Corte europea dei diritti dell'Uomo, sentenza 8 aprile 2014, causa Dhahbi c. Italia (causa n. 17120/09) (in lingua francese)
Con la sentenza Dhahbi c. Italia dell’8 aprile 2014, la Corte europea dei diritti dell’Uomo ha sancito due importanti principi. Il primo è che i giudici nazionali debbono motivare il mancato rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea poichè altrimenti si determina una violazione dell’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che assicura il diritto all’equo processo. Il secondo è che l’esclusione dei cittadini stranieri regolarmente soggiornanti con un permesso non di breve periodo da una prestazione sociale familiare in ragione unicamente della loro condizione di stranieri è incompatibile con il principio di non discriminazione di cui all’art. 14 della Convenzione europea.
La sentenza giunge a seguito di un ricorso presentato da un cittadino tunisino regolarmente soggiornante in Italia con un permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti contro il diniego opposto al riconoscimento dell’assegno INPS per nuclei familiari numerosi di cui all’art. 65 della legge n. 448/1998 in quanto la normativa riservava tale beneficio ai soli cittadini italiani e di altri Stati membri dell’Unione europea.
Avverso tale diniego il cittadino tunisino aveva proposto ricorso dapprima al Tribunale di Marsala, poi alla Corte di Appello di Palermo ed infine alla Corte di Cassazione, ma tutti i gradi di giurisdizione interni avevano dato ragione all’amministrazione ritenendo che il principio di parità di trattamento in materia di ‘sicurezza sociale’ di cui all’Accordo di Associazione euro-mediterraneo tra Comunità Europea e Marocco (art. 65 c. 1 e 2) dovesse trovare applicazione solo nei confronti delle prestazioni di natura previdenziale, sorrette da meccanismi contributivi e non fosse estensibile a quelle di natura meramente assistenziale, finanziate dalla fiscalità generale. Nonostante la richiesta della parte ricorrente, la Corte di Cassazione, con la sentenza depositata il 29 settembre 2008, aveva deciso di rigettare il ricorso senza motivare alcunché sulle ragioni per cui non riteneva necessario porre alla Corte di Giustizia europea una questione pregiudiziale.
A tale riguardo, la Corte europea di Strasburgo ricorda che già una giurisprudenza precedente (nella causaVergauwen c. Belgio dd. 10 aprile 2012, n. 4832/04, par. 89-90) aveva riconosciuto la sussistenza di un obbligo per le giurisdizioni interne, ed in particolare per quelle di ultima istanza, di motivare le decisioni in base alle quali viene rifiutata la richiesta di porre una questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di Giustizia europea; obbligo che discende anche dall’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, per cui dall’assenza di giustificazioni o motivazioni per detto rifiuto discende una violazione del principio dell’equo processo di cui all’art. 6 c. 1 della CEDU.
La Corte di Strasburgo ha riconosciuto anche la violazione del principio di non discriminazione di cui all’art. 14 della CEDU in combinato disposto con l’art. 8 (rispetto della vita familiare), ricollegandosi la prestazione assistenziale in oggetto, destinata ai nuclei familiari numerosi, al sostegno fornito allo Stato all’istituzione della famiglia (al riguardo i precedenti casi Okpisz c. Germania, causa n. 59140/00, sentenza 25 ottobre 2005,Niedzwiecki c. Germania, sentenza 25 ottobre 2005, causa n. 58453/00 e Saidoun c. Grecia, sentenza 28 ottobre 2010, causa n. 40083/07).
A tale riguardo, la Corte di Strasburgo ricorda che una disparità di trattamento tra persone in situazioni comparabili è discriminatoria e dunque illegittima a meno che riposi su una giustificazione obiettiva e ragionevole, vale a dire se tale disparità non persegue uno scopo legittimo e non vi sia un rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e l’obiettivo indicato.
