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L’apparenza dell’imparzialità del giudice: i pericoli di una formula fortunata *

di Mario Serio
Professore di Diritto Privato Comparato presso l'Università di Palermo, già componente di nomina parlamentare del CSM nella consiliatura 1998-2002

L’importante contributo di Livio Pepino di recente apparso su questa rivista in tema di eccessiva enfasi spesso attribuita all’apparenza dell’imparzialità, intesa come indice rivelatore dell’inaffidabilità del giudizio di chi è chiamato a pronunciarlo in forma professionale, costituisce lo sfondo delle riflessioni che seguono, tendenti, come già avvenuto in passato, a circoscrivere su un terreno meno incerto e maggiormente suscettibile di verifica sperimentale il fondamentale tema dell’imparzialità del giudice. La cornice comparatistica consolida la prospettiva interpretativa qui offerta.

Il tema dell’imparzialità del giudice continua ad essere accostato a note vicende riguardanti il trattamento giurisdizionale del fenomeno migratorio svoltesi nell’estate del 2023. Da esse si è preteso di trarre argomento per rinverdire, rafforzare, e probabilmente anche deviare, la nozione di imparzialità. Non appare utile tacere della particolare vicenda dalla quale il dibattito secolare ha tratto ulteriore alimento nella nostra esperienza. Si trattava, in particolare, dei riflessi che si pretendevano di trarre da una particolare declinazione della personalità umana di una giudice che aveva partecipato in un passato per nulla recente ad una manifestazione pubblica in occasione di una delle drammatiche vicende che riguardano l'approdo dei migranti alle coste siciliane. Quella stessa giudice, a distanza di oltre cinque anni, era stata chiamata a pronunciarsi su una questione giuridica del tutto peculiare non soltanto per la peculiarità degli aspetti che la riguardavano, ma soprattutto perché del tutto nuova, cioè riguardante l'interpretazione di norme entrate in vigore da pochi mesi e quindi, come tali, escluse dal perimetro della manifestazione che traeva origine appunto da vicende non soltanto fenomenicamente diverse ma costituenti oggetto di una innovativa disciplina di legge. Si è suggestivamente posto il problema se la pronuncia di quel giudice potesse o meno dirsi influenzata da un privato e risalente accadimento, che si sospettava potesse integrare il cosiddetto bias inteso come atteggiamento mentale riflettente un pregiudizio del giudice nei confronti dell'oggetto della controversia o nei confronti delle parti o di una di esse. Ci si è chiesti, molto spesso prefigurando una risposta pregiudizievole per l’immagine della giudice, a proposito della vicenda in esame se quella partecipazione alla manifestazioni fosse in qualche modo geneticamente collegata, in quanto sintomo ideologico, di una pronuncia che (detto in maniera molto spiccia) si è mossa in senso contrario a una normativa che ha notevolmente modificato l'assetto dei rapporti tra autorità ricevente e migranti, in un senso sempre più di frequente ritenuto decrementale della posizione soggettiva dei migranti.
Non si ricusa qui di prendere lo spunto da questo episodio, perché esso, letto in un contesto conoscitivo esteso anche ad esperienze straniere, è esemplare delle gravi distorsioni che si sono andate creando non soltanto nella letteratura giuridica, ma anche nell'opinione pubblica, a proposito della locuzione “imparzialità del giudice” e del suo complemento in termini di apparenza.

Si cercherà di vedere, anche grazie allo sguardo lungo, rivolto all'esperienza del common law inglese, come queste distorsioni, da un canto, non siano provviste di un'adeguata piattaforma che le sorregga scientificamente, ma soprattutto siano (il che forse è anche più grave) venate da un grave pregiudizio ideale che le contamina fino a renderle effimere.

