Questo fascicolo doppio della Rivista trimestrale è destinato a un tema che, sia per buone che per cattive ragioni, è al centro nella discussione nel Paese sulla magistratura. L’obiettivo del fascicolo è sceverare le buone dalle cattive ragioni e ricondurre il tema dell’essere e apparire imparziale del magistrato al suo fondo di realtà. Si tratta di un compito non facile. Per questo motivo abbiamo chiamato a discutere, sulla base di sollecitazioni già emerse nelle pubblicazioni online della Rivista (e qui ripubblicate), una pluralità di competenze e voci, anche di diversa estrazione ideale e culturale.
Per un verso bisogna depurare il senso comune, che va diffondendosi, dalle scorie derivanti dall’alterazione della discussione pubblica per la presenza di un obiettivo non di verità, ma di strumentalizzazione politica del tema. Dietro la contestazione di un deficit di imparzialità di taluni magistrati, sia nell’essere che nell’apparire, si cela l’antico conflitto fra la volontà di potenza della politica e la funzione di garanzia del diritto cui una serie di istituzioni sono preposte, in primis la magistratura. In molteplici occasioni la critica del magistrato non è genuina e innocente, ma è dettata dallo sconvolgimento dei piani della politica che l’applicazione di un diritto, non gradito al potere politico del momento, può avere determinato. È troppo scoperto il gioco di settori del mondo politico e culturale i quali, screditando l’immagine del giudice con l’argomento della sua parzialità, mirano a sconfessare una certa interpretazione del diritto.
Per altro verso, la legittima difesa delle ragioni del diritto e della funzione di garanzia, che la magistratura è chiamata ad assolvere, non può far chiudere gli occhi, a chi quelle ragioni voglia tutelarle, innanzi al nucleo di realtà e verità che il tema dell’essere e apparire imparziale del magistrato possiede. Il miglior modo per difendere le ragioni del diritto e dei giudici è guardare in faccia il problema e ricondurlo al suo principio di realtà e verità. C’è una densità del problema che va colta uscendo da visioni astratte e destoricizzate, secondo le quali il giudice dovrebbe essere e apparire imparziale sempre e alle stesse condizioni, si tratti dell’Areopago ateniese, della iurisdictio medievale, del magistrato della Francia post-rivoluzionaria o del giudice del costituzionalismo novecentesco. Il tema va ricondotto alla storia ed alla contemporaneità e indagato in questa direzione. Anche questo significa, nell’ordine: fare pulizia nel dibattito pubblico – facendo anche terapia rispetto al linguaggio –; sgombrare il campo da false supposizioni; andare al nocciolo del problema.
Si tratta di scrivere lo statuto dell’imparzialità del magistrato in una moderna società democratica. I primi ad essere impegnati in questa direzione dovrebbero essere proprio i magistrati. Vivere in una società democratica significa essere “costretti” alla discussione collettiva sulla res publica. La libertà di espressione è parte della concezione repubblicana di cittadinanza, secondo la quale il principio democratico non risiede solo nell’urna elettorale, ma nella partecipazione alla costruzione dell’opinione e della volontà pubblica su ciò che è bene per una comunità. I magistrati, come ogni cittadino, partecipano a pieno titolo a questo ricco processo democratico, e possono farlo anche con una dote di equilibrio e misura, come richiesto dalla Corte costituzionale, ciò che può essere un valore aggiunto nella discussione pubblica, se essi sono in grado di mettere a profitto quello che l’arte del giudicare ha consentito loro di apprendere.
