Magistratura democratica
Magistratura e società

60 anni di Magistratura democratica *

di Elisabetta Cesqui
già magistrata

L’incontro di oggi è una festa, perciò la mia è solo una testimonianza senza nessuna pretesa di organicità.

Sono stata in magistratura per 43 anni, in Md anche di più.

Conoscevo Md dall’università e incontravo i magistrati che ne facevano parte. Così inconsapevolmente sono incappata da subito nella la straordinaria specificità di Md che è quella dell’apertura all’esterno.

Il segno distintivo ed il fascino di Md mi sembrava stesse nell’impegno di quei magistrati per passare dai diritti scritti sulla carta, per quanto una carta preziosa come quella fondamentale della Repubblica, alla realizzazione in concreto della promessa in essa contenuta, quello che per Lelio Basso era l’affermazione dei diritti non solo in favore dei soggetti più deboli ma attraverso la spinta che questi imprimevano alla società. Per questo il tema dell’interpretazione della legge, cioè della sua applicazione al caso concreto, è stato sempre centrale dell’elaborazione culturale di Md ma anche, per la stessa ragione, al centro degli attacchi che nel tempo, con varia e diversa intensità, le sono stati rivolti. Da lì nasceva l’attitudine ad una interpretazione costituzionalmente orientata (si parlava allora di giurisprudenza alternativa) come dal principio di soggezione solo alla legge nasceva l’impegno per la tutela della indipendenza dei magistrati, sia verso l’esterno, nei confronti degli altri poteri, che verso l’interno, e con esso lo sforzo per un diverso assetto degli uffici il cambiamento delle leggi di ordinamento giudiziario. 

Prospero nella tempesta dice «siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni»; Md è fatta della stessa materia di cui è fatta la costituzione. Se questo è il suo connotato distintivo è anche il suo destino, al quale non può sottrarsi, la sua dolce condanna. E siccome è una festa oggi parliamo solo del lato positivo del karma di Md, per parlare dei limiti ci saranno altre occasioni. 

Per me i primi anni furono d straordinario coinvolgimento, effervescenti e tragici al tempo stesso. Poi via via l’effervescenza è sfumata. Capitava di tutto.

Ti poteva capitare di partecipare (in nome della sezione romana) ad un incontro alla Camera dei Deputati (era la prima volta che ci mettevo piede ) con gli antimilitaristi e gli obbiettori di coscienza e trovare nell’austera stanza di riunione molti dei partecipanti che facevano discorsi serissimi con uno scolapasta in testa.

Così come ti capitava di vivere anche le riunioni tese e a volte laceranti della sezione romana. La sezione romana era la più radicale e indisciplinata d’Italia. Basterà qui evocare, per la sua componente “di sinistra”, proprio quella più radicale e indisciplinata, i nomi di Gabriele Cerminara, Franco Marrone, Francesco Misiani, Luigi Saraceni, per farsi un’idea di quanto impegnative potessero essere quelle riunioni. Questo per di più avveniva nella sede giudiziaria più contigua e sensibile alle pressioni del potere politico, che era percepibile e incombente nella vita quotidiana degli uffici. 

Ricordo interminabili riunioni, in stanze piene di fumo, in cui, riflettendo un contrasto diffuso nel paese, si contrapponevano le istanze espresse in maniera più forte dai soggetti istituzionali della sinistra, i sindacati, il partito: «il soggetto storico della trasformazione» e le posizioni più estreme del movimentismo e dell’antagonismo per le quali qualcuno parlava di «libero dispiegarsi delle dinamiche sociali» e che ponevano il problema della risposta non solo politica, ma anche giudiziaria (erano peraltro i temi attorno ai quali si era fiorata la scissione al congresso di Rimini del ‘77). 

C’era in quelle riunioni un grande dispiegarsi di intelligenza e passione perché, al di là di contrapposizioni che oggi sembrano assai datate anche nel linguaggio con cui si esprimevano, e che per questo ho voluto ellitticamente richiamare, vertevano attorno al tema centrale di come dovesse declinarsi, a fronte della legislazione penale speciale, il garantismo penale (nel 1978 c’era stato il referendum sulla legge Reale che aveva visto posizioni molto differenziate all’interno della stessa sinistra) sia perché tutti gli altri attorno ai quali si discuteva erano centrali nel rapporto tra la giurisdizione e la società ed erano quelli del lavoro, del diritto alla casa, della speculazione edilizia, dell’inquinamento, che nell’attività della sezione lavoro (Marco Pivetti ne è stato uno dei protagonisti) e della V e IX sezione della Pretura si confrontavano con la loro concreta tutela e la loro quotidiana violazione

Capitava poi che fatti terribili ti segnassero profondamente e indirizzassero le tue scelte professionali, come fu per me l’uccisione di Mario Amato ed il successivo impegno del gruppo di magistrati della Procura che si occupava dell’eversione di destra

