Magistratura democratica
Magistratura e società

Md: ieri, oggi e domani *

di Cinzia Barillà
magistrata di sorveglianza a Reggio Calabria

1. Le ragioni di un impegno

Mi sono accostata a Magistratura democratica, gruppo associativo di magistrati dalla storia per me piena di sollecitazioni, per soddisfare l’interrogativo che mi perseguitava dall’approdo in magistratura: “perché io”? 

Non sono entrata in magistratura con la cd. “vocazione” per il ruolo, bensì animata da curiosità e desiderio di fare un mestiere che mi restituisse il senso dello studio delle norme e della complessa speculazione attorno alla loro interpretazione, che tanto mi aveva fatto penare negli anni di preparazione al concorso. Non credo di essere stata la prima, e certamente non sarò l’ultima, ad avere spesso convissuto con una sensazione di frustrante aridità nello studio delle regole. 

L’attrattiva di Md fu «L’impegno di quei magistrati per passare dai diritti scritti sulla carta, per quanto una Carta preziosa come quella fondamentale della Repubblica, alla realizzazione in concreto della promessa in essa contenuta»[1]. Le regole vivono e si inverano nei corpi da difendere, negli sguardi da incontrare, nelle sopraffazioni da contrastare e anche negli errori da riparare, e noi, tra i giuristi, siamo tra coloro che devono prendersi cura di tutto ciò. E l’incontro, dentro la magistratura, con Md e con i colleghi di Md è stato questo. 

Il linciaggio o la beatificazione dell’imputato sono condizioni, diceva Marco Ramat, espunte dal mondo del diritto e dalla interpretazione costituzionalmente orientata delle norme. La tendenza della società ad allinearsi su posizioni conformiste, appartenenti a una pseudo-etica maggioritaria e perbenista, che spesso diviene persecutoria delle ragioni delle minoranze, dei più deboli o dei più soli, è attitudine dilagante che travalica le divisioni politiche e che consegna alla magistratura il dovere di intervenire in nome dei diritti inviolabili dell’uomo e della pari dignità sociale[2].

Questa complessità e questa “visione” curiosa e anticonvenzionale dell’essere magistrato mi ha rapito.

 

2. Il tempo che avanza

Avanzando nella mia esperienza professionale e associativa, mi è spesso capitato di chiedermi se queste convinzioni fossero divenute anacronistiche, se in un certo senso fossi entrata «in un’età difficile della quale un po' ci si vergogna ed alla quale tutti si aspettano che prima o poi ci si arrenda»[3] e se ciò fosse, prima ancora, accaduto a Magistratura democratica. La risposta più incoraggiante, che questo non fosse un destino tracciato, è venuta dai colleghi degli ultimi concorsi, da anni ingabbiati nella definizione, di certo riduttiva, di “giovani magistrati”. Si tratta di indicazione – questa – che, tuttavia, prende le mosse da un dato reale, quello cioè del massiccio rinnovamento dei ranghi dell’ordine giudiziario con l’ingresso di quasi 3000 magistrati, a seguito della conclusione di numerosi concorsi susseguitisi negli anni dal 2013 al 2024, dopo un periodo di rallentamento nel reclutamento di nuove forze, cui ha corrisposto la simmetrica messa in congedo, per ragioni di età, di molti magistrati. Questa fascia di colleghi, che da qui, per esigenze di sintesi, chiameremo dei “giovani magistrati”, raggruppa magistrati giovanissimi, appena immessi nelle funzioni, fino a colleghi ben oltre che quarantenni con almeno un decennio di esperienza professionale già alle spalle.

Al di là dei loro orientamenti ideali e culturali, mi è capitato di imbattermi in risposte del tutto speculari a quello che era stato il mio percorso, peraltro arricchite dall’entusiasmo, dalla forza e dalla freschezza innovante tipica dei nuovi assunti.