Partiamo da un dato che è direttamente collegato ad un'espressione molto fortunata, anche fin troppo. E proprio questa fortuna, eccedente forse i meriti dell'espressione stessa, ha agevolato la circolazione degli equivoci concettuali che si tenterà di snidare per riportare la delicata questione dell'imparzialità del giudice verso un binario di congruenza e di rigore logico e metodologico. Ormai non mancano occasioni in cui i più o meno informati della materia giuridica snocciolino lo slogan: il giudice non solo deve essere, ma deve apparire imparziale. È un'affermazione di per sé ai limiti dell'ovvio. È ovvio cioè che attraverso questa espressione si tenda, per così dire, a richiamare il giudice a dei comportamenti esteriori riconducibili al tema della riservatezza, della continenza verbale e, più in generale, ad un contegno compatibile con le norme deontologiche che ne regolano lo statuto. Fin qui nulla di male. Dire che il giudice deve nell'ambito della propria attività, ma anche nell'ambito della conduzione della propria esistenza, ispirare il proprio comportamento a misura, equilibrio e pacatezza espressiva non soltanto non cambia i destini del mondo, ma è anche una sana regola di prudenza.
Cosa invece dal largo uso di questa espressione può attingere il livello della disinformazione e quindi costituire un'autentica deroga allo statuto epistemologico che deve guidare l'espressione?
Il pretendere che l'apparenza della imparzialità debba trasformare la figura, si direbbe la persona del giudice, in una sorta di automa inespressivo e privo di senso critico e soprattutto di collegamento con la realtà, con la vita e con la propria stessa esistenza.

Sui pericoli di slittamento su questo improprio piano valutativo occorre essere molto vigili. Pretendere che il giudice agisca e si comporti con misura, con equilibrio, con senso della proporzione della propria missione è una pretesa costituzionalmente fondata che ogni cittadino può nutrire nei confronti di chi è destinato a giudicare di lui, dei suoi beni, della sua libertà, in una parola della sua intera sfera giuridica. Andare alla ricerca di una improbabile, forse razionalmente inesigibile, figura di un giudice inerte, silente, disarticolato intellettualmente non soltanto non trova fondamento normativo, ma addirittura costituisce un grave arretramento sul piano della tenuta costituzionale del nostro sistema giudiziario.

Il giudice bocca della legge ma non bocca di se stesso; il giudice, cioè, puro applicatore di un enunciato normativo inanimato, astorico, atemporale, cui però sia preclusa la partecipazione alla vita sociale, a quel dinamismo da cui le leggi, specialmente in particolari periodi storici traggono alimento, è un grave pericolo per la democrazia.

Ecco un esempio molto banale. Si può pensare che ad un giudice il quale si sia separato legalmente dalla moglie, a seguito di una controversia anche aspra, debba essere inibito di pronunciarsi su una causa di divorzio o di separazione, perché quella causa potrebbe - come umanamente è possibile che accada - far riaffiorare in lui sentimenti sgradevoli, sentimenti di avversione? Un giudice dal soffitto della cui abitazione piovano dei calcinacci dall'appartamento superiore a seguito di una incuria nella amministrazione da parte del proprietario potrà o non giudicare di una causa di infiltrazioni? Sono banalissime e quotidianamente registrabili evenienze che prendono corpo nei palazzi di giustizia. Il punto è molto delicato. Apparirebbe inaffidabile il giudice che stabilisse un assegno di mantenimento a favore del marito, contraddicendo magari una linea giurisprudenziale che vede l'attribuzione dell'assegno di mantenimento normalmente alla moglie solo perché quel giudice anni prima era incorso nella situazione opposta, cioè di essere destinatario di un obbligo di mantenimento?

Allo stesso modo sarebbe sospettabile di bias, il giudice che, essendo rimasto vittima della incuria del proprietario dell'appartamento sovrastante, condannasse il danneggiante nella nuova causa che gli viene assegnata?

Teniamo presenti queste circostanze e soprattutto le ricadute sul piano del concreto funzionamento della giustizia.

Sarebbe davvero impensabile una organizzazione dell'ordinamento giudiziario talmente occhiuta e attenta da precludere l'esercizio dell'attività giurisdizionale a tutte quelle persone-giudici, le quali abbiano vissuto esperienze di vita comunque riconducibili alla concreta esperienza che egli o ella è chiamata a giudicare.