Tuttavia, la giurisprudenza ormai consolidata della Corte di Strasburgo ha indicato che solo considerazioni molto forti possono giustificare delle disparità di trattamento fondate esclusivamente sulla nazionalità (cittadinanza) e dunque sulla mera condizione giuridica di straniero, e a tali considerazioni non possono essere assimilati gli interessi di bilancio e di contenimento della spesa pubblica da parte degli Stati (Gaygusuz c. Austria, 16 settembre 1996, Koua Poirrez c. Francia, n. 40892/98). Le ragioni di bilancio e di contenimento della spesa infatti, pur costituendo uno scopo legittimo, non rispondono ai principi di proporzionalità nel momento in cui trovino applicazione per escludere da prestazioni sociali di sostegno al reddito familiare immigrati stranieri che abbiano un sufficiente legame con lo Stato ospitante , in quanto vi soggiornino non in maniera irregolare o per ragioni di breve durata, bensì con regolare permesso di soggiorno e di lavoro.
Di conseguenza, la Corte europea di Strasburgo ha riconosciuto che il diniego opposto dallo Stato italiano al cittadino tunisino nell’accesso alla prestazione sociale familiare dell’assegno INPS nuclei familiari numerosi è incompatibile con il principio di non discriminazione di cui all’art. 14 della Convenzione e ha riconosciuto dunque al ricorrente il risarcimento del danno patrimoniale consistente nell’ammontare degli assegni non percepiti, sommati agli interessi legali, nonchè del danno morale, fissato in misura equitativa in 10.000 euro.
La sentenza della Corte europea di Strasburgo è molto importante perchè permangono nell’ordinamento italiano diverse disposizioni che tuttora prevedono disparità di trattamento tra cittadini italiani e dell’Unione europea da un lato e cittadini stranieri di Paesi terzi dall’altro in materia di accesso a prestazioni sociali familiari aventi natura assistenziale.
La stessa normativa sull’assegno per nuclei familiari numerosi di cui all’art. 65 L. 448/98, sebbene modificata di recente con l’art. 13 della legge n. 97/2013, che ne ha previsto l’estensione anche a favore dei cittadini di Paesi terzi titolari di permesso CE per lungosoggiornanti, nonchè dei familiari di cittadini italiani e di altri Paesi membri dell’Unione europea, continua ad escludere dal beneficio i cittadini di Paesi terzi regolarmente soggiornanti con un permesso che consente l’esercizio di attività lavorativa. Uguale discorso vale per l’assegno maternità di base di cui all’art. 74 del d.lgs. n. 151/2001, che esclude dal beneficio le donne cittadine di Paesi terzi non titolari dello status di lungosoggiornante, così come per la ‘carta acquisti’ di cui all’art. 81 d.l. n. 112/2008, convertito nella legge n. 133/2008 (c. 32) (“carta acquisti” riservata agli anziani over 65 e bambini under 3), e per la ‘carta acquisti sperimentale’ di cui all’art. 60 del D.L. 9 febbraio 2012, n. 5, poi convertito in legge n. 35/2012, ed integrato dalle disposizioni di cui al D. L. 28 giugno 2013, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla L. 9 agosto 2013, n. 99 (“carta acquisti sperimentale’ per i Comuni con più di 250 mila abitanti e per i Comuni delle Regioni del Mezzogiorno), riservata ai cittadini italiani, di Paesi membri dell’Unione europea, ai familiari di cittadini italiani e di Paesi UE, ai cittadini di Paesi terzi lungosoggiornanti, ai rifugiati e titolari della protezione sussidiaria, ma non anche agli stranieri regolarmente soggiornanti con permesso di soggiorno valido per l’esercizio di attività lavorativa.
La questione poteva trovare soluzione con l’emanazione della legislazione di recepimento nel diritto interno della direttiva europea 2011/98 del Parlamento europeo e del Consiglio del 13 dicembre 2011 relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio del permesso unico che consente ai cittadini di paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di Paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro.