Tra le caratteristiche del lavoro del magistrato che ancora principalmente affascinano i giovani colleghi vi è senz’altro quella dell’indipendenza e della terzietà della magistratura rispetto alle questioni trattate, che consente di essere liberi di determinarsi senza dover scendere a patti con la propria coscienza[4]. Anche quando sono mancanti le cd. “spine ideali” o “vocazionali”, l’idea della giurisdizione proposta dai giovani colleghi non muove quasi mai da un atteggiamento superficiale, bensì da «un approccio umile, quasi in punta di piedi», cosciente «dell’enormità del potere che si esercita e della necessità di ancorarlo al rispetto delle regole, delle parti processuali, di chi quotidianamente lavora negli uffici giudiziari e garantisce il servizio giustizia»[5]. In queste maglie poi affiorano, sebbene in minoranza, le posizioni di coloro che si sono affacciati a questo ruolo per la possibilità di rendersi utili alla società, di tutelare i diritti, di “fare la propria parte”. 

Si tratta di aspirazioni percepite come compensative (specie per la scarsa distribuzione delle risorse sul territorio nazionale in sedi considerate svantaggiate) della gestione di un’enorme mole di lavoro da dover affrontare, di cui il magistrato prende coscienza solo dopo l’immissione in servizio.

Il peso di questa presa di coscienza ricorre ciclicamente nelle interviste rese, in forma rigorosamente anonima, nell’ambito del lavoro di ricerca pubblicato da Questione giustizia sulla giovane magistratura (vds. il fascicolo n. 4/2023), di cui appare significativo riproporre qualche saggio:

«(…) ma, allora, per quanto riguarda il tipo di lavoro in sé, e quindi di fatto appunto di scrivere le sentenze, le ordinanze, studiarsi i fascicoli del caso e quant’altro, questo è stato confermato. Nel senso che immaginavo fosse così, ed effettivamente è così. Quello che forse pensavo – ma, secondo me, questa è anche un po’ un’idea che uno ha del lavoro dei magistrati al di fuori – è di avere un pochino più di tempo libero [ride]; lo dico con molta franchezza: un pochino più di tempo libero… nel senso che, soprattutto il primo anno e mezzo (adesso sono ormai due anni che ho preso le funzioni), lavoravo notte e giorno, notte e giorno, e ancora adesso mi capita di lavorare fino a notte fonda, per smaltire tutto il lavoro. Quindi, non pensavo che fosse… cioè, portasse via così tanto tempo, ecco. Ma non è una critica… è il lavoro (…) e viene prima di tutto. Però… poi lì dipende tanto dai tribunali in cui uno si ritrova. Io sono in un tribunale che comunque è una sede disagiata, dove troviamo tutta una serie di problemi; è chiaro che il carico di lavoro sia diverso. Probabilmente, in altri tribunali i giudici hanno un carico di ruolo inferiore… Però non lo vedo come un aspetto negativo: fa parte del lavoro, e anzi… dal punto di vista professionale, soprattutto per chi è all’inizio come me, aiuta anche tanto a crescere e a maturare. Quindi è un qualcosa che non mi aspettavo, ma è un qualcosa che vedo come positivo per la mia crescita professionale» (intervista n. 28);

«Ecco, questo non me lo aspettavo. Il peso, il carico giurisdizionale (…). In termini di numeri, io sono sempre stato in situazioni di carico grosse, perché… il Tribunale di […] è un tribunale molto gravato, e facevo sostanzialmente tre ruoli: civile, fallimentare, giudice del collegio penale. Sezione fallimentare di […] sono sempre stato abituato ad avere a che fare con situazioni di enormi carichi di lavoro (…). Non pensavo, non sapevo assolutamente – ma neanche da MOT me lo sarei potuto aspettare – di dover sostenere un carico giudiziario così grosso di responsabilità, di peso… proprio numerico, nel lavoro quotidiano. Sicuramente non me lo sarei aspettato all’inizio. Poi il lavoro… il lavoro è bellissimo» (intervista n. 37);