L’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e non il manuale del buon magistrato di una democrazia illiberale, ricorda, tuttavia, che per legge possono essere fissate condizioni e restrizioni alla libertà di espressione a garanzia dell’imparzialità del potere giudiziario. È significativo che la giurisprudenza della Corte Edu in argomento sia relativa a una casistica che proviene per lo più da Paesi nei quali sono emerse (perlomeno) criticità quanto al rispetto delle regole dello Stato di diritto, e si è trattato di pronunce favorevoli alla persona del giudice[1]. In condizioni critiche per lo Stato di diritto, come ricorda il caso Żurek c. Polonia, del 16 giugno 2022, «il diritto generale alla libertà di espressione dei giudici nell’affrontare questioni riguardanti il funzionamento del sistema giudiziario può trasformarsi in un corrispondente dovere di parlare in difesa dello Stato di diritto e dell’indipendenza giudiziaria quando questi valori fondamentali sono minacciati». Ciò nondimeno, la norma convenzionale resta un monito per quei sistemi in cui lo Stato di diritto non è in discussione. Una “società democratica”, proprio perché fondata sul principio di autonomia individuale, ha bisogno di regole per essere salvaguardata. Come le condizioni e restrizioni devono essere necessarie, nel senso di proporzionate secondo la giurisprudenza convenzionale, così anche l’autonomia individuale – ce lo ricorda l’incipit della Costituzione italiana a proposito della sovranità democratica – non può essere esercitata senza forme e limiti. Come si è anticipato, i magistrati dovrebbero essere i primi ad essere impegnati nella corretta definizione dei limiti alla loro libertà di espressione.
Le regole non mancano. Vi è l’illecito disciplinare della partecipazione alla vita di partito, ma anche del coinvolgimento nelle attività di soggetti economici o finanziari, e quello dell’ingiusto danno o indebito vantaggio arrecato a una delle parti violando i doveri di imparzialità e riserbo. C’è, poi, tutta la disciplina processuale sull’astensione e la ricusazione (con l’illecito disciplinare nel caso di consapevole inosservanza dell’obbligo di astensione nei casi previsti dalla legge). Ma l’impegno del magistrato sui limiti della libertà di espressione, nella moderna società democratica, è innanzitutto su quanto si prospetta prima dell’intervento delle regole.
La garanzia prima per il magistrato è l’indipendenza, perché un giudice imparziale è un giudice indipendente, mentre non è imparziale, o quantomeno non appare tale, un giudice che lasci trasparire appartenenze eteronome. Per apparire imparziale, il magistrato deve perciò curare di apparire indipendente. È questo il primo imperativo categorico. Deve inoltre curare di apparire imparziale, ma questo non significa celare le proprie convinzioni politiche e culturali. Come abbiamo detto, vivere in una società democratica significa essere “costretti” a esprimere il proprio pensiero perché è parte della cittadinanza l’essere parte di una discussione su ciò che è pubblico. La professionalità del magistrato sta anche, però, nel saper comprendere quando determinati comportamenti, in determinate circostanze, non consentono a una delle due parti in giudizio di fare affidamento sulla capacità del giudicante di guadagnare un’equidistanza fra le opposte ragioni che si contendono la scena del giudizio. Quello che bisogna valutare è «se, indipendentemente dalla condotta personale del giudice, taluni fatti verificabili autorizzino a sospettare l’imparzialità di quest’ultimo. Sotto questo profilo, anche le apparenze possono avere importanza. L’elemento in gioco, ancora una volta, è la fiducia che i giudici, in una società democratica, devono ispirare ai singoli, a iniziare dalle parti del procedimento» (Corte di giustizia dell’Ue, C-585/18, 19 novembre 2019).
Questo fascicolo vuol essere uno strumento, prima di tutto, per i magistrati. Un piccolo manuale su come orientarsi tra i flutti della società democratica, ma anche su come difendersi – rectius, come difendere l’istituzione giudiziaria – dalle critiche mosse da un secondo fine, quando è necessario e opportuno farlo. C’è poi la platea degli addetti ai lavori, ma il fascicolo è diretto non solo a loro, ma anche a quella che si suole definire “opinione pubblica”, affinché sul tema di questa Rivista trimestrale, come su ogni tema del dibattito democratico, possa crescere competente e informata.
[1] Vds. F. Buffa, La Libertà di espressione dei magistrati e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Questione giustizia online, 9 giugno 2022, ripubblicato in questo fascicolo.
Rita Sanlorenzo, avvocata generale, Procura generale Corte di cassazione, vicedirettrice di Questione Giustizia
Enrico Scoditti, consigliere della Corte di cassazione