1. Le vicende degli ultimi anni, e quelle delle ultime settimane in particolare, confermano che chi esercita il potere ricerca consensi e non ama le critiche. E chi non ha cultura democratica e costituzionale, non riesce neppure a tollerarle; non sopporta le istituzioni di garanzia e la libera stampa, tanto meno sopporta le critiche. Se questo avviene nel 2024, dopo 76 anni di vigenza della Costituzione repubblicana, non è difficile immaginare quanto fossero intollerabili le critiche negli anni ‘60, tanto più che il potere, qualunque potere, era assolutamente refrattario ad accettare il pluralismo culturale, sociale e politico.
Soltanto il potere legislativo era stato più volte oggetto di critiche da parte di un’opinione pubblica (peraltro molto ristretta) nel corso dell‘800 e dei primi decenni del ‘900. La curvatura totalitaria del ventennio fascista aveva poi impedito ogni tipo di critica al governo se non a prezzo di rilevanti rischi per la libertà e l’incolumità dei dissenzienti.
Il potere meno abituato alla critica pubblica era quello giudiziario, per il quale qualsiasi critica, diversa da quelle paludate delle riviste giuridiche per addetti ai lavori, costituiva una assoluta e indigesta novità.
Se vogliamo essere davvero laici, nel momento in cui discutiamo di controllo e di critica all’esercizio del potere, dobbiamo tenere conto che il potere (quale che sia, politico, economico, giudiziario) ha un connotato tendenzialmente insofferente alla critica.
2. È con questa consapevolezza che dobbiamo affrontare la questione delle critiche dei magistrati ai provvedimenti giudiziari, questione esplosa con il cosiddetto “ordine del giorno Tolin”. Fu in tal modo denominato dalla stampa un documento, approvato da una assemblea di Md a Bologna il 30 novembre 1969, in occasione di un ordine di cattura facoltativo, disposto dalla Procura di Roma nei confronti di Francesco Tolin per i reati di apologia di reato e istigazione a delinquere in relazione ad un articolo comparso sul periodico Potere operaio, di cui Tolin era direttore responsabile.
Il documento, che non menzionava neppure il nome di Tolin, «di fronte a ripetuti recenti casi che hanno messo in pericolo in vari modi la libertà costituzionale di del pensiero» esprimeva «profonda preoccupazione» per l’emergere di un «disegno sistematico, operante con vari strumenti e a diversi livelli, teso a impedire la libertà di opinione» e chiedeva l’impegno dei «poteri pubblici dello Stato, ciascuno nell’ambito delle proprie attribuzioni» a «rimuovere le origini di tale fenomeno, mediante riforme legislative (abrogazione dei reati politici di opinione)»; concludeva con la richiesta all’ANM di indire un convegno nazionale per dibattere tali temi.
Il documento ebbe grande risonanza anche perché non c’erano precedenti di tal genere in epoca repubblicana, risalendo al ventennio fascista l’ultimo arresto di un direttore di giornale. Seguirono discussioni, polemiche e attacchi a Md da parte dello schieramento più conservatore. Lo scontro tra i vari gruppi associativi fu intenso, ma non apparve dirompente fino alle bombe di piazza Fontana (12 dicembre 1969). Nel clima di sconcerto seguito alla strage e nel quadro di una massiccia campagna di ordine nel Paese e in magistratura, quel documento fu assunto come la pietra dello scandalo perché venne ritenuto capace di rappresentare una interferenza in un processo in corso. Ne presero le distanze anche magistrati che pur lo avevano approvato nell’assemblea bolognese.
La questione delle critiche ai provvedimenti giudiziari da parte di magistrati (che nel linguaggio della destra vennero qualificate come “interferenze”) esplose nel dicembre del ‘69, ma era stata oggetto di una circolare del 1966 del CSM. Questa, senza neppure un cenno all’art. 21 Cost. e alla ben nota sentenza n. 9/1965 della Corte costituzionale, «consentiva al magistrato di esprimere pubblicamente il proprio giudizio solo per quanto attiene al problema giuridico di una pronuncia giurisdizionale, con esclusione di ogni valutazione inerente al merito e soltanto quando fosse stata pronunciata almeno la sentenza di primo grado».
L’“odg Tolin” – che violava platealmente quella circolare, peraltro illegittima, perché priva di ogni base giuridica, ed estranea alle competenze del CSM – fu l’occasione o, meglio, il pretesto per isolare Md, in quanto quella presa di posizione in realtà costituiva la pubblica manifestazione di una divisione ben più profonda posta in essere da un ampio settore dello schieramento politico: la repressione dei reati di opinione e della libertà di stampa.
Si ruppe la giunta associativa, ma l’Anm fu capace di organizzare un interessante congresso a Torino (settembre 1973) dedicato a Giustizia e informazione, ove si discusse a lungo della questione delle critiche ai provvedimenti giudiziari, con specifico riferimento a quelle provenienti da magistrati e da gruppi di magistrati, ossia da Md. I più conservatori – in linea con la circolare del Csm del 1966 – si attestarono sulla distinzione tra sentenze definitive e procedimenti ancora in corso, ritenendo legittime le critiche soltanto in relazione alle prime, mentre le altre costituivano forme di pressione e di condizionamento dell’indipendenza. La critica veniva così ridotta a una lamentazione per il fatto compiuto!