Non fu risparmiato niente: procedimenti penali (solo per fare un esempio gran parte della sezione romana finì sotto processo all’Aquila per diffamazione per un volantino di critica ai capi degli uffici per la gestione di un processo) interrogazioni parlamentari (penso a quella dell’on. Claudio Vitalone, ex magistrato dello stesso ufficio, per sapere quale accertamenti fossero stati fatti sui collegamenti tra alcuni magistrati romani -i soliti radicali indisciplinati della sinistra della sezione romana – e le formazioni terroristiche) schedatura dei servizi, procedimenti disciplinari a più non posso e violentissime polemiche pubbliche 

Ma se ci ripenso oggi la cosa più preziosa di quei primi anni è stato l’incontro con magistrati capaci di un esercizio “alto” della giurisdizione.

L’esercizio “alto” della giurisdizione richiede una grande competenza tecnica, ma anche una relazione piena con la realtà sociale (come diceva Marco Ramat il contrario del «magistrato di clausura» che come le suore vive chiuso nel chiostro e protetto da ogni contaminazione, senza che questo però possa lasciare dubbi su quale sarà la sua scelta al momento del voto). D’altra parte Pietro Ingrao, che definì al congresso di Giovinazzo dell’81 MD «uno strano animale» era colpito ed incuriosito proprio dalla particolare declinazione con la quale, dentro Md, si incontrassero competenza professionale e sensibilità politica (il rapporto, come ebbe a dire «tra politicità generale e competenze»). 

Per questo tipo di magistrato, di animo colto, l’applicazione del diritto al caso concreto nella “direzione” del progetto costituzionale viene da sola e restituisce provvedimenti chiari qualunque sia la materia trattata. Le domande di fondo sono sempre le stesse: chi ha veramente subito il torto? Chi ha necessità della tutela? Cosa ti dice di fare la legge interpretata secondo i principi costituzionali? sono state rispettate le regole del processo e queste che strada tracciano per arrivare alla decisione? Alla fine sembra quasi facile e quando non si può andare oltre ci si ferma, o si va alla Corte costituzionale, o alla Corte di giustizia dell’Unione Europea. Se leggiamo una sentenza di Renato Rordorf è facile capire cosa voglio dire, così come era facile capire quale fosse la via maestra se ti capitava di fare l’uditore con Gianfranco Viglietta.

MD non ha né il monopolio né il copyright di questo modello di magistrato, ma io l’ho conosciuto lì, poi ne ho incontrati tantissimi altri di tutti gli orientamenti, ma i miei Lorenz li ho trovati tra quelli di MD. In questa giornata non possiamo non pensare a Renato Greco, che solo due giorni fa ci ha lasciato.

Se ripenso a quegli anni non ricollego la mia personale esperienza alla dimensione di genere, pur avendo preso parte ai grandi cortei femministi degli anni settanta. 

Questo nasceva dalla illusione di non averne bisogno. Una volta che l’anonimato del concorso mi aveva permesso, senza pagare prezzi particolari per il fatto di essere donna, non di sfondare il soffitto di cristallo, ma di saltare la staccionata ed entrare nel recinto, mi sembrava che quella necessità, che tutte hanno messo in luce, di fare tutto meglio degli altri e di fare sempre tutto senza tirarsi indietro attenesse più a profili di insicurezza personale che ad una questione nella sostanza di straordinaria portata sociale e politica. Allo stesso modo pensavo che l’aneddotica maschilista che costella la storia professionale di ciascuna di noi servisse solo per sorriderci sopra. 

Il raggiungimento della parità comporta un processo lento e difficile, come difficile stata la sua semplice affermazione formale. Giustamente Gabriella Luccioli, in occasione del 60° anno dell’ingresso delle donne in magistratura, ricorda come fosse diffusa e radicata la resistenza di molti degli stessi padri costituenti all’accesso delle donne a tutte le funzioni pubbliche e quale panorama “desolante” di pregiudizi e di arroganza trasparisse dalle discussioni che portarono poi all’approvazione faticosissima del primo comma dell’art. 51 (poi integrato nella parte finale nel 2003), dietro al cui tenore testuale - per quella chiusa del primo comma «tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge» - si sono arroccati gli oppositori dell’ingresso delle donne, che si sono dovuti arrendere solo dopo la sentenza del 1960 della Corte costituzionale che dichiarò l’illegittimità dell’art. 7 della l. 1176 del 1919. 