La direttiva 2011/98 prevede, infatti, il diritto alla parità di trattamento per i lavoratori di paesi terzi nei settori della sicurezza sociale definiti dal Regolamento (CE) n. 883/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale.
La nozione di ‘sicurezza sociale’ deve essere intesa nell’accezione comunitaria sulla base della lettura combinata degli artt. 3, comma 3, e 70 del Regolamento n. 883/2004, che include tra le prestazioni di ‘sicurezza sociale’ anche quelle “miste”, ovvero aventi carattere assistenziale da un lato in quanto non sorrette da meccanismi contributivi e finanziate dalla fiscalità generale, ma che dall’altro costituiscono diritti soggettivi, in quanto criteri e condizioni per l’accesso sono regolati dalla normativa interna senza margini di discrezionalità lasciati alle Pubbliche Amministrazioni.
In particolare, vi debbono essere comprese quelle prestazioni elencate nell’ allegato X (già allegato II-bis) al Regolamento 883/2004, introdotto con Regolamento (CE) n. 988/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 settembre 2009 (1).
Ugualmente tra le prestazioni di sicurezza sociale ai sensi del Regolamento (CE) n. 884/2004 sono da annoverarsi le “prestazioni familiari” ovvero quelle “prestazioni in natura o in denaro destinate a compensare i carichi familiari “ (art. 3 c. 1 lett. j) e art. 1 lett. z) Reg. CE n. 883/2004), inclusi gli assegni speciali di nascita o di adozione, in quanto l’Italia non ha menzionato alcuni di essi nell’apposito allegato I al Regolamento.
Il Governo italiano, tuttavia, nel recepire tale direttiva con il d.lgs. n. 40/2014, non ha inteso abrogare le clausole discriminatorie a danno dei cittadini stranieri titolari del permesso di soggiorno valido per attività lavorativa, contenute nelle normative di settore nell’ambito del welfare già citate e pertanto, l’Italia si trova ora esposta al rischio di possibili procedure di infrazione del diritto UE, così come a contenziosi in sede giudiziaria, ove i ricorrenti possono fare valere il principio della diretta ed immediata applicazione del diritto UE e del suo primato su norme di diritto interno ad esso incompatibili, almeno nei casi in cui i ricorrenti possano fare valere un’anzianità lavorativa in Italia della durata di almeno sei mesi, in quanto tale è l’unica condizione posta dalla direttiva 2011/98 per fare valere una possibilità di deroga al principio di parità di trattamento da parte degli Stati membri (art. 12 c. 2 lett. b) [si veda in proposito al link:http://www.asgi.it/home_asgi.php?n=3201&l=it ].
Riguardo invece all’applicabilità della clausola di parità di trattamento in materia di ‘sicurezza sociale’ contemplata da diversi accordi euromediterranei stipulati tra Comunità europea e taluni Stati terzi (Marocco, Algeria, Tunisia, Turchia), si fa presente l’esistenza di una consolidata giurisprudenza da parte dei tribunali di merito che si sono espressi a favore della sua applicabilità diretta ed immediata nell’ordinamento italiano con riferimento anche alle prestazioni cosiddette “miste” ovvero assistenziali e non sorrette da contributi, ma previste dalla legislazione di settore come ‘diritti soggettivi’. Si possono citare al riguardo almeno le seguenti decisioni giurisprudenziali: Tribunale di Genova, ordinanza 3 giugno 2009, Ahmed CHAWQUI c. INPS (relativo all’assegno di invalidità); Tribunale di Verona, ordinanza 14 gennaio 2010, n. 745/09 (relativo all’indennità speciale per i ciechi); Corte di Appello di Torino, sentenza n. 1273/2007 del 14 novembre 2007 (relativa all’indennità di accompagnamento); Tribunale di Tivoli, ordinanza 15 novembre 2011 (R.G.A.C. n. 747/2011, relativa all’ assegno di maternità comunale) ; Tribunale di Perugia, sez. lavoro, sentenza n. 825/2011 (XX c. Ministero economia e finanze, INPS e Comune di Assisi, relativa alla pensione civile d’invalidità); Tribunale di Lucca, sez. lavoro, sentenza n. 32/2013 del 17 gennaio 2013 (relativa alla pensione di inabilità lavorativa per disabili); Tribunale di Bologna, sez. lavoro, sentenza dd. 30 settembre 2013 (R.G. 2313/2013) (relativa all’assegno sociale a favore del genitore ultra65enne di un lavoratore marocchino).
