Articoli di Questione Giustizia su imparzialità
La norma del codice di procedura penale che prescrive al pubblico ministero di svolgere accertamenti anche su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini è segnata da un singolare destino. Per un verso essa è giustamente considerata una disposizione essenziale all’equilibrio del procedimento penale in quanto mira ad impedire che il potere investigativo degli organi dello Stato - di regola superiore alle capacità di indagine e di acquisizione di elementi di prova della persona indagata - possa tradursi in una iniqua e irrimediabile disparità tra le parti del processo, per effetto del mancato accertamento o dell’occultamento di fatti e informazioni favorevoli alla difesa. Al tempo stesso, nelle ricorrenti polemiche sul funzionamento della giustizia e nell’annosa querelle sulla separazione delle carriere, la regola processuale è oggetto, soprattutto da parte dell’avvocatura, di un radicale scetticismo e considerata alla stregua di una affermazione puramente teorica, contraddetta nella realtà effettuale. Entrambi questi dati – l’indiscusso valore, in termini di principio, della regola codicistica e l’insistita polemica pubblica sulla sua pretesa inosservanza e ineffettività – cospirano a rendere particolarmente insidiosa, e in taluni casi potenzialmente schiacciante, un’accusa di violazione che abbia una qualche parvenza di fondamento. È infatti grande e comprensibile l’inquietudine suscitata dall’ipotesi di un potere inquirente che scelga di ignorare i suoi doveri di imparzialità ed imbocchi la strada delle omissioni o del rifiuto di doverosi atti di giustizia pur di far prevalere nel processo la sua impostazione e le sue tesi. È opinione di chi scrive che questo timore ed il riflesso condizionato che ne deriva si siano manifestati a pieno nel procedimento per rifiuto di atti di ufficio nei confronti di Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro conclusosi con la condanna dei due magistrati. E però quanti vivono nel mondo del diritto sanno bene che i processi penali non si devono celebrare per ribadire astrattamente giusti principi, per placare inquietudini, per rassicurare animi turbati, ma per piegarsi, con attenzione, apertura e umiltà intellettuale sulle singole fattispecie concrete, quasi sempre uniche ed irripetibili, e per coglierne la dimensione oggettiva e i profili soggettivi. Di qui il dovere di non sentirsi aprioristicamente appagati da una pronuncia di condanna (peraltro accompagnata da feroci aggressioni verbali ai due magistrati per i quali “evidentemente” non vale la presunzione di non colpevolezza fino ad una sentenza definitiva) e la necessità di mettere in campo gli strumenti della distinzione, della critica, dello scandaglio psicologico per saggiare il risultato raggiunto nel primo grado di un giudizio particolarmente spinoso ma anche particolarmente carente e lacunoso. Per verificare se, davvero, atti incompleti e ancora in divenire, non formati dai pubblici ministeri procedenti ma provenienti da altro procedimento, determinassero, nella fase finale del dibattimento, un automatico ed incondizionato obbligo di deposito ai sensi dell’art. 430 c.p.p. e se l’omesso deposito possa essere considerato alla stregua di un comportamento doloso e punibile come rifiuto di atti di ufficio. Nelle pagine che seguono si tenterà di assolvere questo compito di verifica confidando che lettori che non si appagano di luoghi comuni e restano ostinatamente interessati alla verità abbiano la pazienza di immergersi nei meandri, spesso tortuosi, di una vicenda giuridica intricata e complessa.
L’importante contributo di Livio Pepino di recente apparso su questa rivista in tema di eccessiva enfasi spesso attribuita all’apparenza dell’imparzialità, intesa come indice rivelatore dell’inaffidabilità del giudizio di chi è chiamato a pronunciarlo in forma professionale, costituisce lo sfondo delle riflessioni che seguono, tendenti, come già avvenuto in passato, a circoscrivere su un terreno meno incerto e maggiormente suscettibile di verifica sperimentale il fondamentale tema dell’imparzialità del giudice. La cornice comparatistica consolida la prospettiva interpretativa qui offerta.
Un viaggio nella storia del pensiero giuridico alla luce dell’esperienza francese, sulle tracce di un concetto connaturato al funzionamento della giustizia, reattivo ai tentativi di soppressione o mascheramento tuttora capaci di incidere sul ruolo del magistrato all’interno della società. Una società complessa e plurale, di cui egli è parte attiva a pieno titolo. Nella lucida e personalissima testimonianza di Simone Gaboriau, l’imparzialità emerge come principio-cardine dell’ordine democratico, fondato – necessariamente – sull’indipendenza dei poteri che lo reggono.
Pubblichiamo il contributo nella versione italiana e nella versione originale francese.