e, ancora: «(…) è anche un lavoro che – non mi piace il termine “invadente”, perché ha sempre un’accezione negativa – ti permea ed entra a far parte di te… Forse chi svolge un lavoro differente, chi fa il turno dalle 8 alle 17, ha la possibilità di chiudere, di staccare per poi riprendere l’indomani. Ecco, io questo no, perché tutti i miei fascicoli, tutto il lavoro che svolgo quotidianamente mi accompagna sempre, durante tutta la giornata, tutto il weekend, tutte le festività… Ed è comunque un aspetto che, probabilmente, se non si ha contezza, non riesci ad immaginare prima. Al contempo, però, in realtà dico sempre: è il lavoro che ho scelto, che sognavo, ed è veramente il lavoro più bello del mondo, che non cambierei con altre attività» (intervista n. 40). Non meno indicativa è la percezione della propria fragilità di fronte a tutto questo «il rischio di burnout, il rischio di stress psichico, il rischio di… è molto alto nei magistrati; non si può dire perché è un tema tabù… perché il magistrato è percepito come (…) una sorta di essere impersonale (…), ma non è così, è proprio un errore. E se uno (…) fa il nostro lavoro, anche il più cinico (…), tutti subiscono un grosso peso emotivo, perché quando mandi in carcere una persona, o togli l’affido, togli un bambino alla sua famiglia, non puoi essere come il giorno prima. Non è possibile…» (intervista n. 36)[6].

 

3. La fiducia che le idee camminino su altre gambe. Nuova linfa per Magistratura democratica

Il lavoro vissuto come opprimente, che rende complesso l’approfondimento desiderato, comportando ricadute enormi sulla vita personale e di relazione del magistrato, non è stato di ostacolo per i giovani colleghi di realtà territoriali meridionali, vissute spesso come “di frontiera”, nell’affrontare esperienze del tutto in linea con “quell’irrinunciabile apertura” al lato umano del nostro lavoro e di attenzione alle persone. In quest’ottica, nell’ambito della festa in Campidoglio per il 60° di Md, non ho potuto non ricordare l’esperienza – di cui sono stata testimone e spettatrice – animata da un compatto gruppo di giovani colleghi (operanti nel territorio reggino e addetti alle più svariate funzioni di giudici, penali e civili, pm e magistrati di sorveglianza) che si sono alternati in gruppi di circa 12-15 per vedere e commentare in carcere, con la collaborazione di due esperti di cinema (in un caso, anche di un regista) e di una psicologa ex art. 80 ordinamento penitenziario, alcuni film attinenti al mondo dei diritti al fianco di alcune persone detenute (in genere, in numero pari a quello dei colleghi). Il dialogo che ne è conseguito è stato via via sempre più autentico e vero. I colleghi si sono messi in discussione, accettando di mostrarsi e di essere “giudicati” dai loro “giudicati” in un campo neutro come quello della finzione cinematografica e delle suggestioni emotive che la stessa provoca nello spettatore. L’empatia che ne è conseguita e, a tratti, i livelli di condivisione, schiettezza e apertura, anche da parte delle persone in detenzione, che ne sono derivati, hanno trasformato in un successo l’esperimento intrapreso e hanno restituito a tutti una dimensione collettiva e sociale del nostro lavoro che supera l’individualismo del tecnicismo e della competenza fine a se stessa. 

Di questa esperienza mi hanno colpito: la naturalezza con la quale i colleghi più giovani vi si sono accostati; la facilità di comunicazione; la spontaneità dei dialoghi; la partecipazione grata delle persone ristrette, dopo una iniziale – e comprensibile – diffidenza. Non è stato semplice per questi ultimi abituarsi a un colloquio più intimo e riservato con dei magistrati, del tutto al di fuori delle loro vicende processuali, ma basato sulla dimensione di un contatto completamente umano, in cui ci siamo tutti aiutati l’un l’altro. 

