L’imparzialità è tema molto composito che associo istintivamente al titolo di un romanzo di Osman Lins, Avalovara. Avalovara è un uccello immaginario: un essere composto, fatto di tanti uccellini, una nuvola d’uccelli. Quello dell’imparzialità, infatti, è tema che presupporrebbe conoscenze non solo giuridiche, ma filosofiche, psicologiche, sociologiche, che non ho; ma forse, anche se le avessi, non basterebbero, perché è concetto che come pochi altri ci ricorda i nostri insuperabili limiti umani; limiti, che il giudicare è forse l’attività che più mette in evidenza. Ciò che possiamo e dobbiamo fare è averne consapevolezza e procedere con la povertà dei nostri mezzi e la nobiltà del nostro proposito: offrire la migliore giustizia possibile.
A questa difficoltà dell’oggetto si aggiunge, in questo incontro, un uditorio composito: giuristi (e che giuristi!) e non addetti ai lavori. Mi perdoneranno i primi se, rivolgendomi soprattutto a questi, dirò cose a loro più che note.
Partiamo da un’affermazione in cui tutti si riconoscono: il magistrato, anzi – per non perdere l’unanimità – il giudice deve essere e apparire imparziale.
Solo a tale condizione, si pensa, questo Giano bifronte può assicurare giustizia. Non è così: un giudice che appare imparziale può benissimo amministrare giustizia in modo parziale; un giudice che appare parziale può amministrare giustizia in modo imparziale.
L’essere e l’apparire sono a garanzia di valori diversi.
L'imparzialità del giudice è un presupposto necessario a garanzia di una giusta decisione nel caso concreto (111 comma 2 Cost.).
L’apparenza di imparzialità del giudice è posta a tutela di un interesse democraticamente non meno importante, ma diverso: la fiducia del popolo nella giustizia amministrata in suo nome (101 Cost.); ove manchi questa fiducia il sistema inclina pericolosamente verso l’autocrazia.
Ancora. Per il difetto dell’essere imparziale e per il difetto dell’apparire tale sono previsti rimedi diversi. Nel primo caso, l’ordinamento fa seguire, nella fisiologia, l’annullamento o la riforma della sentenza ingiusta nei gradi successivi di giudizio; nel secondo, sempre nella fisiologia, l’addebito di un’infrazione deontologica o, nei casi più gravi, disciplinare. Cui si dovrebbe accompagnare la riprovazione dell’opinione pubblica e, auspicabilmente, della stessa categoria di appartenenza.
Nel primo caso si può, motivando, criticare la decisione. Nel secondo, ha senso soltanto censurare il comportamento, impregiudicato il merito della decisione presa.
Già basterebbero queste scontate considerazioni per cogliere la strumentalità delle critiche ad personam mosse per attaccare decisioni politicamente sgradite, italico more. In genere, quando si è a corto di argomenti giuridici rispetto a provvedimenti giudiziari non graditi si fa ricorso alla radiografia del contesto personale, familiare e professionale del suo autore o autrice, rovistando nella pattumiera di emeroteche o di oscure videoteche alla ricerca di elementi di biasimo o, almeno, di sospetto. È una vecchia tecnica questa dell’aggressione polemica nei confronti dell’interlocutore (argumentum ad personam), cui si ricorre quando non si è in grado di confutarne le asserzioni (argumentum ad rem); una tecnica che rimanda a periodi non esaltanti della nostra storia e che rischia imbarazzanti sconfessioni (si pensi al “caso Apostolico”: una giudice messa al centro di video, di gossip sui propri familiari, di sollecitazioni ispettive per un provvedimento asseritamente illegittimo pronunciato altrettanto asseritamente in odio al Governo; Governo che poi ha rinunciato al ricorso in Cassazione che aveva promosso, provvedendo a rimodulare la normativa). Nihil novi: «sempre – avvertiva Piero Calamandrei – tra le tante sofferenze che attendono il giudice giusto, vi è anche quella di sentirsi accusare, quando non è disposto a servire una fazione, di essere al servizio della fazione contraria».
Chiarita la necessità di evitare sia ingannevoli connessioni, sia deplorevoli strumentalizzazioni, provo a soffermarmi brevemente sull’essere e sull’apparire.
Essere imparziale. L’imparzialità del giudice è un prerequisito per un giusto processo. L’ordinamento pone opportune e irrinunciabili condizioni (indipendenza, assenza di interesse all’esito della causa, esclusione dell’iniziativa d’ufficio), affinché l’imparzialità non sia compromessa, ma sarebbe illusorio pensare che, queste rispettate, il giudice pronuncerà per ciò stesso una sentenza giusta.
