle argomentazioni delle parti e di accertare l’avvenuta lesione non già dell’immagine della città di Bari, quanto piuttosto, della sua identità[21].
La Corte d’Appello ritiene, invece, che, nella fattispecie, non si è verificato un danno all’immagine del Comune barese, in quanto la malagestione del CIE era imputabile allo Stato.
Piuttosto, ad avviso del Giudice di secondo grado, si è trattato di danno all’identità dell’Ente, essendo stati lesi quei valori consacrati nello Statuto comunale, nei quali tradizionalmente la comunità locale si riconosce.
La Suprema Corte non si dilunga a tratteggiare i caratteri e il contenuto di questo diritto di nuova emersione, costituito dal diritto all’identità cittadina, limitandosi a sottolineare come la sua emersione sia il frutto «dell’evoluzione generale dell’ordinamento e dell’affermarsi del sempre più diffuso solidarismo».
Il Giudice di legittimità afferma, poi, che detto diritto si atteggia in modo diverso rispetto al diritto all’identità della persona fisica sul piano della tutela, con particolare riguardo al «maggior rigore nella dimostrazione della fattispecie sanzionatoria».
La Suprema Corte, però, non approfondisce opportunamente l’aspetto della «differenziazione di tutele» e, in particolare, non spiega perché la «peculiarità del soggetto tutelato» e la «diversità dell’oggetto di tutela» dovrebbero condurre ad un «maggior rigore» sul piano probatorio.
5. Il danno da lesione dell’identità cittadina
Dopo avere individuato la situazione giuridica lesa (il diritto all’identità cittadina), la Suprema Corte analizza la fattispecie di illecito alla luce dello schema tradizionale costituito dalla “condotta materiale”, dall’ “evento lesivo” e dalla “conseguenza dannosa”.
Si tratta di una relazione causale che, come la stessa Suprema Corte non manca di sottolineare, la giurisprudenza di legittimità da tempo utilizza in qualsiasi violazione di un interesse giuridicamente rilevante e, quindi, anche nell’ipotesi in cui l’interesse leso abbia, come nel caso di specie, natura non economica.
Ora, applicando il predetto schema alla fattispecie in esame, il Giudice di legittimità rimprovera alla Corte territoriale di essersi “arrestata” all’evento lesivo – all’«accertata mera lesione di valori coincidenti con quelli proclamati dallo Statuto» – senza esaminare l’ulteriore elemento, costituito dal danno-conseguenza e cioè dalle «concrete ripercussioni sul sentimento e sull’agire della comunità cittadina».
Come già evidenziato, la Suprema Corte non indica il contenuto che, con specifico riferimento al caso di specie, dovrebbe assumere l’onere della prova del danno-conseguenza.
All’affermazione della Suprema Corte, secondo cui la Corte territoriale ha errato nel non esaminare le «concrete ripercussioni sul sentimento e sull’agire» della comunità cittadina, si potrebbe obiettare che, poiché i valori dello Statuto comunale sono, fino a prova contraria, espressivi del sentire della comunità locale, è ragionevole presumere che alla lesione dei primi sia conseguito un pregiudizio per la collettività che in quei valori si rispecchia.
6. Osservazioni finali
La sentenza in commento merita di essere accolta con favore nella parte in cui conferma, nella sostanza, l’impianto giuridico motivazionale adottato dal Collegio barese relativo alla configurabilità del diritto all’identità cittadina.
Ed infatti, la Suprema Corte condivide quanto statuito dalla Corte d’Appello sul fatto che i valori contenuti negli Statuti comunali non hanno una portata solo retorica, ma costituiscono un «criterio di individuazione dell’identità di un ente».
Inoltre – ed è questo un punto assai significativo, che avrebbe meritato maggiore attenzione dal Supremo Collegio, anche alla luce della giurisprudenza CEDU[22] - nella sentenza della Cassazione non viene neppure messo in discussione il fatto che dalla cattiva gestione del CIE (e, dunque, dalla sua inidoneità a garantire l’assistenza e la dignità degli stranieri, sottoposti a trattamento inumano e degradante) sia derivata una lesione dei valori dello Statuto del Comune di Bari.
La sentenza, tuttavia, non si sottrae ad alcune critiche, nella parte in cui cassa con rinvio la decisione impugnata, addebitando alla Corte d’Appello di aver riconosciuto il danno in re ipsa, senza accertare quali conseguenze concretamente pregiudizievoli siano scaturite dall’evento lesivo.
In primo luogo, non appare affatto convincente il passaggio nel quale la Corte richiede un “maggior rigore” nella dimostrazione della fattispecie risarcitoria costituita dalla lesione del diritto della personalità dell’ente.