Si ha già, quindi, un formidabile argomento di carattere pratico ostativo ad una costruzione della figura inanimata, puramente astratta e destituita di palpabile umanità del giudice. Abbiamo un argomento che si convertirebbe, ove portato alle estreme conseguenze, come da parte di taluno si pretende, in un ostacolo al retto funzionamento della giustizia.
Ma occorre progredire lungo la strada della demistificazione della formula imparzialità del giudice, valorizzata esclusivamente sul versante dell'apparenza o, magari, sull’esubero, sull'eccesso di apparenza del giudice. Occorre cioè munire di un serio fondamento scientifico la questione: si anticipa che la conclusione cui si perverrà è nel senso che per attribuire un senso compatibile con la complessiva struttura dell'ordinamento, con i suoi fondamenti costituzionali e con le regole basilari per un buona amministrazione della giustizia, occorre circoscrivere la locuzione e la relativa nozione di imparzialità del giudice affidandola ad un terreno concretamente, empiricamente verificabile, quello della normativa processuale. E quindi descrivere delle ipotesi violative dell'obbligo di imparzialità del giudice, tutte capaci di rinvenire delle solide ed incontrovertibili manifestazioni: esattamente quelle che, per restare all'esperienza italiana, ci consegna il combinato disposto degli articoli 51 e 52 del codice di procedura civile, rispettivamente disciplinanti i casi di astensione e ricusazione del giudice. Questo è il terreno sul quale solidamente, senza incertezze, occorre incamminarsi per aggirare quegli equivoci, quelle autentiche trappole prima sommariamente descritte. Per arrivare però a questa conclusione, mai come in questo caso è opportuno avvalersi della adibizione di quello comparatistico come metodo, al tempo stesso euristico ed anche di verifica della costruzione teorica appena illustrata.

L'esperienza giuridica inglese è la stessa alla quale si deve accreditare o addebitare, a seconda dei punti di vista, la fortuna dell'espressione “the judge must not only be but needs to appear impartial” che in quell’ordinamento ha trovato origine. E allora si potrebbe sommariamente concludere che se quella è la patria che segna gli albori dell’espressione, la stessa deve essere anche il luogo che più abbia coltivato di quella espressione, l'immagine deformata cui sono dedicate queste riflessioni.

In effetti, le cose non stanno affatto così. Anzi, a dispetto della diffusa circolazione dell'espressione, essa, osservata nella sua stretta dimensione giurisprudenziale inglese, denuncia l'esatto contrario.

Di questo si può dare una dimostrazione, adottando necessariamente come metodo di indagine quello comparatistico, declinato sulla peculiarità dell'ordinamento di riferimento. Se il metodo comparatistico implica, ce lo insegna Gorla ed è indelebile l'insegnamento, che comparare significa misurare differenze ed analogie tra ordinamenti, allora si deve adottare il criterio di indagine che sia più appropriato all'ordinamento cui ci si riferisce. Non si può commettere il grave peccato di arroganza intellettuale, immaginando di saper conoscere, giudicare e descrivere l'ordinamento inglese adottando i metri e i metodi di conoscenza e di giudizio critico propri dell'esperienza italiana. Sarebbe un sintomo di presunzione la cui sanzione sarebbe unica, cioè la frapposizione di un ostacolo assolutamente insormontabile alla conoscenza del diritto inglese.

Con umiltà e senso di realismo, ci si deve avvicinare all’ordinamento inglese avvalendosi dello strumentario che è proprio dei giuristi britannici. E lo strumentario non può che essere globalmente costituito dalla fonte fondamentale di produzione del diritto inglese, il common law. 
Ed allora, il metodo da utilizzare per approdare alla nozione inglese di imparzialità del giudice è quello fondato sull'esame analitico e scrupoloso della giurisprudenza da cui si ricava la regola giuridica vigente in quel sistema ordinamentale.

Precedente giuridico, quindi, di forza, effetto e struttura, ma non origine, sostanzialmente identificabile con quelli della norma di legge italiana. Si deve, pertanto, guardare ai dicta, alle pronunce o a singole parti di esse della giurisprudenza inglese, come alla fonte del diritto, cioè come all'enunciato normativo destinato a regolare una determinata situazione giuridica. Questo è l'abito mentale da indossare per non vedere schermato il nostro sguardo rispetto al diritto inglese. Effettivamente quell’ordinamento, già nella seconda metà del diciannovesimo secolo, contava pronunce del tipo di quella prima indicata che richiama l'esigenza che il giudice “appears to be impartial”, appaia essere imparziale.