Alcune posizioni paradossali di allora (la inattingibilità della “rarefazione del tecnicismo” propria delle giurisdizioni superiori di cui parla l’on. Fanfani, o l’on. Molè che richiama le teorie di Charcot sulla incompatibilità anatomo-fisiologica della donna all’equilibrio della decisione nei giorni del ciclo) non meritano neanche più di essere ricordate, ma lo stesso legislatore costituente, che era volato altissimo nella formulazione dell’art. 3, fatica di più quando poi il principio di uguaglianza uomo-donna si specifica nell’accesso agli uffici pubblici e nella parità salariale (art 37 prima parte). Maria Federici, che tenne fermo il punto quando si trattò di evitare che subordinate di qualunque tipo fossero introdotte nella stesura dell’art. 106 (accesso in magistratura), nella seduta del 10 maggio del ’47, quando si trattava della parità salariale (quello che poi sarà il primo comma dell’art. 37) dice: «questo articolo è il riflesso vivo delle gravi ingiustizie che ancora si registrano nella vita italiana. Di qui a pochi anni noi dovremo addirittura meravigliarci di aver dovuto sancire nella carta costituzionale che a due lavoratori di diverso sesso, ma che compiono lo stesso lavoro, spetti la stessa retribuzione». Noi oggi con amarezza dobbiamo constatare che quel principio sebbene sia stato introdotto in costituzione, non riesca ancora a trovare attuazione. 

Quando ho cominciato a riflettere sul progressivo aumento della presenza delle donne avevo una preoccupazione indotta dal fatto che nell’esperienza storica il lavoro femminile si è sempre esteso per capillarità negli spazi che gli uomini lasciavano liberi privilegiando altri terreni. Il timore era che man mano che le donne prendevano piede la funzione giurisdizionale ne risultasse in qualche modo marginalizzata. Era una preoccupazione sbagliata non perché siano mancati tentativi di delegittimazione e marginalizzazione della giurisdizione, anzi, ma perché le donne possono rivendicare orgogliosamente di aver interpretato «con disciplina ed onore» la loro funzione, senza subalternità e senza nessuna diminuzione dei contenuti tecnico giuridici delle decisioni. Se posso spiegarmi con un esempio, sfido chiunque a sostenere il contrario dopo aver letto una sentenza di Stefania Di Tomassi. 

Secondo me le donne (per quanto sia arbitrario generalizzare e ogni generalizzazione si esponga al ridicolo della smentita puntuale) hanno con le regole un approccio più pragmatico e meno conflittuale; hanno più l’attitudine, che sollecitava Lorenza Carlassare, di domandarsi sempre: ma dove sta scritto? perché avete fatto sempre in questo modo? (lei si riferiva al diritto di voto delle donne prima della seconda guerra mondiale e alla famosa sentenza di Mortara); nelle organizzazioni complesse sono più collaborative; hanno col potere - e l’esercizio di un potere è coessenziale alla giurisdizione - un rapporto di minore identificazione e personalizzazione e soprattutto un approccio non proprietario come quello degli uomini.

Le donne infine sanno, e lo hanno insegnato anche agli uomini, essere persone a tutto tondo e non bassorilievi che negano quelle dimensioni di sé che temono passano essere colte come un segno di debolezza. 

E’ stato soprattutto il pensiero delle donne che ha fatto capire come l’uguaglianza non sta nel negare le differenze, ma nel riconoscerle, tenendo conto, come ci ha insegnato Luigi Ferrajoli, che il contrario dell’uguaglianza non è la differenza, ma la discriminazione. 

Allora la domanda vera è non è quanto sia numerosa la presenza delle donne (oggi il 57%, 5070 a fronte di 3841), ma cosa abbia significato nella sostanza, e penso, per quello che ho detto, che le donne abbiano fatto “bene” alla magistratura. 

Le conquiste delle donne possono essere lente, ma credo che siano inesorabili perché si tratta di un cambiamento non solo politico, sociale, normativo ed economico, ma di un cambiamento antropologico, che ha inciso sul il modo di essere, la natura non solo delle donne ma anche degli uomini. E’ vero che questo vale soprattutto il mondo occidentale (la lotta delle donne iraniane del movimento “Donna vita e libertà” ci rimanda ad una realtà ben diversa, come ci ricorda da ultimo l’appello di Medel di qualche giorno fa) e che, nel nostro mondo, la messa in discussione del diritto all’aborto, aggredisce alla radice il principio di autodeterminazione, ma tutto questo non smentisce la natura del cambiamento, ci avverte solo della necessità di un impegno costante per realizzarlo compiutamente e per vigilare sui tentativi di arretramento. Stiamo purtroppo vendendo come nel mondo né la democrazia né soprattutto la pace siano irreversibili, ma sulla questione di genere non vedo la prospettiva di una definitiva inversione di marcia. 

Da questo e dalla sua storia io penso che Md, in un quadro generale per tanti versi cupo, possa trarre qualche ragione di ottimismo e sono sicura che continuerà nel suo impegno con quella «instancabile ragionevolezza» alla quale ci ha richiamato di recente Nello Rossi.

[*]

Testo dell’intervento pronunciato nella festa per i  sessant’anni di Magistratura democratica svoltasi a Roma nei giorni 9 e 10 novembre 2024 , destinato alla pubblicazione sul numero 4/2024 della Rivista Trimestrale

15/11/2024
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