La questione fu affrontata con approfondite e non superate argomentazioni nella relazione di Pulitanò (relatore designato da MD), nelle comunicazioni di Senese, di Accattatis e di Bruti Liberati, negli interventi di Onorato, e dei proff. Barile, Pizzorusso e Fiore.
3. Da quel congresso la posizione di Md uscì costituzionalmente legittimata come espressione di libertà di manifestazione del pensiero sia dei singoli magistrati, sia – in forza del rapporto tra gli artt. 21 e 2 Cost. – dei gruppi di magistrati, quali formazioni sociali ove si svolge la personalità dei singoli.
Ciò nonostante, fu mantenuto in vita l’accordo tra le altre correnti associative, che avevano stipulato una conventio ad escludendum di Md in una sorta di “preambolo programmatico” che subordinava la legittimazione a partecipare alla giunta dell’Anm a due condizioni: “non praticare la critica ai provvedimenti giudiziari, non avere contatti con l’esterno della magistratura”: in sostanza i due connotati specifici di Magistratura democratica.
Le posizioni conservatrici, indifferenti a problemi di costituzionalità, avevano ragioni profonde, ma del tutto anacronistiche: la corporazione non poteva tollerare che le mura della “cittadella giudiziaria” potessero essere incrinate da critiche interne. Tanto meno poteva accettare che fosse messa in discussione l’apoliticità e la neutralità tecnica dell’interpretazione giudiziaria, componenti importanti della tradizionale ideologia giuridica e istituzionale.
La travagliata vicenda giudiziaria che seguì la strage di Piazza Fontana si incaricò di rendere evidente la necessità della critica tempestiva e informata dei magistrati alle attività di Pm e di giudici. Contro la “verità ufficiale” sulla pista anarchica, si levarono molte voci critiche che frantumarono certezze granitiche sulla neutralità giudiziaria. Non mancarono azioni penali e disciplinari nei confronti di giornalisti e di magistrati: venne avviato un procedimento disciplinare per la presa di posizione dell’esecutivo di Md sul processo Pinelli e per il documento critico sul processo Valpreda redatto dell’esecutivo milanese dell’Anm.
Vanno ricordati in particolare il libro Valpreda+4, redatto da magistrati della sezione romana di MD, coordinati da Luigi Saraceni e la sollecitazione di Giuseppe Branca (già presidente della Corte cost. nel biennio 1969-1971): «Bisogna che leggiate attentamente questo libro: se non altro apprenderete come non devono essere condotte le istruttorie penali».
4. Erano queste le attività che la destra, interna ed esterna alla magistratura, definiva “interferenze” sui procedimenti giudiziari. Definizione squalificante e fuorviante, successivamente rivolta anche alla rivista Quale giustizia.
Nonostante il trascorrere del tempo e i tanti mutamenti intervenuti nel costume sociale e anche in quello dei magistrati, non mutarono comportamenti e reazioni delle componenti più corporative del mondo giudiziario, come dimostra il caso emblematico e ancora lacerante di Enzo Tortora, arrestato il 17 giugno 1983 e vittima di un clamoroso errore giudiziario della Procura e del Tribunale di Napoli, sostenuto e amplificato dalla maggioranza dei mass-media.
Si ricorda meno che l’innocenza di Tortora venne riconosciuta dalla Corte d’appello di Napoli e dalla Cassazione e soprattutto si dimentica che non mancò la voce di Md a contestare sia la torsione degli strumenti processuali adoperati sia la chiusura corporativa della gran parte della magistratura, che rigettò ogni critica a quel clamoroso errore, definito da Nello Rossi «frutto avvelenato della disattenzione, della superficialità, dello spirito burocratico con cui si accusa e si giudica».
Le critiche, espresse dalla dirigenza nazionale e locale di Md in una affollatissima conferenza stampa a Castel Capuano nel marzo 1989 suscitarono reazioni veementi di altri gruppi e portarono alle dimissioni della giunta dell’Anm. Erano trascorsi 17 anni dal 1972, ma anche in quella occasione scattò immancabilmente la coazione a ripetere: la corporazione reagì ancora una volta con l’accusa di indebita interferenza. Secondo la logica corporativa, Md aveva perso legittimazione a dirigere l’Anm, avendo violato un cardine fondamentale della corporazione!
Non mancarono certamente altri episodi di critica di Md a provvedimenti giudiziari, e tuttavia – come nel 1992 puntualizzò Giuseppe Borrè – «ciò avvenne raramente, in casi gravi ed emblematici, e fu il trauma più forte provocato dalla nuova cultura di Md, che ci pose per lungo tempo ai margini del sodalizio associativo della magistratura e che è forse ancora oggi una ferita non chiusa».