Sicuramente l'espressione è suggestiva, l’espressione ispira sentimenti virtuosi e sembra collocare chi la usa sul piedistallo di giudice dei giudici, sempre pronto ad additare le paventate deroghe rispetto allo statuto dell'imparzialità. Giova ribadire che, se portata alle sue estreme e negative conseguenze, l’espressione rischia di avviare alla identificazione di una condizione psicologica pregiudizialmente delegittimante il giudice. Questo è un rischio da rifuggire per la stabilità del sistema.

Il giudice che tifa allo stadio non è un buon giudice? Il giudice che assista ad un concerto rock, che recensisca negativamente uno spettacolo teatrale o cinematografico è automaticamente un giudice inaffidabile? Magari, potrebbe essere privo di imparzialità nel momento in cui dovesse giudicare dei diritti d'autore di una determinata rappresentazione, che egli ha screditato sul piano estetico in quanto parrebbe aver anticipato il proprio giudizio. Fatte questa debita eccezione, si può davvero legittimamente arrivare a conclusioni così drastiche?
Va data con molta nettezza risposta negativa all’interrogativo perché la giurisprudenza inglese ha, a cospetto di una affermazione teorica talmente impegnativa, adottato un modello di ragionamento, cioè un modello di decisione delle fattispecie nelle quali si era evocato il principio della necessaria imparzialità e della necessaria apparenza dell'imparzialità, in forma contraddittoria rispetto al risultato che si attende dalla sovraenfatizzazione del riferimento alla sola “apparenza”. C’è da chiedersi allora quale debba essere il metro di giudizio plausibile. 

Troviamo una sentenza di scultorea e decisiva chiarezza inglese del 1852. Si discuteva appunto della legittimità di una sentenza in materia societaria in cui si controverteva dell'acquisto e della circolazione del pacchetto azionario di una società di capitali inglesi. La sentenza era stata redatta collegialmente e del collegio faceva parte un giudice che a propria volta era azionista di quella società.

Qui si possono indossare due paia di occhiali differenti.

Il giudice appariva imparziale (o non appariva imparziale) ovvero il giudice era portatore di un interesse rispetto alla decisione della causa? Questa è la domanda da porsi.
Che il giudice non apparisse imparziale è un dato di fatto incontrovertibile. Ma dobbiamo chiederci l'origine della mancata apparenza di imparzialità, che non era un generico atteggiamento morale, culturale, intellettuale, pratico del giudice, ma era una ragione molto più facilmente aggredibile sul piano materiale. Ed era il fatto che il giudice fosse portatore di un interesse proprio nella causa che era chiamato a giudicare perché si trattava di decidere in ordine al destino di azioni societarie delle quali il giudice era contitolare.
In questo caso si ha la plastica dimostrazione della contemporanea ricorrenza del paradigma del difetto di apparenza di imparzialità perché sorretto quello assorbente della presenza di un interesse nella causa da parte del giudice.

E quindi fu facilmente percorsa la via dell'annullamento della sentenza per effetto di una condizione soggettiva, immediatamente accertabile, del giudice che in sostanza era anche una parte in causa perché in quel procedimento si discuteva pure di un suo indiretto interesse patrimoniale.
E’ evidente la ricalibratura della roboante espressione - allargamento della progenitrice sull’apparenza dell’imparzialità - che il giudice deve essere come la moglie di Cesare. Si possono riempire pagine di rotocalchi con questa non meno fortunata e suggestiva espressione, ma poi la carne e il sangue vivo dell'esperienza giuridica inglese ci dicono che il problema non era il difetto dell’apparenza dell'imparzialità quanto la violazione netta del principio “nemo iudex in re propria”; il giudice era in quella causa che lo riguardava anche attore protagonista della decisione. Ecco, questa è la prima forma di smitizzazione del principio dell'apparenza dell'imparzialità che deve convertirsi nel principio (di cui si darà un'ulteriore dimostrazione) della presenza di un interesse all'esito della causa da parte del giudice.
Se si scorre idealmente il filo che lega le due espressioni si nota la contrapposizione tra l’impalpabilità del difetto di apparenza e di imparzialità e la concretezza del capo del filo che si annoda attorno al concetto di interesse concreto, materiale, economico o anche di altra natura, come causa capace di offuscare il requisito della terzietà.