Non vi è dubbio che i magistrati sentano tutti fortemente l’idea di prendersi cura delle vittime e di restaurare i diritti lesi. Tuttavia, poche volte si pensa che anche noi, come categoria, abbiamo il compito di decidere della vita delle persone “che giudichiamo” e che sono affidate alla custodia dello Stato per il tramite delle nostre mani. Non a caso, l’idea che il magistrato si mescoli con la persona colpevole (i detenuti, che vi hanno partecipato, erano tutti in posizione giuridica di definitivi, cioè raggiunti da sentenze di condanna passate in giudicato) e, dunque, con il crimine è sembrata eccentrica, talvolta fuori luogo, a causa di una malcelata idea, purtroppo radicata in certa parte della magistratura e delle istituzioni e che, spesso, ci rende poco amati, che il bene non può esistere al di fuori di noi. In linea contrapposta alla figura del giudice delineato da Sciascia nel suo Porte aperte, che egli tracciava così: «Questo era, secondo i suoi genitori, i suoi fratelli e sua moglie, il suo principale difetto: il credere, fino a contraria e diretta evidenza, e anche all’evidenza guardando con indulgente giudizio, che in ogni uomo il bene sovrastasse il male e che in ogni uomo il male fosse suscettibile di insorgere e prevalere come per una distrazione, per un inciampo, per una caduta di più o meno vaste e micidiali conseguenze, e per sé e per gli altri. Difetto per cui si era sentito vocato a fare il giudice, e che gli permetteva di farlo. E non che non avesse le sue cattiverie, la sua malignità, le sue impuntature di amor proprio; ma le esauriva – almeno così credeva e se ne confortava – in una sfera che noi potremmo dire letteraria (…)».

In totale assenza di parallelismo, per l’impareggiabile importanza di quel lavoro rispetto all’esperienza che cito, dinanzi alle obiezioni ascoltate di critica all’iniziativa dei colleghi per questo eccesso di “mescolanza”, mi sono spesso risuonate le parole di Gino Strada[7]: «Intanto, un’accusa serpeggiava curiosamente più in Italia che in Afghanistan: “Emergency cura i talebani”. E i talebani allora erano il nemico. Ebbene sì, curavamo anche i talebani. E li curiamo ancora. Lo facciamo perché siamo medici e rispettiamo l’etica professionale medica, prima di tutto, anche prima dei trattati e delle convenzioni internazionali. Anzi, ancora prima, li curiamo perché siamo esseri umani che si rifiutano di lasciar morire altri esseri umani. Curiamo i talebani come chiunque si presenti ai nostri cancelli, senza fare domande. Dopotutto, non ho mai sentito chiedere in un ospedale italiano “Chi sei? Quale Dio preghi?”. O meglio. Qualche anno fa qualcuno provò a far passare un emendamento ignobile per obbligare i medici a denunciare gli immigrati irregolari che si rivolgevano alle strutture sanitarie, ma il provvedimento naufragò in qualche settimana. La classe medica aveva ancora anticorpi robusti contro il razzismo».

In questa occasione, i “giovani” colleghi mi hanno dimostrato che anche la categoria dei magistrati ha ancora anticorpi robusti contro chi ci vuole sempre più attenti all’efficienza dei numeri, alla giustizia predittiva con pretese di infallibilità, e meno sensibili alla cura di “una persona alla volta”. 

 

4. Le nuove esigenze di cui farsi carico anche per un gruppo come Magistratura democratica

La mia personale opinione rispetto alle “nuove” esigenze che i magistrati avvertono nel loro percorso professionale, specie se facenti parte di generazioni meno datate, è il naturale rispetto per la salvaguardia delle loro condizioni psico-fisiche. Il magistrato deve essere sostenuto quando destinatario, oltre che dell’ordinario stress da usura di lavoro (il rischio di burnout evocato dagli intervistati poco sopra), anche delle responsabilità di care giver verso se stesso (per malattie croniche e di certa perniciosità) oppure verso un figlio (perché infante o necessitante di assistenza e supporto) o, ancora, verso un genitore o il coniuge o altro prossimo congiunto convivente, oltre che nei più canonici casi di gravidanza e maternità (o paternità, già solo in parte tutelati dalle norme)[8]. La nostra categoria affida troppo spesso al “buon cuore” dei colleghi la possibilità di conciliare il mestiere con dei doveri “di cura” più pressanti del fisiologico, eppure presenti nella vita privata del magistrato. Si tratta di diritti di natura sindacale, che tuttavia non sono lontani dal DNA di Md, che ha costruito le sue mura su autentiche battaglie per la salvaguardia dei diritti di salute e di dignità umana spettanti a ciascuna categoria dei lavoratori. L’assenza di un meccanismo stabile di “supplenza” per i magistrati li riduce spesso a persone gravate da compiti eccessivi e li priva della necessaria serenità. Credo che l’inserimento di questi temi nei futuri progetti di Magistratura democratica non sarebbe di disdoro alla sua storia, ma farebbe sentire i colleghi (specie fuori sede e lontani dalle proprie famiglie) compresi a tutto tondo.