5. Il diritto di critica ai provvedimenti giudiziari è componente della libertà di espressione e, come ha più volte affermato la Corte costituzionale, spetta a tutti, anche ai magistrati, singoli o associati. Sarebbe d’altronde ben strano che da tale diritto fosse escluso il magistrato dal momento che l’ordinamento richiede proprio a lui di esercitare un ruolo critico nei confronti della stessa legge, al fine di escludere ogni dubbio di incostituzionalità o di contrasto con la normativa dell’UE ovvero, in caso di dubbio, di investire della questione la Corte costituzionale e, se del caso, esercitare il potere di rinvio pregiudiziale alla Corte sovranazionale.
Il problema non è “se” si può criticare, ma “come”. Vale per le dichiarazioni di gruppo ciò che vale per il singolo magistrato, come non si stanca di ripetere Nello Rossi nei suoi interventi su Questione Giustizia: il magistrato che interviene nel dibattito pubblico deve interloquire come «attore razionale, capace di ascolto degli argomenti altrui e di repliche meditate e argomentate».
Con tali doverose avvertenze, dobbiamo ribadire ciò che affermò Salvatore Senese in quel convegno dell’Anm del 1973, cioè che la critica pubblica di provvedimenti giudiziari da parte di magistrati adempie ad una duplice funzione: per un verso, «svolge nel contesto sociale la preziosa funzione di incentivatore del controllo e del dibattito pubblico sulla giustizia», apportandovi un contributo di sapere e competenza anche tecnica; per altro verso, «anche all’interno dell’ordine giudiziario essa svolge una funzione estremamente utile in quanto contrasta la tendenza latente in ogni istituzione a considerarsi come autosufficiente e richiama insistentemente i magistrati all’elementare principio democratico che vuole tutte le istituzioni controllate dall’opinione pubblica».
Come ha sottolineato recentemente Luigi Ferrajoli in Giustizia e Politica, «la critica pubblica anche da parte dei magistrati dei provvedimenti dei giudici, come fattore di responsabilizzazione e democratizzazione della funzione giudiziaria, è stata uno dei motivi animatori dell’azione di MD delle origini: la forma più efficace, e forse proprio per questo avversata, nella quale può farsi valere la responsabilità sociale dei magistrati».
Dobbiamo piuttosto riconoscere come a volte quel connotato originario e originale, l’attività di critica dei provvedimenti, sia rimasto un ricordo storico, anche quando, nel silenzio quasi generale, la critica da parte di Md sarebbe stata assolutamente doverosa e necessaria per contribuire a immettere nel discorso pubblico un punto di vista diverso da quello dominante e sovente fuorviante. Basti pensare, per venire a tempi più recenti, al processo cd. “trattativa”, ove non soltanto la voce critica di Md è mancata, ma addirittura sono stati attorniate da gelido silenzio, quando non fatte oggetto di astiosa critica, quelle poche voci (tra cui quella di Giovanni Fiandaca, di Nello Rossi, di Giovanni Palombarini e di chi vi parla) che si erano levate per manifestare il loro sconcerto per la singolare pre-incriminazione di una figura adamantina come quella di Giovanni Conso e che, più in generale, avevano per tempo sollecitato vigilanza sulle esorbitanze e sulle derive populiste dell’azione penale e del successivo procedimento.
Certamente ragioni molteplici, non tutte condivisibili, hanno determinato l’appannamento della dimensione critica di Md. Rimane il fatto che a volte essa non ha saputo contrastare un offuscamento del ruolo e dell’immagine di garanzia generale, connotato proprio della giurisdizione, omettendo di criticare casi non infrequenti di soggettivo protagonismo di magistrati, usi distorti degli strumenti processuali e della coercizione personale, trasformazioni delle modalità di espiazione della pena in un’intollerabile pena supplementare, come l’utilizzazione abnorme del 42-bis, condanne a pene spropositate e feroci, come quella inflitta dal giudice di primo grado al Sindaco di Riace Mimmo Lucano.
È venuta così a mancare una voce critica competente, informata e credibile; uno stimolo e un pungolo per la magistratura e per i magistrati, che si sono sentiti “coperti” dalla corporazione; un contributo di conoscenza e di sapere alla società civile per arricchire il dibattito pubblico sulla giustizia; un esercizio di pluralismo capace di riportare dialettica di idee e di valori nella vita dell’Anm.
Per tale ragione, dobbiamo anche oggi raccogliere e fare nostra l’accorata sollecitazione di Pino Borrè alla “vigilanza”, a non stancarci di assolvere al compito di tutela e guardiania «intransigente dei valori fondamentali; di denuncia aperta e aspra di ciò che li pone in pericolo; fino alla resistenza, se la gravità del caso lo richiede. […] La vigilanza democratica è la ragione per cui siamo nati e il traguardo al quale dobbiamo ancora guardare per il futuro».
Testo dell’intervento pronunciato nella festa per i sessant’anni di Magistratura democratica svoltasi a Roma nei giorni 9 e 10 novembre 2024, destinato alla pubblicazione sul numero 4/2024 della Rivista Trimestrale