1. Il 4 luglio del 1964, fra i 35 magistrati presenti al Collegio Irnerio di Bologna non c’era nessuno della Toscana. Stranamente non c’era neppure Marco Ramat. Eppure Marco, più di tutti gli altri, aveva provato a scuotere l’inerzia della magistratura di quel tempo. E anzi, nei primi anni ‘60 aveva cominciato a immaginare un assetto della magistratura disegnato secondo i principi della Costituzione. Ramat, prima sul Mondo e poi sulla Nazione di Firenze e sul Ponte, scriveva articoli che denunziavano i tratti più illiberali e gli inutili formalismi della funzione giudiziaria.
Il fatto di non essere stato a Bologna, comunque, non lo turbò. Capì subito che quella era l’occasione buona, tanto che poco dopo, il 26 settembre del ‘64, scrisse sul Mondo un articolo dal titolo “Il magistrato democratico”, che, commentando la nascita di Md a Bologna, la definiva un rimedio «contro il vuoto ideologico nella magistratura italiana».
Fu il suo modo di aderire a Md. Da quel momento non perse tempo: un giorno di aprile convocò me e pochi altri giovani e a cena, in casa di Michele Corsaro, nacque la sezione Toscana di Md. Al gruppo aderirono molti magistrati con un entusiasmo che ci fece capire quale fosse l’urgenza di aggredire la cappa di conservazione che avvolgeva la magistratura e la giustizia.
Con la crescita del gruppo cresceva anche l’avversione dei colleghi nei nostri confronti. Ci accusavano di voler fare politica attraverso le sentenze. Ma a tutti noi della politica non importava nulla: ci importava invece la denuncia della neutralità del diritto e della giurisdizione, ci premeva di indicare il senso intimamente politico della giustizia. Nessuno di noi pensava di fiancheggiare i partiti o di farsene condizionare. Lo scontro con i vertici giudiziari fu inevitabilmente durissimo. Dal 1968 divennero inevitabili i procedimenti disciplinari per quelli di noi che cercavano di far giustizia secondo i principi della Costituzione. Il fastidio cresceva quando indicavamo i legami più o meno palesi tra il potere politico e i capi degli uffici giudiziari. La parte più retriva, che faceva capo al PG Calamari, non poteva certo sopportare che dalle nostre denunce emergesse inesorabilmente una giustizia di classe.
2. Intanto il gruppo toscano si era irrobustito con colleghi prestigiosi: erano arrivati.
Pierluigi Onorato e Sandro Margara a Firenze, a Prato Luigi Ferrajoli, a Livorno, Gianfranco Viglietta e Monteverde, a Pisa Accattatis, Vignale, Funaioli e, nel 1969, Salvatore Senese che aveva lasciato la corrente di Terzo Potere. Ogni tanto alle nostre riunioni di Pisa arrivava anche Pino Borrè.
Si può immaginare il livello del dibattito di quegli anni nella sezione toscana: di un'altezza e di una profondità che si coglie ancora leggendo il famoso “libretto giallo” di Ferrajoli, Senese e Accattatis, Per una strategia politica di Magistratura Democratica, uscito nel 1971.
Come è avvenuto anche da altre parti, in Toscana Md è cresciuta insieme ad un imponente movimento che le ha consentito di esercitare un’indiscutibile egemonia tra le correnti della magistratura. Md mostrava di saper intercettare i nuovi bisogni e, soprattutto per l’impegno di Marco, fece allora una lucida scelta di campo a favore delle classi subalterne, che abbiamo tenuta ferma fino ad oggi. Intorno avevamo le città, attente a cogliere gli spunti più fecondi del nostro discorso sulla giustizia.
La Firenze degli anni ‘60 era quella del sindaco La Pira, di don Lorenzo Milani e di padre Balducci. Vedeva allora una straordinaria fioritura di una cultura cattolica progressista, la cui natura, in un recente libretto scritto con Tomaso Montanari, abbiamo definito «disobbedienza profetica». Nel volgere di pochi anni e senza soluzioni di continuità, c’è stata la lezione di padre Davide Maria Turoldo, la cultura della pace di padre Ernesto Balducci, la disobbedienza agli ordini ingiusti che don Milani definiva «una virtù», il lavoro in fabbrica del primo prete operaio italiano, don Bruno Borghi, che lavorava alla fonderia del Pignone non per evangelizzare gli operai, ma per spronarli alla lotta di classe contro il padrone. E, infine, era la Firenze di don Enzo Mazzi, che all’Isolotto avrebbe lasciato segni duraturi nella Chiesa, e non solo in quella fiorentina.