 

5. La cultura del garantismo e gli attacchi alla magistratura

Non meno importante è l’approdo, pure avvertito, a favore di una cultura del garantismo – che è da sempre uno dei temi principali dell’elaborazione culturale di Md – che non sia scambiata o fraintesa, sotto l’influenza di una spinta populista o esercitata da pressioni di natura politica, con atteggiamenti di indulgenzialismo o giustificazionismo ad oltranza, ma si concretizzi nell’esistenza di un insieme di regole e di garanzie atte a tutelare le fondamentali libertà e diritti dei cittadini nei confronti dei possibili abusi del potere politico pubblico e, in particolare, nei confronti del potere giudiziario. La voglia di mettersi in discussione rispetto al tema delle ingiuste detenzioni o degli errori giudiziari non appartiene solo alla classe forense, ma prima ancora entra nel nostro dibattito giudiziario (essendo i magistrati ordinari delle corti di appello addetti a questa materia per competenza funzionale) oltre che culturale. Essa fa parte della formazione dei giovani magistrati, e non per “distrarli” dallo spauracchio del procedimento “disciplinare”, strumento da ultimo troppo utilizzato come una sorta di “tagliola” a carico dei magistrati anche per censurarne, da parte dell’esecutivo, l’operato giurisdizionale, ma per intraprendere insieme sani percorsi di miglioramento e di autocritica. La fisiologia del sistema può portare a una scarsa predittibilità del verdetto, che può variare di fronte a novità probatorie, a cambiamenti giurisprudenziali sugli istituti giuridici applicati, a profondi mutamenti della soglia di sensibilità sociale rispetto alla percezione dei valori giuridici lesi. Guai se così non fosse e se, all’interno del corpo della magistratura, la linea-guida fosse quella del preservare e conservare il precedente (l’imputazione, la decisione cautelare, la sentenza di merito, etc.), in un intento conformistico-protezionistico della decisione pregressa. È proprio la libertà e l’indipendenza con cui ciascun nuovo magistrato, giudice o pm si approccia al caso che garantisce, di volta in volta, il miglioramento e la verifica della risposta di giustizia (che deve soprattutto essere dotata della caratteristica della resistenza, essendo destinata a “resistere” a più giudizi da parte di diversi giudici e per più gradi, nonostante sottoposta alla ferrea obiezione delle parti). Da qui, peraltro, gli spunti di criticità emersi in sede di disciplina del tema delle valutazioni di professionalità dei magistrati, laddove si è più volte fatto cenno alle «gravi anomalie in relazione all’esito degli atti e dei provvedimenti nelle fasi o nei gradi successivi del procedimento e del giudizio», che appare posizione difficilmente armonizzabile con il fondamentale  principio per cui l’attività interpretativa in diritto del giudice è, per regola costituzionale, libera e la valutazione della prova è affidata al suo prudente apprezzamento non sindacabile se non all’interno del sistema processuale[9]. La giovane magistratura è sempre molto attenta al dettato costituzionale, che non ci vuole monoliticamente assertivi di “verità precostituite”, ma dialettici, pluralisti e professionali nella ricerca di ogni dettaglio utile all’accertamento della verità processuale in via quanto più prossima alla realtà storica. I giovani magistrati si pongono aperti e franchi rispetto a questi temi, e Magistratura democratica appare ancora la sede ove essi possono crescere e arricchire le loro riflessioni. La loro partecipazione al dibattito pubblico su questi temi appare motivante e la loro fiducia nella possibilità di spiegarli a un’opinione pubblica infiammata da tecniche comunicative ambigue, quando non ingannevoli, costituisce la sfida della giovane magistratura.