Riferiamoci adesso ad un precedente del 1999 dell'allora Appellate Committee della House of Lords, cioè a quella sua sezione dedicata alla risoluzione, in sede di ultima istanza, di questioni giurisdizionali. Oggi questa competenza è, dopo l'emanazione del Constitutional Reform Act del 2005, svolta dalla UK Supreme Court, che viene definita ultimate Appellate Court, cioè la Corte di ultima istanza. Venne all'esame della House of Lords un caso di grande delicatezza e di risonanza mondiale. I giudici erano chiamati a decidere in ultima istanza della fondatezza e quindi dell'accoglibilità di una richiesta formulata dal governo spagnolo del tempo, di estradizione del sanguinario dittatore cileno Augusto Pinochet per la commissione di delitti contro l'umanità. Il governo spagnolo chiedeva che venisse estradato Pinochet perché potesse giudicarlo per crimini contro l'umanità: tra questi il brutale assassinio di Salvador Allende, presidente legittimamente eletto.

La House of Lords venne investita dai legali di Pinochet, che chiedevano l'annullamento della decisione delle corti inferiori, High Court e Court of Appeal, pronunciatesi nel senso della accoglibilità della richiesta di estradizione. 

La House of Lords confermò quelle pronunce, dichiarando estradabile Pinochet e soprattutto escludendo che godesse della titolarità della immunità derivantegli dalla cessata carica di capo dello Stato, che i suoi difensori avevano pur allegato.

A distanza di pochi giorni dalla pronuncia della House of Lords, i legali di Pinochet con un ricorso straordinario - perché riflettente una fattispecie che fino ad allora non era mai stata coltivata nella giurisprudenza inglese - chiesero che la House of Lords in diversa composizione esaminasse in via d'urgenza il proprio ricorso diretto all'annullamento della precedente sentenza, in quanto del collegio che si era pronunciato a favore dell'estradizione con una maggioranza di tre a due faceva parte un giudice, Lord Hoffmann, tra l'altro un campione del liberalismo giudiziario inglese, la cui moglie lavorava per la branca inglese di Amnesty International volontariamente intervenuta nel giudizio in ausilio delle ragioni del governo spagnolo.

Si scoprì anche che lo stesso Lord Hoffmann era co-direttore - carica esercitata appunto in concorso con un'altra persona e a titolo gratuito - di una filiale del braccio operativo commerciale di Amnesty International, entità sicuramente non coincidente con la Amnesty International che era intervenuta nel giudizio, ma che ne costituiva una sorta di complemento.

Erano, quindi, sostanzialmente due le ragioni che si convertivano in una sorta di ricusazione posticipata, un non sense dal punto di vista giuridico, implicando, la deduzione di cause di nullità della sentenza riferibili all'impiego della moglie del giudice presso Amnesty International ed allo svolgimento di una attività del giudice in favore di una sorta di società satellite di Amnesty International, parte volontariamente intervenuta in causa.

Esaminiamo partitamente le due questioni. Dal punto di vista logico avrebbe dovuto acquistare carattere di preliminarietà quella della esistenza di un rapporto di servizio tra la moglie del giudice e una delle parti in causa; mentre la questione afferente al ruolo del giudice rispetto ad un soggetto solo legato incidentalmente e genericamente alla parte in causa appariva cedevole rispetto al tema fondamentale: può un giudice giudicare in una controversia nella quale parte sia un soggetto da cui dipende, lavorativamente parlando, la moglie?

Il problema logicamente preliminare alla fine sembrava incarnare nella assoluta interezza di conseguenze il monito sulla moglie di Cesare, a proposito dell'apparenza di imparzialità. 

La seconda questione, quella del legame indiretto del giudice rispetto a una delle parti in causa aveva una natura più strettamente tecnica, meno appariscente e clamorosa dell'altra.

La House of Lords si vide regalare su un piatto d'argento l'occasione per esaltare l'idea dell'apparenza e dell'imparzialità come caposaldo della solidità dell'intero sistema giudiziario.