Questa fioritura non ha riguardato soltanto i cattolici e la Chiesa, ha fortemente influenzato tutta la cultura italiana di quel tempo. Non si trattava solo di questioni interne al cattolicesimo, erano anzi temi eminentemente laici: la questione operaia, i rapporti con la politica, l’obbedienza ai poteri costituiti.
3. A questo ricco dibattito che per molti anni ha impegnato Firenze e la Toscana, partecipava naturalmente anche Md. E lo faceva con le forme consuete di quel tempo.
Quanti nostri interventi nei convegni sindacali, quanti dibattiti organizzati insieme a Democrazia e giustizia, il gruppo fiorentino molto attivo che vedeva la presenza di avvocati e magistrati. Questa insistente partecipazione al dibattito pubblico, dopo pochi anni è stata generalmente accettata dalla maggior parte dei magistrati come l’inevitabile affermarsi della libertà di manifestazione del pensiero e di partecipazione alla vita sociale. Se ripenso alla recente polemica sulla imparzialità della collega Apostolico, concludo che abbiamo fatto molti passi indietro.
Certo, si discuteva molto sui nostri interventi di quel tempo: il linguaggio, i contenuti e le occasioni sollevavano qualche polemica. I nostri interventi pubblici non piacevano al Procuratore Generale Calamari che, ad un certo punto, si decise ad inviare ai nostri dibattiti un funzionario dell’Ufficio politico della Questura perché riferisse quel che dicevamo. E fu un diluvio di incriminazioni per vilipendio della magistratura e di procedimenti disciplinari. Bastava poco per attirarsi i fulmini della repressione. Pier Luigi Onorato fu denunciato per vilipendio per aver detto in un comizio agli Uffizi che i lavoratori venivano continuamente sottoposti a processo, mentre ai colletti bianchi non succedeva quasi mai. Ricordo di essere stato denunciato per vilipendio, per avere distribuito un volantino nell'atrio della Corte d’Appello con l’invito ad un dibattito. Colleghi come Piero Vigna o Giulio Catelani, per dire dei più noti, appena ricevuto il foglio, ne facevano una palla e lo gettavano via senza leggerlo, mentre io timidamente dicevo: «ma prima di buttarlo via, leggilo!» Vero è che il titolo del dibattito era: «Magistratura e padroni». Ma la cosa più grave per i colleghi non era il titolo, era che un magistrato si permettesse di “fare volantinaggio”. Non si era mai visto un giudice distribuire pubblicamente dei volantini. Era la rottura della casta, era la fine della separatezza e del “doveroso riserbo” che ci aveva caratterizzato per tanto tempo.
Per il resto la repressione non risparmi nessuno. Furono ripetutamente denunciati o sottoposti a procedimento disciplinare: Marco Ramat, Onorato, Sandro Margara e perfino il mitissimo Paolo Funaioli. Accattatis fu addirittura rimosso dal suo incarico alla sorveglianza, con un incredibile provvedimento del CSM adottato senza alcuna contestazione disciplinare.
Direi che in Toscana nel decennio, che va dalla fine degli anni ‘60 alla fine dei ‘70, ci fu anche una preziosa contaminazione tra Md e le tante sigle della contestazione, caratterizzata dalla scontata egemonia culturale della nostra corrente. Per la prima volta i giudici abbandonavano il palazzo e si mischiavano al movimento. Una testimonianza del nostro impegno di quel tempo si trova in una lettera di Marco Ramat del 1974 (che Questione giustizia ha pubblicato integralmente, insieme alla mia risposta), che dopo 50 anni mi pare preziosa per chi voglia capire la qualità e l’intensità della nostra militanza. Nella lettera Marco rimproverava me e Silvio Bozzi, (un altro straordinario collega di quel tempo) di non essere assidui nel lavoro della segreteria di Md e di dedicare troppo tempo ad altre attività esterne. Marco aveva ragione, anzi avrebbe dovuto rimproverare anche Pierluigi Onorato, non meno colpevole di me e di Bozzi. Bozzi e Onorato frequentavano il “Cenacolo” di Padre Balducci a Fiesole ed erano attivi nella rivista Testimonianze. Io invece andavo su alla Badia solo la domenica per sentire le prediche di padre Balducci, ma tutti i pomeriggi della settimana li dedicavo ad un doposcuola istituito dai ragazzi di don Milani subito dopo la sua morte.