Ferme restando le ovvie peculiarità del soggetto tutelato, non si vede la ragione per la quale lo standard probatorio debba ritenersi più elevato nel caso in cui ad essere leso sia il diritto della persona giuridica, anziché quello della persona fisica.
Inoltre, ancor meno convincente appare il non celato intento di «scongiurare il potenziale proliferare di analoghi contenziosi risarcitori».
Si tratta di una considerazione di carattere meta-giuridico, si potrebbe dire di “politica giudiziaria”, che non può giustificare una ricostruzione della fattispecie risarcitoria in termini differenti rispetto a quelli cui si perverrebbe applicando le consuete coordinate ermeneutiche.
Al riguardo, va evidenziato come la giurisprudenza di legittimità, anche di recente, ha esteso alle persone giuridiche gli approdi raggiunti in tema di prova del danno da lesione del danno all’immagine e alla reputazione di persona fisica.
Nella recente ordinanza Cass. 10.7.2023, n. 19551/2023, peraltro citata nella sentenza in rassegna, è bene evidenziato questo percorso giurisprudenziale.
Si legge, infatti, che «Il danno all'immagine ed alla reputazione, inteso come ‹‹danno conseguenza››, dunque, non sussiste in re ipsa, dovendo essere allegato e provato da chi ne domanda il risarcimento, e la sua liquidazione deve essere compiuta dal giudice in base, non tanto a valutazioni astratte, bensì al concreto pregiudizio presumibilmente patito dalla vittima, per come da questa dedotto e provato. La sussistenza di un danno non patrimoniale in concreto subìto, dunque, deve essere oggetto di allegazione e prova, anche attraverso presunzioni, assumendo a tal fine rilevanza, quali parametri di riferimento, la diffusione dello scritto, la rilevanza dell'offesa e la posizione sociale della vittima (Cass., sez. 3, 26/10/2017, n. 25420). Il giudice può, quindi, avvalersi di presunzioni gravi, precise e concordanti sulla base, però, di elementi indiziari diversi dal fatto in sé (Cass., sez. 6-3, 18.07.2019, n. 19434)».
Ed ancora, «anche nella lesione della “reputazione sociale”, intesa come immagine di serietà ed affidabilità dell'ente collettivo proiettata all'esterno, il danno conseguenza deve essere provato, ben potendosi pervenire anche attraverso elementi presuntivi alla dimostrazione della conseguenza pregiudizievole derivata - ex art. 1223 cod. civ. - all'ente collettivo dalla deminutio della propria immagine».
Se ne ricava, quindi, che la direttrice giurisprudenziale – lungi dall’indirizzarsi verso una «differenziazione di tutele» – va, piuttosto, verso un unico statuto della responsabilità da lesione dei diritti della personalità, indipendentemente dal fatto che il soggetto leso sia persona fisica o ente collettivo.
Se, dunque, anche nel caso di lesione del diritto all’identità dell’Ente, come in qualunque altra ipotesi di lesione dei diritti della personalità, il danno può essere provato a mezzo di presunzioni, la Suprema Corte avrebbe dovuto ragionare in termini meno formalistici e, di conseguenza, rigettare il ricorso, considerando che i Giudici di merito, in entrambi i due gradi di giudizio, avevano - sia pure implicitamente - ritenuto presuntivamente dimostrato il danno-conseguenza, sulla base di plurimi elementi: la grande eco mediatica del caso, il protrarsi negli anni delle gravi condizioni di trattamento degli stranieri trattenuti nel CIE ed, infine, il fatto che il centro medesimo, nella quale si erano perpetrate gravi violazioni dei diritti umani, era collocato all’interno della città di Bari, statutariamente “città aperta”, impegnata nel sostegno e nella promozione «dei diritti umani, la cultura della pace, della cooperazione internazionale e dell'integrazione etnico-culturale» (art. 3 comma 2), e nella tutela e valorizzazione delle «diverse realtà etniche, linguistiche, culturali, religiose e politiche presenti nella città, rifacendosi ai valori della solidarietà e dell'accoglienza» (art. 3 comm. 8).
[1] Trib. Bari 10.8.2017, n. 4089, est. Potito. Per un'analisi della sentenza, si veda F. Cortese, Se un CIE non funziona bene, l'immagine della comunità locale è danneggiata, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, 1, 2018, 1-10.
[2] Corte App. Bari 30.11.2020, n. 2020, est. Gaeta, pubblicata in Giornale dir. amm., 2021, 5, 658, con nota di G. De Giorgi Cezzi, L'azione popolare, l'immigrazione e il danno alla città.
[3] In Foro It., 2023, I, 2754, con nota di G. Strommillo.