La stessa Corte di Cassazione, con la sentenza n. 17966/2011 depositata il 1 settembre 2011, ha compiuto nel frattempo un revirement rispetto al precedente giurisprudenziale che ha originato il caso Dhahbi dinanzi alla Corte di Strasburgo. La sentenza della Cassazione del settembre 2011 ha preso infatti atto della corretta portata applicativa della clausola di parita’ di trattamento in materia di sicurezza sociale contenuta negli Accordi euromediterranei, sottolineando che la prestazione allora in oggetto (un assegno di invalidità), pur costituendo prestazione assistenziale e non previdenziale, non impediva l’applicazione della clausola medesima, in quanto “non vi e’ sovrapposizione tra il concetto comunitario di sicurezza sociale e quello nazionale di previdenza sociale”. Infatti, la Corte di Cassazione aveva preso atto che “il concetto comunitario di sicurezza sociale deve essere valutato alla luce della normativa e della giurisprudenza comunitaria per cui deve essere considerata previdenziale una prestazione attribuita ai beneficiari prescindendo da ogni valutazione individuale o discrezionale delle loro esigenze personali, in base ad una situazione legalmente definita e riferita ad uno dei rischi elencati nell’art. 4 c. 1 del Regolamento n. 1408/71, dove sono incluse le prestazioni di invalidità”. La Corte di Cassazione, dunque, aveva concluso che “la Corte di Appello di Torino aveva fatto una corretta applicazione del principio di diritto secondo il quale il giudice nazionale deve disapplicare la norma dell’ordinamento interno, per incompatibilità con il diritto comunitario, sia nel caso in cui il conflitto insorga con una disciplina prodotta dagli organi comunitari mediante Regolamento, sia nel caso in cui il contrasto sia determinato da regole generali dell’ordinamento comunitario, ricavate in sede di interpretazione dell’ordinamento stesso da parte della Corte di Giustizia europea” (Cass. sentenza n. 26897/2009) [Per approfondimenti sulla clausola di parità di trattamento negli accordi euromediterranei, si rimanda anche al paragrafo 3.3.1.2. della guida pratica alla tutela civile contro le discriminazioni etnico-razziali e religiose (a cura di Walter Citti - . Aggiornata all'agosto 2013)].
Note
(1) Per l’Italia tale elenco include:
a) Pensioni sociali per persone sprovviste di reddito (legge n. 153 del 30 aprile 1969);
b) pensioni, assegni e indennità per i mutilati e invalidi civili (leggi n. 118 del 30 marzo 1971, n. 18 dell’11 febbraio 1980 e n. 508 del 23 novembre 1988);
c) pensioni e indennità per i sordomuti (leggi n. 381 del 26 maggio 1970 e n. 508 del 23 novembre 1988);
d) pensioni e indennità per i ciechi civili (leggi n. 382 del 27 maggio 1970 e n. 508 del 23 novembre 1988);
e) integrazione delle pensioni al trattamento minimo (leggi n. 218 del 4 aprile 1952, n. 638 dell’11 novembre 1983 e n. 407 del 29 dicembre 1990);
f) integrazione dell’assegno di invalidità (legge n. 222 del 12 giugno 1984);
g) assegno sociale (legge n. 335 dell’8 agosto 1995);
h) maggiorazione sociale (articolo 1, commi 1 e 12 della legge n. 544 del 29 dicembre 1988 e successive modifiche).