Il giudice, come ognuno di noi, è un portato di educazione, esperienze, memorie, affetti, convinzioni: al sovrumano compito del giudicare si avvicina fatalmente con la sua individuale, irripetibile umanità e con tutti i limiti che ne derivano. Si può pretendere che sia disinteressato all’esito, ma è umano e in qualche misura rassicurante che non sia mai indifferente alla res iudicanda. In un recente libro scritto, tra gli altri, dal premio Nobel Daniel Kahneman ed altri Autori, Rumore, si sostiene – con il copioso supporto di ricerche, riscontri, statistiche – che ogni giudizio, in qualunque materia (medicina, giustizia, economia, ecc.), anche rispetto a settori in cui sono praticabili accertamenti specialistici apparentemente connotati da oggettiva scientificità (radiografia, prova del DNA, rilevazione e comparazione delle impronte digitali, perizia grafologica, ecc.) è soggetto a Rumore, cioè a molteplici fattori di condizionamento, perfino di carattere psicobiologico come la sazietà o il digiuno al momento della decisione. Vero che, come insegnava Andrew Lang, «noi usiamo le statistiche come gli ubriachi usano i lampioni: non a scopo di illuminazione, ma di sostegno». Tuttavia, l’autorevolezza degli Autori e la dovizia dei riscontri addotti inducono a pensare che davvero a parità di oggetto difficilmente tra più giudicanti si registra il medesimo giudizio.
Cosa può fare la legge per limitare i rischi da Rumore? 1) garantire l’indipendenza gerarchica e funzionale del giudice; 2) escluderne l’iniziativa accusatoria: chi formula una ipotesi è la persona meno adatta per giudicare della sua fondatezza 3) rendere ricusabile il giudice che non si astiene avendo interessi del processo (art. 36 c.p.p.), che depongono per una forte presunzione relativa di parzialità. Per il resto, è il magistrato che deve cercare di conoscere e governare le proprie inevitabili pre-propensioni.
Ma ogni ordinamento che, come il nostro, si affida al valore euristico del contraddittorio, deve sciogliere un altro nodo di fondo, che attiene al tipo di giustizia che vuole garantire. Se punta ad una giustizia bendata, secondo l’icona classica; una giustizia che deve limitarsi a prendere atto della “verità” sostenuta dal migliore agonista dialettico, l’imparzialità deve tradursi in passiva neutralità. Se vuole che il prodotto processuale si approssimi quanto più possibile alla giustizia sostanziale, deve affidare al giudice un potere residuale e complementare per sopperire ad una parte processuale vistosamente carente e inadeguata. Riequilibrando il contraddittorio, il giudice favorisce l’emersione della verità, ma certo in tal modo risulta meno imparziale. Del resto, l’imparzialità è un mezzo, non un fine. E comunque si potrebbe anche aggiungere che proprio l’imparzialità, nella situazione considerata, consente al giudice di ravvisare un inaccettabile scompenso nel confronto delle opinioni per cercare di sopperirvi.
Come si vede, giudicare è un compito impossibile e necessario; la nostra conoscenza è costretta a muoversi nel crepuscolo delle probabilità (Locke). La limitatezza dei mezzi di cui disponiamo, e quindi di cui dispone un giudice, ci ricorda che la nostra giustizia umana deve mettere in conto l’errore e l’approssimazione. Teniamocela però cara e difendiamola questa giustizia resa da uomini indipendenti secondo un percorso cognitivo disegnato dalla legge (cioè dai rappresentanti del popolo nel cui nome la giustizia viene amministrata); le alternative sono drammaticamente peggiori: anche se possono usurpare il nome di giustizia, sono il frutto della sopraffazione politica, religiosa, economica, criminale. Comunque, espressione della legge del più forte.
Cerchiamo di non dimenticarlo nei momenti, come questo, in cui il potere politico inveisce contro le pronunce della magistratura: la collettività si affida al giudice indipendente vincolandolo ad attenersi al percorso processuale predisposto dai propri rappresentanti non perché ciò sia garanzia di infallibilità, ma perché costituisce la migliore e disinteressata giustizia che siamo in grado di produrre.