 

6. I grandi maestri e il magistrato “colto”

Il riconoscimento dei “migliori” in chiave di guida dei colleghi, prima ancora che quale segno distintivo per lo sviluppo della “carriera”, è stato per il passato anche un cavallo di battaglia di Magistratura democratica. Md, scrive bene Betta Cesqui[10], è stata per anni la casa di un tipo di magistrato di “animo colto”, capace di restituire provvedimenti chiari qualunque sia la materia trattata e di rispondere alle domande di fondo, che sono sempre le stesse: chi ha veramente subito il torto? Chi ha la necessità della tutela? Cosa ti dice di fare la legge interpretata secondo i principi costituzionali? Sono state rispettate le regole del processo e queste che strada tracciano per arrivare alla decisione? 

Pur non avendone l’esclusiva, Md ha tracciato il suo cammino sulle orme di magistrati di questo calibro. Ebbene, a queste caratteristiche auspico che Magistratura democratica, divenendo la casa dei giovani magistrati che a lei si affacciano, affianchi la profonda generosità di quell’animo colto. Il nostro lavoro, che ci dipinge come vittime di un eccessivo “individualismo”, è viceversa arricchente se fondato sulla condivisione generosa di esperienze, sullo scambio reciproco di competenze, sul mutuo accrescimento di professionalità. Questa è la strada per il recupero di un associazionismo giudiziario in chiave partecipativa e non di protezione della “posizione”; questa è la cifra con cui Questione giustizia continua a esercitare lo sforzo della spiegazione dialettica di come operiamo; questa è la dimensione nella quale i giovani colleghi si avvicinano alle spalle forti dei loro precursori, dentro Magistratura democratica. Al loro futuro e ai nostri sforzi (di chi ancora non si arrende, nonostante il sospetto che sia passata la nostra “era”) va, con affettuosa speranza, questo contributo. 


 
[1] E. Cesqui, Le donne, la magistratura, la sezione romana, destinato al n. 4/2024 di Questione giustizia trimestrale, di imminente pubblicazione.  

[2] M. Ramat, Magistrati, potere e cittadini in Italia. Il giudice “politico” (part. par. 5: «Una concezione nuova del giudice»), in Indici comunità, n. 152, 1968, pp. 17 ss. – vds. Diritto penale e uomo, n. 11/2020 (https://dirittopenaleuomo.org/contributi_dpu/magistrati-potere-e-cittadini-in-italia-il-giudice-politico/).

[3] Dal dialogo dei due protagonisti del film di Pupi Avati La quattordicesima domenica del tempo ordinario.

[4] C. Agnella, Dalle motivazioni all’ufficio giudiziario: la percezione del ruolo del giovane magistrato, in questa Rivista trimestrale, n. 4/2023 (Giovani magistrati. Lo sguardo dell’inizio: una ricerca sulla giovane magistratura), pp. 43-53, www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/1120/4_2023_qg_agnella_ii.pdf.

[5] I. Nasso e D. Lucisano, Perché si entra in magistratura, ivi, p. 124, www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/1130/4_2023_qg_nasso-lucisano.pdf.

[6] C. Agnella, Dalle motivazioni, op. cit.

[7] G. Strada, Una persona alla volta, Feltrinelli, Milano, 2022.

[8] S. Ciervo e V. Maisto, Le questioni di genere, in questa Rivista trimestrale, n. 4/2023, pp. 152-157, www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/1134/4_2023_qg_ciervo-maisto.pdf.

[9] R. Magi e D. Cappuccio, La delega Cartabia in tema di valutazioni di professionalità del magistrato: considerazioni a prima lettura, in questa Rivista trimestrale, n. 2-3/2022, pp. 77-84m www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/1029/2-3_2022_qg_magi-cappuccio.pdf.

[10] Vds. E. Cesqui, Le donne, op. cit. 

[*]

Testo dell’intervento pronunciato nella festa per i sessant’anni di Magistratura democratica svoltasi a Roma nei giorni 9 e 10 novembre 2024, destinato alla pubblicazione sul numero 4/2024 della Rivista Trimestrale

15/01/2025
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14/11/2024