[4] Il definitivo avallo giurisprudenziale di tale tendenza si è avuto con la sentenza della Corte di cassazione 22.6.1985, n. 3769, sul cd. “caso Veronesi”: in quella sede, invero, il Supremo Collegio ebbe modo di precisare che il diritto all’identità personale spetta non solo alle persone fisiche ma anche a quelle giuridiche ed agli enti non personificati. Più di recente, si è affermato che l'art. 2 Cost. garantisce i diritti inviolabili dell'uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e, tra questi, vi è il diritto dell'identità, che non spetta solo alle persone fisiche, ma anche alle persone giuridiche ed alle associazioni non riconosciute.
[5] Cass. 4.6.2007, n. 12929; Cass. 22.3.2012, n. 4542; Cass. 10.7.2023, n. 19551.
[6] Cfr., anche nelle rispettive motivazioni, Cass., S.U., 11.11.2008, n. 26972; Cass. 8.10.2007, n. 20987; Cass. 13.5.2011, n. 10527; Cass. 21.6.2011, n. 13614; Cass. 14.5.2012, n. 7471; Cass. 10.7.2023, n. 19551.
[7] M. Augè, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Eleuthera, 2009.
[8] «Luoghi ibridi che non sempre consentono, con chiarezza, di identificare il tipo di effetti prodotti, se cioè ci si trovi dinanzi ad una privazione della libertà personale del migrante o ad una sua più limitata restrizione (es.: stazioni di polizia, hotspots, tenso-strutture, Centri di accoglienza, etc.)»: così si esprime L. Bernardini, La detenzione degli stranieri tra “restrizione” e “privazione” di libertà: la CEDU alla ricerca di Godot, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, 1, 2022, 79.
[9] Le parole «centro di permanenza temporanea» ovvero «centro di permanenza temporanea ed assistenza» sono sostituite, in generale, in tutte le disposizioni di legge o di regolamento, dalle seguenti: «centro di identificazione ed espulsione», quale nuova denominazione delle medesime strutture.
[10] A. Ceretti, R. Cornelli, Il diritto a non avere paura. sicurezza, populismo penale e questione democratica, in Dir. Pen. e Processo, 2019, 11, 1481 (commento alla normativa). Cfr., anche in prospettiva storica e interdisciplinare, E. Augusti, A.M. Morone, M. Pifferi, Il controllo dello straniero. I "campi" dall'Ottocento a oggi, Roma, 2017; G. Campesi, La detenzione amministrativa degli stranieri. Storia, diritto, politica, Roma, 2013.
[11] A. Pugiotto, La “galera amministrativa” degli stranieri e le sue incostituzionali metamorfosi, in Quaderni Costituzionali, 3, 2014, 587, che, con riferimento ai CIE, sostiene: «si creano così le basi giuridiche per sottrarre la condizione dello straniero trattenuto all’insieme di quelle garanzie che né il diritto penale –sostanziale e processuale –né l’ordinamento penitenziario si sognerebbero mai di negare ad un qualsiasi detenuto in prigione».
[12] Così L. Bernardini, Libertà va cercando... Una detenzione “atipica”, uno “scontro” tra Corti: quali prospettive per i migranti detenuti in Europa?, in La legislazione penale, 3 dicembre 2020, 1 ss.
[13] Corte cost., sent. 8.7.2010, n. 250, punto 6.3 del Considerato in diritto.
[14] Per una compiuta analisi di tale giurisprudenza, anche con riguardo a quella della CGUE, cfr. L. Bernardini, La detenzione degli stranieri tra “restrizione” e “privazione” di libertà, cit., 82 ss., il quale sottolinea, tra l’altro, che «l’implementazione di misure detentive nei confronti dei migranti [...] all’interno dei commissariati [...] rivela limpidamente la quintessenza della detenzione amministrativa quale misura ibrida, adottata con pratiche amministrative ma con una ratio (malcelata) di matrice penalistica».
[16] Cass. 15.12.2023, n. 35172.
[17] Corte giust., grande sezione, 8.11.2022, cause C-704/20 e C-39/21.