Il tema dell’imparzialità del giudice, di cui molto si discute riferendosi soprattutto all’esercizio della giurisdizione penale, presenta spunti di interesse anche dal punto di vista civilistico. Se è ovvio che il giudice debba essere indipendente e imparziale, meno ovvio è cosa per “imparzialità” debba intendersi. Si pongono al riguardo tre domande: se e quanto incidono sull’imparzialità del giudice le sue convinzioni ideali e politiche e il modo in cui egli eventualmente le manifesti; se l’imparzialità debba precludere al giudice di intervenire nel processo per riequilibrare le posizioni delle parti quando esse siano in partenza sbilanciate; entro quali limiti la manifestazione di un qualche suo pre-convincimento condizioni l’imparzialità del giudice all’atto della decisione. Un cenno, infine, all’intelligenza artificiale e il dubbio se la sua applicazione in ambito giurisdizionale possa meglio garantire l’imparzialità della giustizia, ma rischi di privarla di umanità.
La presentazione dei curatori al nuovo numero di Questione giustizia trimestrale, dedicato all'imparzialità dei magistrati
L'editoriale del direttore di Questione giustizia al numero 1-2/2024 dedicato all'imparzialità dei magistrati
Dopo la fase del costituzionalismo politico che, superando la concezione dell’applicazione burocratica del diritto, aveva immesso la giurisdizione nell’attuazione dell’indirizzo politico-costituzionale, ponendo all’inizio dell’interpretazione del diritto i valori dell’interprete, nell’odierna stagione del costituzionalismo per principi l’imparzialità dell’interprete è affidata all’assunzione di un dovere di indipendenza da se stesso. Che il magistrato debba anche apparire imparziale non significa però astenersi dal prendere parte al dibattito democratico, cui il magistrato partecipa esprimendo le proprie scelte politiche al pari di ogni cittadino, ma significa essere ed apparire indipendente da formazioni politiche e soggetti operanti nel settore economico o finanziario, perché la sostanza dell’imparzialità è l’indipendenza.
E' diffusa presso ogni sistema giuridico la preoccupazione che sia sempre rispettato il canone dell'imparzialità dell'opera giudiziale affinché ai cittadini che vi si rivolgono la Giustizia -oltre ad essere rettamente amministrata -appaia circondata da garanzie sostanziali e processuali tali da sottarla al rischio di impropri condizionamenti legati alla persona ed ai comportamenti dei Giudici. L'esperienza giuridica inglese è particolarmente ricca di un pensiero, sviluppatosi sia in dottrina sia in giurisprudenza, modellato nel senso di creare come presupposto della violazione del canone stesso circostanze che ispirino nel cittadino anche il semplice, seppur ragionevole, timore che l'attività giudiziale non sia l'espressione della scienza e coscienza di chi la pone in essere. In particolare, tale presupposto si ritiene realizzato allorché risalti un nesso diretto tra le condizioni soggettive del Giudice e la decisione adottata nel singolo caso, escludendo l'automatica presunzione che il modo di esprimere la propria personalità mediante le libertà riconosciute dall'ordinamento sia di per sé indice sintomatico dell'allontanamento dalla via dell'imparzialità effettiva o anche semplicemente percepita. In altri termini, il diritto di common law europeo pretende sempre la severa dimostrazione, ai fini di una pronuncia caducatoria di provvedimenti giurisdizionali impugnati per la ricorrenza di un “bias” inteso come assenza nell'animo del giudicante di pregiudizi in contrasto con i suoi doveri funzionali, dell'immediata e provata incidenza sull'atto del suo stato soggettivo quale si ricava da comportamenti concreti e da specifici interessi in relazione alla questione oggetto del processo. Importanti e decisive indicazioni provengono dal grado più elevato della giurisprudenza del Regno Unito. La lezione che se ne ricava ben può orientare anche il dibattito nell'ordinamento italiano e consentire di ritenere, in perfetta sintonia con le regole codicistiche in materia di astensione e ricusazione, che solo la concreta riferibilità alla singola fattispecie da esaminare di circostanze riguardanti la persona del Giudice che inequivocabilmente disvelino un atteggiamento contrario ai doveri di imparzialità univocamente desumibile dal contenuto intrinseco del provvedimento possa giustificare la seguente conclusione. Da un canto, che sia rimasto inosservato l'obbligo di astensione e, d'altro canto, che la decisione possa dirsi affetta da un pregiudizio in misura tale da esporla al rischio della successiva caducazione in quanto immediato prodotto di tale improprio atteggiamento mentale.
Soltanto il rigorosamente verificato difetto di questi requisiti, e non altri sintomi esteriori quali le convinzioni personali rimaste ai margini del provvedimento, si rivela indice affidabile e consentito dell'avvenuta delusione dell'aspettativa collettiva di un'amministrazione imparziale della Giustizia, anche sotto l'aspetto dell'apparenza.