L’imparzialità – come abbiamo visto, concetto poliedrico, complesso e sfuggente per il comune cittadino – è invece concetto chiarissimo per il politico, specialmente in quest’ultimi tempi: l’imparzialità è quella dote che il magistrato perde quando procede contro un esponente della propria parte politica (Delmastro, Toti, Salvini) o contro non condivise scelte governative (caso Apostolico l’altro ieri; ieri la mancata convalida del trattenimento dei migranti in Albania). La giustizia in questo caso perderebbe di imparzialità, per diventare una giustizia a orologeria, prevenuta contro un politico della maggioranza o contro il governo da questa espresso.
E sin qui, a parte la noia per questo refrain stucchevole e patetico, ancora nihil novi. L’espressione “giustizia a orologeria”, coniata da Craxi trent’anni fa, è stata poi coltivata con inesausto impegno da Berlusconi, Bossi, Renzi (con maggiora originalità lessicale) e giù per li rami. Ma di recente non ci si limita più a puntare l’indice politico contro il patologico uso del potere giudiziario, ma ci si spinge anche ad individuarne il rimedio: la riforma della giustizia. Ma perché una riforma della giustizia dovrebbe garantire che questi giudici faziosi cambino idea? Verosimilmente si allude soprattutto alla c.d. separazione delle carriere: ma si fa fatica a comprende come possa incidere sulla testa dei non pochi magistrati partigiani dell’opposizione nel cui mirino sono i politici e la politica di questo governo. Tanto più che si è sempre assicurato che con la separazione delle carriere non si punta alla dipendenza politica della magistratura requirente. A prima vista sembra proprio una giacca abbottonata non in corrispondenza delle asole. Ma il riferimento alla terapia è talmente insistito e da parte di esponenti così autorevoli del governo – personaggi politicamente navigati che hanno ben chiari, in genere, obbiettivi e mezzi – da far sorgere il sospetto che si parli di riforma della giustizia e si pensi ad altro. Che per riforma della giustizia intendano una normalizzazione della magistratura sotto il controllo della politica?
Prospettiva inquietante. E certo non tranquillizza il commento con cui la Premier ha stigmatizzato quella magistratura i cui provvedimenti sui migranti non avrebbero aiutato il Governo che starebbe aiutando il Paese. Siamo in presenza di una stecca rispetto al pentagramma costituzionale: la magistratura non deve e non può né cercare di aiutare, né cercare di ostacolare l’azione potere politico. Pensavamo che fosse ormai acquisita in una democrazia costituzionale come la nostra la differenza di statuti operativi – scolpita da Luhmann – tra l’azione politica che obbedisce ad un programma di scopo, cioè scelta dei mezzi per conseguire un obbiettivo, e l’azione giudiziaria, che deve obbedire ad un programma condizionale: “se si è verificato x, deve seguire l’effetto y previsto dalla legge”, irrilevanti restando le conseguenze politiche, economiche o d’altro genere. Di queste conseguenze si dovrebbe semmai far carico la politica nel momento in cui elabora la regola normativa da applicare.
Quanto precede non significa negare che in qualche isolato caso vi possa essere una iniziativa o un pronunciamento contaminato da motivazioni politiche, ma un tale sbinariamento dell’azione giudiziaria deve trovare oggi rimedio nei controlli apprestati dal sistema giudiziario.
Per la verità – mi rivolgo a coloro che trent’anni fa non erano ancora nati – avevamo in Costituzione un istituto per evitare che un uso strumentale del potere giudiziario potesse incidere sugli equilibri democratici: l’autorizzazione a procedere, che consentiva all’autorità politica di negare a quella giudiziaria di agire contro un rappresentante del popolo, quando nell’iniziativa di questa si ravvisava un fumus persecutionis. Se ne fece un uso talmente corporativo, per cui si finiva quasi sempre per “annusare” il fumus di questo intento persecutorio, negando anche la possibilità di procedere agli arresti del parlamentare raggiunto da gravi indizi di colpevolezza. Tanto che all’epoca me ne uscii con la battutaccia: molto fumus, niente arresto. L’autorizzazione a procedere venne abolita, ma la politica non volle rinunciare ad interporre schermi protettivi rispetto a singoli atti dell’azione giudiziaria quando si imbatte in un parlamentare. Sino a consacrare in Costituzione una facezia normativa: l’art. 68 comma 3 Cost., alla cui stregua tra l’altro, il magistrato deve richiedere il disco verde dalla Camera di appartenenza prima di sottoporre ad intercettazione un parlamentare: un atto a sorpresa con congruo e amplificato preavviso!
Talvolta, per alcune sortite degli attuali governanti, nasce il sospetto che la politica cerchi al riguardo la sua rivincita non già puntando ad un improbabile ripristino dello scudo dell’autorizzazione a procedere per proteggersi a valle dalle inchieste sgradite, bensì cercando di inibire a monte velleità inquirenti che possano disvelare illegalità commesse dai rappresentanti del popolo. Ma questo è solo un sospetto.