[18] La dottrina ha definito gli statuti come fonti normative atipiche di rango subprimario. Sul punto si veda, tra gli altri, U. De Siervo, Statuti e Regolamenti, nuove fonti normative di comuni e province, in Le regioni, 1991, 387 ss.; L. Pegoraro, Gli statuti degli enti locali. Sistema delle fonti e problemi di attuazione, Rimini, 1993; V. Caianello, Premesse storico-culturali dell'ordinamento delle autonomie locali e del potere statutario, in AA.VV., Scritti in onore di Pietro Virga, Milano, 1994, 318 ss.; E. De Marco, Statuti comunali e provinciali, in Enc. dir., Agg., IV, Milano, 2000, 1139 ss.; L. Pegoraro, Statuti comunali e provinciali, in M. Bertolissi (a cura di), L'ordinamento degli enti locali, Bologna, 2002, 80 ss.; P. Caretti, Fonti statali e fonti locali dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, in Le Regioni, 2002, 951 ss.; A. Poggi, Commento dell'art. 6, in R. Cavallo Perin, A. Romano (a cura di), Commentario breve al testo unico sulle autonomie locali, Padova, 2006, 30 ss.; F. Cortese, La natura giuridica degli statuti comunali e la rappresentanza processuale degli enti locali, in questa Rivista, 2006, 47 ss.; L. Vandelli, Il sistema delle autonomie locali, Bologna, 2018, 121 ss.; F. Staderini, P. Caretti, P. Milazzo, Diritto degli Enti Locali, Padova, 2019, 68 ss.
[19] Sul valore dei "preamboli" nei documenti costituzionali, e sul significato giuridico delle dichiarazioni di principio politico, si rinvia a J.O. Frosini, Constitutional Preambles: At a Crossroads between Politics and Law, Rimini, 2012; W. Voermans, M. Stremler, P. Cliteur, Constitutional Preambles. A Comparative Analysis, Cheltenham, 2017; F. Longo, I preamboli costituzionali. Studio di diritto comparato, Torino, 2018. Un posto più specifico, nella letteratura pubblicistica, hanno i preamboli dei trattati europei nella giurisprudenza sui diritti sociali, su cui si veda A.O. Cozzi, Diritti e principi sociali nella Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea: profili costituzionali, Napoli, 2017 e P. Bilancia (a cura di), Diritti sociali tra ordinamento statale e ordinamento europeo, in Federalismi.it, numero speciale 4, 2018, 1 ss.
[20] Trib. Bari, 10.8.2017, con nota critica di commento di F. Cortesi, Se un CIE non funziona, l’immagine della comunità locale è danneggiata, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, n. 1/2018, p. 1 e ss.
[21] Sulla distinzione tra “diritto all’immagine” e “diritto all’identità” si veda V. Zeno-Zencovich, voce Identità personale, in Dig. Civ., 1991: «In relazione all'immagine si rileva innanzitutto che essa è costituita da un elemento materialmente percepibile e riproducibile che identifica il soggetto nella sua apparenza fisica, mentre l'identità personale attiene ad aspetti morali, intellettualmente rappresentabili, della personalità. Ma, soprattutto, l'immagine ha una natura statica, connessa inevitabilmente ai tratti somatici del soggetto e quindi scarsamente determinabile da quest'ultimo, mentre l'identità personale, attenendo ad un complesso di attività materiali e intellettuali poste in essere da un individuo, è da lui dinamicamente delineata e adattata ai più svariati problemi e situazioni. Infine, si può osservare che l'immagine è di solito anonima, nel senso che l'identificazione del soggetto titolare del diritto è contenuta intrinsecamente nella riconoscibilità di un determinato soggetto in una determinata immagine; la liceità del suo uso è quindi subordinata all'accertamento del consenso dell'avente diritto o delle particolari eccezioni di cui all'art. 97 l. d'a. Nell'identità personale, invece, la nominatività della rappresentazione è essenziale, non potendosi altrimenti individuare il soggetto titolare e l'eventuale illecito risiede non nell'uso illegittimo di un attributo della personalità bensì nella sua infedele rappresentazione».
[22] Sulle condizioni dei migranti all’interno dell’hotspot di Lampedusa, e più in generale sul sistema di accoglienza italiano, è intervenuta a più riprese la Corte europea dei diritti umani, da ultimo con la sentenza Corte EDU, J.A. e altri c. Italia, ric. n. 21329/18 J.A.e altro del 30.3.2023. La sentenza è divenuta definitiva poiché non è stata impugnata dalle Parti nei tempi previsti. L’indirizzo che ha ispirato la sentenza in questione è stato confermato dal Comitato di tre giudici, istituito per trattare casi ripetitivi rispetto ai quali si registra una giurisprudenza consolidata (www.echr.coe.int/w/new-thematic-committee-for-immigration-related-cases), nelle successive pronunce M.A., ric. n. 13110/18, A.B., ric. n. 13755/18, e A.S., ric. n. 20860/20, rese il 19 ottobre 2023, relative all’accoglienza e al trattenimento de facto di cittadini tunisini nell’hotspot di Lampedusa, nelle quali la Corte ha riscontrato la violazione dell’art. 3 e dell’art. 5, par. 1, 2 e 4 CEDU.