Insomma i più impegnati di noi si davano da fare nei mille rivoli del movimento, la magistratura agli occhi dei fiorentini non era più il corpo separato degli anni ‘50. I temi della giustizia si mischiavano con quelli dell’eguaglianza e dei diritti sociali, in un intreccio che avrebbe cambiato tutta la Magistratura e, in qualche modo, anche la percezione che la generalità dei cittadini ne aveva.
4. Naturalmente eravamo presenti anche nelle vicende più contrastate della vita cittadina, dalle occupazioni delle fabbriche alle lotte sindacali, a quelle per l’aborto o per l’abolizione dei reati di opinione, ai casi non infrequenti di repressione giudiziaria. Citerò solo il caso dell'Isolotto, che non fu solo un contrasto tra un gruppo di fedeli e la Curia.
Metteva in gioco altre questioni, talmente rilevanti sul piano civile e sociale, che perfino Marco Ramat, di solito restio ad occuparsi di temi che non fossero interamente laici, si lasciò coinvolgere, fino a collaborare, insieme a me e ad Onorato, alla pubblicazione del libro Isolotto sotto processo, edito nel 1971 da Laterza.
Quella dell’Isolotto è una vicenda esemplare quanto al coinvolgimento di Md nelle lotte di quel tempo. Da un lato il pm Piero Vigna contestava a cinque sacerdoti e a quattro laici il reato di turbamento di funzione religiosa, dall’altro Onorato ed io nelle assemblee sostenevamo che quell’accusa era priva di fondamento. Anzi, In un mio intervento aggiunsi, che il reato vero che la magistratura intendeva perseguire era l’intenzione e la decisione dei fedeli di partecipare alla vita religiosa, politica e sociale. Questa, sostenevo, era la ragione vera per la quale la Magistratura si era intromessa in una questione che apparentemente riguardava solo la Chiesa e i suoi fedeli.
La reazione del Procuratore Calamari fu durissima, tanto da convincere il Consiglio giudiziario, che in quei giorni esaminava la mia nomina a magistrato di tribunale, che non potevo essere promosso, dal momento che in una pubblica assemblea avevo manifestato solidarietà agli imputati dell’Isolotto. I componenti del Consiglio Giudiziario furono tutti d’accordo, salvo Sandro Margara, che fece verbalizzare i motivi a fondamento della mia “bocciatura”. Per fortuna il CSM ritenne che la mia fosse da considerare solo una libera manifestazione del pensiero e solo per questo sono ancora qui tra voi.
5. Concludo con la constatazione che, dopo 60 anni dalla nascita di Md, tutto questo si va ripetendo, in forme diverse, ma con argomenti molto simili a quelli usati in quegli anni tormentati: la insopprimibile dimensione politica delle nostre sentenze ancora una volta viene denunciata come “complotto dei giudici comunisti” e come indebito intralcio all’azione del governo. L’unica novità dei nostri giorni, certamente impensabile negli anni che ho raccontato, è la pretesa avanzata dal Governo Meloni che i giudici debbano collaborare con il potere esecutivo, “per il bene del paese”.
Per il resto, risuona di nuovo la vecchia accusa: “siete politicizzati”. Ma l’esperienza del passato ci dice che, ancora una volta, siamo sulla strada giusta e che la presenza di Md in questo paese è più necessaria che mai.
Testo dell’intervento pronunciato nella festa per i sessant’anni di Magistratura democratica svoltasi a Roma nei giorni 9 e 10 novembre 2024, destinato alla pubblicazione sul numero 4/2024 della Rivista Trimestrale