Resta il grave vulnus democratico arrecato da questa grave delegittimazione della funzione giudiziaria da parte del potere politico. Disconoscere alla magistratura la qualità che ne qualifica connota ruolo e funzione, l’imparzialità, significa pericolosamente compromettere la fiducia che la collettività deve riporre nella giustizia amministrata in suo nome: fiducia che costituisce architrave portante di una democrazia costituzionale.
Quando riusciremo ad affrancarci da questa ricorrente e deleteria fibrillazione istituzionale? Provo a rispondere: quando una collettività matura inizierà a non credere al vittimismo di chi è al potere, a cui un nemico di turno (giornalismo, magistratura, intellighenzia, Banca d’Italia, potentati economici) impedisce sempre di ben governare. Non sono molto ottimista sui tempi. Già più di 200 anni fa Gerard nell’Andrea Chenier cantava «Nemico della Patria? È vecchia fiaba che beatamente ancor la beve il popolo». Spero di sbagliare, ma il nostro mi sembra un popolo che ancora la beve volentieri.
E fin quando l’espediente rende non si può pretendere che la politica vi rinunci; e vi farà tanto maggiore ricorso, quanto più accentuata sarà la sua connotazione populistica. Si può solo aggiungere che se il nemico viene individuato in poteri economici avversi, in una stampa in mano all’opposizione, in alcuni Paesi esteri ostili ecc. siamo all’interno delle coordinate costituzionali, ma quando si afferma che la magistratura non aiuta il governo ad aiutare il Paese, come ha detto la Premier, siamo in presenza di una stecca rispetto al pentagramma costituzionale: la magistratura non deve e non può né cercare di aiutare, né cercare di ostacolare l’operato governativo. La ricordata differenza di statuti operativi tra l’agire politico e l’agire giudiziario, indefettibile proiezione della divisione dei poteri, comporta che, quando si arriva a pretendere che la magistratura persegua gli stessi obbiettivi governativi facendosi longa manus giudiziaria della politica, si finisce per determinare, magari anche al di là delle intenzioni, un deragliamento del Paese dal binario di una democrazia costituzionale.
Apparire imparziale. Rispetto alla esigenza che il giudice appaia imparziale si registrano orientamenti opposti e parimenti inaccettabili.
Con un argomento ad effetto che non riesce peraltro a coprire la sua fallacia, si liquida il problema sentenziando “se ho bisogno di un chirurgo o di un architetto non mi domando quali siano i suoi interessi o le sue idee politiche, bensì quali sono le sue capacità professionali”. Ineccepibile considerazione, ma argomentativamente è un’aberratio ictus: un conto è risolvere un problema tecnico, un conto è giudicare la condotta di un uomo. A nessuno verrebbe in mente di “ricusare” il chirurgo perché è uno stretto parente o perché ha già manifestato il suo parere in ordine alla migliore tecnica operatoria nel caso di specie. Semmai ne sarebbe rassicurato. Ma provate a chiedere ad un uomo che ha in corso un travagliato divorzio se trova normale essere giudicato da suo cognato.
Aggiungo, si parva licet, e soltanto per cogliere meglio l’improponibilità dell’accostamento: se mi chiedono un parere pro veritate, al committente non interessano le mie idee, i miei interessi, la mia parentela, ma solo la mia capacità professionale; se debbo far parte di una commissione di concorso debbo giustamente dichiarare l’assenza di cause di incompatibilità.
Per contro, neppure si può liquidare il problema dicendo che i magistrati debbono godere degli stessi diritti di libertà garantiti ad ogni altro cittadino. Anche il Capo dello Stato deve godere dei medesimi, eppure lo giudicheremmo gravemente censurabile se si mettesse a criticare una sentenza o una scelta politica (salvo che non si traduca in un provvedimento legislativo ictu oculi incostituzionale); critica che ovviamente, il quisque de populo può invece liberamente consentirsi. In sintesi: tanto più è istituzionalmente rilevante la funzione ricoperta, tanto maggiori debbono essere le garanzie assicurate a chi le ricopre e le cautele imposte al suo agire. Il giudice gode di guarentigie particolari (indipendenza, inamovibilità) e specularmente deve rispettare limiti all’esercizio dei diritti di agire e di esprimersi propri di ogni cittadino, giustificati dalla particolare qualità e delicatezza delle funzioni giudiziarie (Corte cost. n. 170 del 2018). Per questa ragione, giustamente si prevede che, «fermo il principio di piena libertà di manifestazione del pensiero, il magistrato» si debba «ispirare a criteri di equilibrio, dignità e misura» (art. 6 Codice etico magistrati).