Avrebbe potuto approfittarne, incontrando peraltro anche i favori dell'opinione pubblica e della dottrina, se avesse invocato, applicandola, la nota locuzione Cesarea. Al contrario, i supremi giudici con grande prudenza e non minore saggezza decisero di invertire l'ordine delle questioni con un piccolo arbitrio argomentativo e preferirono affrontare di petto soltanto quella del ruolo del giudice rispetto alla parte in causa e quindi omettere di pronunciarsi sul punto dell’attività lavorativa della moglie di Lord Hoffmann.

Il ragionamento della House of Lords fu esattamente quello della corte che aveva giudicato nel caso del 1852 prima citato.

Anche nel caso più recente il punto fondamentale era quello dell'esistenza o meno di un interesse del giudice alla definizione della causa. Ed anche qui Lord Hoffman poteva avere un interesse ad un esito favorevole della causa per il soggetto al quale egli era indirettamente legato. Ed infatti, fu ritenuto fondato il ricorso proposto dai legali di Pinochet ed annullata l’estradizione, che sarebbe stata poi ulteriormente confermata da altro collegio cui la causa era stata nel frattempo rinviata.

Si rifletta sul substrato del ragionamento della House of Lords.

Essa si trovò di fronte ad un bivio, potendo scegliere tra l'enfatizzazione del principio dell'apparenza, quello stesso che tanti corifei della nostra esperienza giuridica elevano a vessillo della solidità dell'ordinamento giudiziario ovvero l'argomento di diretta, tangibile verificabilità della ricorrenza di un interesse del giudice alla decisione della controversia. Non ebbe alcun dubbio nel ritenere, con una maggioranza di quattro a uno - ma il quinto giudice era dell’opinione che dovesse escludersi la ricorrenza di qualsiasi causa produttiva della nullità -, di dover battere in breccia la strada più sicura, la più conducente, la meno soggetta a manipolazioni concettuali ed affermare che vanno annullate le sentenze di un giudice che sia portatore di un interesse rispetto alla decisione della causa.

Si mettano a confronto, i due valori astrattamente predicabili nel caso di fattispecie: uno, impressionistico ai limiti della inafferrabilità, impalpabile, possibilmente eludibile, della generica apparenza di imparzialità e l'altro, concreto, che soddisfa l’interesse del cittadino, assicurandogli di non avere un giudice che sia portatore di una qualche forma pretensiva di interesse rispetto alla decisione della causa.

Questo è quello che conta. C’è da temere dell’operato di un giudice che possa trarre beneficio o nocumento da una data piega della causa, ma non di un giudice che in termini puramente congetturali, che prendano soltanto spunto da un'indebita introspezione nel suo intimo apparato conoscitivo, valutativo, esistenziale, possa introdurre nella propria sentenza opinioni e sentimenti personali.

Ancora un terzo caso che davvero sembra dipinto col pennello, riporta alla vicenda etnea dell’estate del 2023.

Nei primi anni del secondo millennio alla House of Lords è stata devoluta una fattispecie molto rilevante che riguardava ancora una volta l’estradabilità di un cittadino straniero verso il proprio paese d'origine nel quale era accusato di gravi reati.

La fonte dell'accusa era costituita da confessioni che, sulla base di incontrovertibili risultanze processuali, erano state estorte attraverso tortura inflitta dagli organi di polizia.

Punto fondamentale da decidere era, quindi, se esistesse la giurisdizione inglese relativamente a condotte ascrivibili al concetto di “inhuman and degrading treatment” ascrivibile a tortura secondo la Convenzione ONU e se, quindi, l'inflizione di questi comportamenti costituisse ragione impeditiva della estradizione. Con una bellissima sentenza del 2005, la House of Lords dichiarò non estradabile il cittadino (in un’ottica non dissimile la King’s Bench Division della High Court inglese nel marzo 2024 ha autorizzato Julian Assange ad impugnare la decisione dello Home Office di estradarlo negli Stati Uniti: a seguito di tale decisione il governo richiedente ha rinunciato nei mesi successivi alla propria pretesa, consentendo la liberazione, verso il proprio paese d’origine, del cittadino australiano fino ad allora detenuto nel Regno Unito).

Vi è un aspetto relativo alla sentenza che, pur non avendo mai costituito oggetto di particolari commenti o stupore in Inghilterra, è ricco di significato ai nostri fini di ricerca.