Ma sarebbe di certo assurdo pretendere dal giudice un’afonia sociale, chiuderlo in una sorta di autismo professionale. Come ogni cittadino il giudice esprime nella sua proiezione sociale la sua individualità, la sua visione del mondo: legge alcuni quotidiani e non altri, segue riti di un particolare credo religioso o nessuno, fa parte di associazioni culturali o solidaristiche, ha selezionate frequentazioni personali, esprime certe idee, maturate dall’esperienza, dallo studio e dalla propria riflessione. Assurdo e controproducente vietaglielo: «non può esistere un giudice senza idee: guai se esistesse, ché – ha ben detto Livio Pepino – se ci fosse, sarebbe solo il portavoce di decisioni prese altrove».
Ma allora perché costituisce illecito disciplinare l’iscrizione ad un partito oppure la partecipazione sistematica e continuativa alle sue attività? Perché un conto è avere idee politiche, un conto è militare in una formazione politica: in questo secondo caso si tende inevitabilmente a identificarsi con le prese di posizione del partito e si ritiene di dover dar conto delle proprie opinioni eventualmente dissenzienti, essendovi un’attesa di omologazione da parte dell’organizzazione di appartenenza.
È stato giustamente osservato da Nello Rossi che «si può essere rigorosi difensori della libertà di manifestazione del pensiero del magistrato cittadino e al tempo stesso provare fastidio e criticare le cadute di stile e le torsioni poste in essere, sul terreno del discorso pubblico e della comunicazione, ad opera di alcuni magistrati».
Direi di più: proprio censurando queste condotte stonate e indebite, i magistrati sono maggiormente credibili quando difendono il diritto di manifestare con equilibrio e misura il proprio pensiero.
Se si censura e, se del caso, si sanziona la condotta del magistrato che partecipa ad una parodia giudiziaria in Tv relativa a un procedimento in corso; si esibisce in qualche rodomontata mediatica con riferimento ad un inchiesta di cui è titolare; contesta che la verità sia quella contenuta in una sentenza di assoluzione, dovuta ad una prova inutilizzabile per mero formalismo; afferma che non ci sono politici innocenti, ma soltanto politici non ancora scoperti; si vanta di tradurre in provvedimenti la volontà del popolo, anziché di amministrare giustizia applicando la legge in nome del popolo. Se si censurano esplicitamente e senza improprie solidarietà corporative queste ed altre esondazioni professionali e comportamentali, dicevo, si risulta più efficaci e più credibili quando si protesta per le persecutorie campagne di stampa con cui si sbraita contro la faziosità e la inaffidabilità di un magistrato per una intervista rilasciata su un problema di politica criminale; per aver partecipato ad una pacifica manifestazione di protesta; per appartenere a una certa corrente associativa; per aver indossato calzini dal colore improbabile.
Bisogna riconoscere che la magistratura ha saputo dettare regole di comportamento convincenti nel tracciare i limiti sia delle modalità di espressione delle proprie idee, sia della comunicazione giudiziaria. Semmai si vorrebbe una minore indulgenza nei confronti di coloro che quei limiti oltrepassano, anche rivedendo i meccanismi di valutazione della professionalità e di accertamento delle responsabilità disciplinari, che nel tempo hanno mostrato i limiti classici dell’autodichìa.
Sul piano della formazione professionale, sarebbe poi utile, anche ad evitare certe improprie posture sociali e mediatiche di taluni magistrati, dare adeguato spazio agli studiosi della psicologia della conoscenza per promuovere “una educazione alla propria inadeguatezza”, che consenta al magistrato di introiettare la consapevolezza dei limiti e dei subliminali condizionamenti del suo giudicare; che gli faccia capire, con Antoine Garapon, che il buon giudice non è quello stentoreamente sicuro del proprio verbo, ma quello in «permanente elaborazione del lutto di una giustizia perfetta»; che è un magistero, il suo, che va assolto con umile orgoglio: l’orgoglio di svolgere forse la più delicata e difficile delle funzioni pubbliche; l’umiltà che deriva dalla consapevolezza della propria connaturata inadeguatezza al compito.
Testo dell'intervento pronunciato alla quarta edizione del festival Parole di Giustizia, dedicato quest'anno a Democrazia e autoritarismi (Urbino/Pesaro, 18−20 ottobre 2024).