Due dei cinque giudici della House of Lords, due grandi paladini delle libertà civili inglesi, Lord Hope of Craighead, scozzese, e Lord Bingham of Cornhill, autore di quel magnifico volume sul fondamento dello stato di diritto inglese pubblicato pochi mesi prima della sua morte ed intitolato The rule of law, avevano scritto, rispettivamente un anno e pochi mesi prima della sentenza, alla cui redazione avevano contribuito, due saggi scientificamente molto solidi ma anche molto severi sul ripudio della tortura e conseguenzialmente sui negativi effetti della sua inflizione ai fini della estradizione in paesi nei quali essa fosse praticata. Formalisticamente esaltando il puro piano dell'immagine ed in applicazione del broccardo sulla necessità dell’apparenza dell’imparzialità i due autori-giudici sarebbero stati privi del requisito perché avevano dichiarato in articoli scientifici - pubblicati tra l'altro sulla Law Quarterly Review, la più prestigiosa rivista giuridica inglese - un atteggiamento di bias, di vero pregiudizio contro la tortura, attorno alla quale ruotava l’ammissibilità della richiesta di estradizione.

Se si volesse applicare con rigore geometrico il criterio della moglie di Cesare e della semplice dell'apparenza dell'imparzialità, i due componenti la House of Lords si sarebbero trovati in una posizione addirittura deteriore rispetto a quella della giudice catanese: essi, infatti, avevano espresso un’opinione inequivocabile, recisa sul punto della ostatività della applicazione di trattamenti inumani e degradanti rispetto alla richiesta di estradizione.

Mai in effetti non successe nulla, e non tanto perché il caso già di per sé interpellava la ribellione delle coscienze verso la tortura come mezzo di acquisizione di prove, ma perché nessuno mai si sarebbe preso la briga di rimproverare a giudici come Lord Bingham of Cornhill, una delle figure iconiche del common law inglese, una presa di posizione civile, culturale, ideale, per sostenere la quale aveva momentaneamente dismesso i panni giurisdizionali per indossare quelli del cultore del diritto, dello studioso, dello scienziato, dell'intellettuale. E non erano affatto panni contrastanti con quelli poi paludati che avrebbe indossato come giudice della House of Lords.

Ed allora è tempo di arrivare al nocciolo del discorso.

Vanno adottati come stella polare per valutare il difetto o sperabilmente la presenza del requisito dell'imparzialità due modelli perfettamente sovrapponibili l’uno rispetto all’altro:

1. mutuando dall’esperienza inglese, l'esistenza di un interesse diretto, concreto ed attuale del giudice alla decisione della causa;

2. applicando il parametro costituito dagli articoli 51, 52 del codice di procedura civile, con l'avvertenza che la formula vaga e generica, “gravi ragioni di convenienza” ha una scarsissima incidenza pratica proprio per la sua ardua configurabilità in concreto. È, infatti, opera impervia quella tendente alla specifica individuazione di tali ragioni. La giurisprudenza italiana è comprensibilmente molto severa nell'escludere questa possibilità perché consegnerebbe la persona del giudice all'arbitrio della parte, consentendole di ravvisare gravi ragioni di convenienza che dovrebbero portarlo il giudice all'astensione anche in relazione a qualunque espressione, in forma individuale o all’interno di formazioni sociali, della sua personalità: libertà che non può che rimanere costituzionalmente protetta. L’opposta, e sfortunatamente non isolata, visione indebolirebbe in modo irreversibile il principio del giudice naturale precostituito per legge.

In questo più arioso perimetro concettuale, suffragato dal raffronto con la nobile e collaudata esperienza giuridica del common law inglese, può convenientemente trovare collocazione la portata - immeritevole di irragionevole estensione e soverchia enfasi - dell’apparenza del difetto di imparzialità giudiziaria come valore in sé piuttosto che quale semplice, non decisivo e controvertibile sintomo dell’insussistenza dell’imparzialità stessa.

[*]

Il testo, opportunamente rivisto, riproduce la lezione tenuta presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Palermo, l’11 marzo 2024, nel corso di Diritto Processuale Civile di cui è titolare il Professor Federico Russo.

23/10/2024
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